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Euroscettici, o forse no L’ambiguità dell’atteggiamento danese verso l’Europa

La propaganda dei partiti euroscettici in Danimarca, Francia, Italia e Polonia

4.1.2 Euroscettici, o forse no L’ambiguità dell’atteggiamento danese verso l’Europa

Se è vero che, da una parte, lo strumento referendario permette alla cittadinanza di prendere parte attiva al processo decisionale, e quindi di non essere “vittima” delle strumentalizzazioni e delle manipolazioni politiche particolarmente frequenti in presenza di questioni comunitarie (Svesson 2002); dall’altra, va tenuto in considerazione che la riduzione operata mediante la semplice contrapposizione tra il No e il Sì non permette di comprendere a fondo le ragioni alla base dell’atteggiamento dei cittadini verso l’Europa (De Vreese e Tobiasen 2007). In generale, si può osservare una certa bidimensionalità nell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’Europa, che dipende dall’inquadramento realizzato in occasione dei diversi referendum. Difatti, i referendum incentrati sull’aspetto dell’integrazione economica, e quindi basati sulla valutazione dei benefici derivanti dall’adesione, hanno visto una prevalenza del Sì, come accaduto in particolare per le consultazioni del 1972 e del 1986; diversamente, i referendum incentrati sull’integrazione politica, che quindi avrebbe portato a una perdita della sovranità nazionale, ad esempio quello del 1992 e del 2015, hanno visto una prevalenza del No (Svensson 2002; Hobolt 2009; Green-Pedersen 2012). Il referendum sulla moneta unica del 2000 rappresenta un caso emblematico, dal momento che nonostante il suo esplicito richiamo alla dimensione economica, nel dibattito si è inserita la dimensione identitaria e nazionalista. Se, da una parte, i partiti politici del fronte del Sì hanno fatto leva sui benefici e sui vantaggi derivanti dall’ingresso nell’eurozona; dall’altra, i partiti del fronte del No sono riusciti a incentrare il discorso sulla possibile perdita di sovranità derivante da tale sistema (De Vreese e Semetko 2004; Green-Pedersen 2012). La questione europea è dunque inserita all’interno di una valutazione di quelli che possono essere i benefici che il Paese otterrebbe ratificando i trattati, e infatti sono numerosi i casi in cui la Danimarca ottiene degli opt-outs che gli permettono di

internazionale e il terrorismo. Una delle maggiori attività di Europol riguarda lo scambio di informazioni sulle attività criminali e la condivisione delle pratiche e delle competenze utilizzate (sito web ufficiale dell’agenzia: https://www.europol.europa.eu).

definire le modalità con cui prendere parte al processo di integrazione europea. Si potrebbe dunque parlare di un instrumental euroscepticism, che emerge quando le politiche e le decisioni comunitarie sembrano minacciare l’identità nazionale, la sovranità economica e quella politica (Larsen 1999; Buch e Hansen 2002; Lauring Knudsen 2008; Fitzgibbon 2013). Questo atteggiamento porta la Danimarca verso una “inclusione anomala”, dal momento che si guarda con favore alla cooperazione e alla collaborazione con l’Unione in diversi settori, ad esempio il welfare, l’occupazione e l’ambiente, ma allo stesso tempo si tende a mantenere una sovranità spesso incompatibile con l’Europa che si cerca di costruire.

Un altro aspetto che contribuisce a conferire ambiguità al rapporto tra la Danimarca e l’Unione Europea è la quasi totale assenza della issue Europa all’interno dei dibattiti elettorali – anche negli anni successivi alle elezioni europee del 2009, durante i quali l’attenzione nei confronti dell’Europa aumenta nella maggior parte degli Stati membri, le questioni comunitarie mantengono un ruolo marginale. I referendum sull’Europa sono stati indetti lontano dalle competizioni nazionali proprio allo scopo di isolare le questioni comunitarie dalla politica interna. Si tratta di una decisione che sembra essere dovuta sia alle divisioni interne delle forze politiche, spesso caratterizzate da profonde spaccature in riferimento alle

policies europee, sia alle fratture presenti tra gli elettori di uno stesso partito, anch’essi divisi

tra sostenitori e scettici (Lauring Knudsen 2008; Polgár 2014). Questa condizione potrebbe spiegare la difficoltà incontrata dai partiti mainstream nell’esprimere una posizione univoca in merito alle questioni comunitarie, e pertanto risulta difficile comprendere quali siano le forze esplicitamente caratterizzate da un atteggiamento euroscettico; emblematico in tal senso il caso del Partito Popolare Socialista, che si afferma quale forza critica verso l’Unione per poi accettare la membership e dichiararsi a favore di una maggiore integrazione (Polgár 2014). Di conseguenza, in Danimarca si sono andati formando partiti minori con l’esplicito obiettivo di opporsi all’Europa e al processo di integrazione. Si tratta di forze politiche che hanno fatto della issue Europa un tema chiave all’interno del proprio programma politico, anche grazie all’attenzione rivolta a tematiche particolarmente connesse alla dimensione europea, come la migrazione e l’ambiente (Green-Pedersen 2006; Green-Pedersen 2012). In linea con quanto discusso, non sorprende che i partiti mainstream siano meno interessati alle questioni comunitarie, e quindi la issue Europa mantiene un ruolo marginale all’interno dell’agenda politica di tali forze – accade per i socialdemocratici, ma anche per i conservatori e i liberali, che hanno destinato una particolare attenzione all’Europa solo nel corso delle elezioni politiche del 1990 a causa della rilevanza riconosciuta alle modifiche che sarebbero state introdotte con il Trattato di Maastricht nel 1992.

Diverso il caso dei partiti sorti esclusivamente per raccogliere le istanze anti-europee; si tratta di partiti “di scopo”, che incentrando la loro politica sulla issue Europa decidono di competere solo in occasione delle elezioni europee. Il primo è il Movimento Popolare contro

l’UE (Folkebevægelsen mod EU - N), sorto nel 1992 in occasione del referendum sul Trattato di Maastricht, che si oppone al processo di integrazione europea nel suo complesso; il partito raggiunge un notevole risultato nelle elezioni parlamentari del 1979, dove conquista il 29% di voti. Il secondo è il Movimento di Giugno (Juni Bevægelsen – J), nato nel 1992 in seguito alla fuoriuscita di alcuni membri dal Movimento Popolare contro l’UE, che non accetta l’UE nella sua attuale configurazione, ma promuove la cooperazione in alcuni settori. La differenza tra le due forze politiche è spiegata facilmente con l’utilizzo delle definizioni di Taggart (1998): mentre il Movimento Popolare contro l’UE può essere ricondotto a un euroscetticismo hard, data la sua volontà di lasciare l’Unione, il Movimento di Giugno è, invece, caratterizzato da un euroscetticismo soft, poiché emergono posizioni critiche verso specifiche policies (De Vreese e Tobiasen 2007; Lauring Knudsen 2008; Viviani 2009). A questi si aggiungono altre due forze politiche, collocate rispettivamente uno a sinistra e uno a destra dello spettro politico, che prendono parte anche alle competizioni nazionali e che quindi non solo legati esclusivamente alla issue Europa: la Lista dell’Unità, anche denominato I Rosso-Verdi, (Enhedslisten / De Rød-Grønne – EL) e il Partito Popolare Danese (Danks Folkeparti – DF). Il primo nasce come coalizione dei partiti di estrema sinistra in occasione delle elezioni del 1989, ma non ha mai ottenuto un numero di voti sufficiente per ottenere un buon numero di seggi al Folketing. Si tratta dell’unica forza politica danese considerata effettivamente espressione di un hard euroscepticism, poiché si fa portavoce di istanze anti-globalizzazione e anti-capitaliste che non possono trovare riscontro nell’assetto comunitario. Il secondo è un partito che ha ottenuto un maggiore successo sia a livello europeo, in occasione delle elezioni del 2009 e del 2014, sia a livello nazionale con le elezioni del 2015. Il Partito Popolare Danese non nasce come forza anti-europeista, ma le politiche nazionali di cui si fa portavoce sono fortemente legate all’andamento del processo di integrazione e alle politiche comunitarie. Proprio la presenza di un discorso più ampio, che non si basa esclusivamente sull’opposizione all’Europa, ha probabilmente permesso a questo partito di ottenere un maggiore successo rispetto alle altre forze politiche euroscettiche (Lauring Knudsen 2008; Fitzgibbon 2013; Polgár 2014).

In questo contesto, appare complesso comprendere l’atteggiamento dei cittadini-elettori nei confronti nell’Unione Europea, dal momento che non sempre la base elettorale di un partito è in linea con le posizioni che quest’ultimo esprime in relazione alle questioni comunitarie. Va ricordato che i cittadini non hanno mai rifiutato l’adesione all’Unione Europea, come dimostrato dal referendum del 1972, e inoltre hanno ribaltato il voto espresso sul Trattato di Maastricht un anno dopo proprio per evitare l’esclusione dallo spazio politico ed economico europeo. Ancora, è opportuno tener conto dell’interesse che i cittadini dimostrano nei confronti delle questioni europee attraverso l’analisi dell’affluenza alle urne: mentre nelle consultazioni referendarie i cittadini che esprimono il proprio voto non scendono in nessuna

occasione al di sotto del 70%, nelle elezioni per il Parlamento Europeo l’affluenza maggiore è quella registrata nel 2009, pari al 59,54% (Lauring Knudsen 2008).

L’euroscetticismo danese sembra dunque incentrato su quegli elementi che minacciano la “danesità” (Green-Pedersen 2012). Già negli anni del dopoguerra, la Danimarca si trova a dovere “scegliere” se entrare a far parte dell’Unione o se dar forma a un’opzione nordica che permettesse ai Paesi settentrionali di entrare in una più stretta collaborazione economica e politica (Hansen 1969; Ingebritsen 1998; Laursen e Olesen 2000; Hansen e Wæver 2002). L’alternativa nordica, poi svanita con l’ingresso della Svezia e della Finlandia nell’Unione Europea (Friis 2002), avrebbe permesso alla Danimarca di distaccarsi dalla Germania e di rivendicare la sua appartenenza a un contesto settentrionale nonostante la sua vicinanza geografica all’Europa meridionale, nonché di uscire da quel “complesso di inferiorità” che ha caratterizzato i rapporti tra la Danimarca e la Germania (Lammers 2000). Proprio le argomentazioni filo-nordiche e anti-tedesche divengono centrali nella narrazione dello Stato nazionale danese come attore sovrano e unitario, e di conseguenza utilizzate dai partiti euroscettici per motivare la propria opposizione all’Unione: non un rifiuto netto e immotivato, ma la volontà di realizzare qualcosa di diverso e vicino al domestic context (Hansen e Wæver 2002; Lauring Knudsen 2008). L’idea che l’Europa potesse minacciare non solo la sovranità nazionale, ma anche l’identità e le radici storiche della Danimarca, ha influenzato in modo consistente la narrazione politica sul tema e ha, inoltre, limitato la capacità dei cittadini danesi di avvicinarsi e riconoscersi in una identità europea sovranazionale.

La situazione politica danese dimostra che l’euroscetticismo non può essere in termini ideologici, ossia tenendo conto esclusivamente dell’appartenenza all’estremo desto o sinistro dello spettro politico; infatti, in relazione alle forze politiche danesi è utile la divisione fra euroscetticismo soft e hard, pur considerando che diverse sono le ragioni alla base di tale opposizione (Lauring Knudsen 2008). L’ambiguità con cui i partiti politici guardano al processo di integrazione europea ha portato verso la formazione di forze caratterizzate da un euroscetticismo soft, e quindi capaci di modificare le proprie posizioni in base al contesto e alle opportunità che la Danimarca sarebbe in grado di cogliere in vista di modifiche all’assetto comunitario – come effettivamente accaduto in occasione dei diversi referendum (Lauring Knudsen 2008). Si tratta di una condizione che suggerisce la diversità con cui la classe politica, ma anche i cittadini-elettori, guardano rispettivamente alla membership e all’integrazione: se, da un lato, la EU membership viene accolta con favore poiché considerata come una possibilità di crescita per il Paese, dall’altro, non si è in grado di comprendere quali siano gli effettivi benefici derivanti da una full integration, che sembra invece limitare in parte la sovranità economica e politica della nazione. Allo stesso tempo, però, l’assenza di posizioni

chiare e ben definite non permette alle élite politiche di prevedere quelli che sono gli atteggiamenti della popolazione, esplicati poi in occasione del voto.