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Diversità e tipologia delle lingue

l’origine del linguaggio e la diversità delle lingue

3.1 Diversità e tipologia delle lingue

Al fenomeno della diversità linguistica Vico dedica un intero paragrafo (445) della sezione dedicata alla Logica poetica. Il suo discorso inizia in modo convenzionale, ma poi le riflessioni si distendono mettendo in luce alcuni concetti cardine della sua filosofia del linguaggio:

Ma pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran verità: che, come certamente i popoli per la diversità de' climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e non altrimente son uscite in tante lingue, quant'esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza co' proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità si è avvisato. (445)

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Partendo dall’idea tipicamente settecentesca dell’influenza del clima sulla cultura e sulle istituzioni umane, Vico argomenta che se le necessità umane erano originariamente le stesse per tutti gli uomini, le differenze di clima hanno tuttavia prodotto nei popoli una diversità di reazioni a catena, per cui si sono venute a differenziare prima le nature, poi i costumi e infine le lingue. La diversità delle nature causata dai diversi condizionamenti ambientali ha infatti portato le comunità umane a guardare «le stesse utilità o necessità della vita umana con aspetti diversi». Dai diversi modi di guardare le medesime necessità della vita umana si sono così sviluppati i diversi costumi e le diverse lingue. In tal modo, potremmo osservare, la diversità linguistica viene ricondotta a un processo naturale, finendo così per confondersi con il processo che, nella concezione vichiana, porta l’uomo a sviluppare il linguaggio per dare significato alla sua esperienza. Ad esperienze diverse, quindi, corrispondono lingue diverse, e questo processo di differenziazione viene inevitabilmente a sovrapporsi a quello che dà vita alle tipologie linguistiche corrispondenti alle tre epoche in cui, secondo Vico, si suddivide la storia ideale eterna delle nazioni.

Il rapporto fra l’unitarietà delle necessità umane e le differenze nelle loro elaborazioni linguistiche si dimostra secondo Vico nei proverbi, che contengono le stesse massime ma spiegate nelle diverse lingue con modi diversi. Successivamente, Vico esemplifica ulteriormente il concetto chiamando in causa la diversità dei nomi degli stessi re nella storia sacra e in quella profana, la diversa denominazione delle città dell’Ungheria in ungherese, greco, tedesco e turco, la consuetudine del tedesco – «ch’è lingua eroica vivente» – a germanizzare quasi tutti i nomi delle altre lingue, e congettura che la stessa cosa deve essere avvenuta in greco e latino, vista l’«oscurezza che s'incontra nell'antica geografia e nella storia naturale de' fossili, delle piante e degli animali» (ibid.).

Con l’intento di ricondurre le diverse lingue a un insieme unitario di idee fondamentali, Vico richiama l’idea di un dizionario mentale già espressa nella

Scienza nuova prima:

Perciò da noi in quest'opera la prima volta stampata si è meditata un'Idea

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diverse, riducendole tutte a certe unità d'idee in sostanza, che, con varie

modificazioni guardate da' popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; del quale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza. (ibid.)

Il progetto ideato da Vico – ma mai realizzato – si rivela di non facile interpretazione all’interno delle sue considerazioni sulla diversità linguistica. Come si concilia infatti il concetto dell’individualità delle lingue, che si sviluppano assieme alla capacità cognitive degli esseri umani, con quello dell’universalità delle idee fondamentali di cui esse rappresenterebbero una visione particolare?

Innanzitutto bisognerà chiarire che il dizionario mentale in questione è cosa diversa dalla lingua universale (mathesis universalis) così come concepita da Cartesio e da Leibniz, dal momento che il dizionario vichiano non intende rappresentare un sapere sistematico e unitario sul mondo della natura, quanto piuttosto «l’unitarietà delle creazioni e delle istituzioni umane» (Coseriu 2010: 328).

Secondo Apel, «il progetto vichiano è indubbiamente un primo passo verso l’idea humboltiana della scienza comparativa del linguaggio» (1975: 474), idea che non va certamente confusa con l’approccio storico-comparativo che finì coll’imporsi nella linguistica ottocentesca (cfr. Trabant 1988). Lungo questa prospettiva andrebbe allora collocato anche il confronto tra il francese e l’italiano proposto, come abbiamo visto, nel De ratione, confronto che serviva a confermare il principio per cui «linguis ingenia, non linguas ingeniis formari». Ma nella Scienza

nuova, rileva sempre Apel (475), tale principio non risulta più operante, mentre

s’insiste su concetti universali come la comune natura delle nazioni, la storia ideale eterna e, appunto, il dizionario comune, mettendo in luce ancora una volta i presupposti platonici del pensiero vichiano (478).

Per Trabant, invece, Vico si muove lungo un versante diametralmente opposto a quello di Humboldt, dal momento che «a Vico non interessa affatto la ricostruzione e il confronto delle diverse ‘visioni del mondo’, sedimentate nelle lingue; proprio passando attraverso queste diverse visioni, Vico vuole tornare alla ‘lingua mentale comune a tutte le nazioni’» (1996: 212-213). Se il disinteresse verso il comparatismo humboltiano è un dato che emerge dalla Scienza nuova senza

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possibilità di smentita – ma l’idea della priorità della lingua sull’ingenium sostenuta nel De ratione dovrebbe allora essere interpretata come un ‘ramo secco’ del pensiero vichiano – d’altra parte il principio da cui Vico fa derivare la nascita e lo sviluppo delle lingue, cioè la capacità dell’uomo di stabilire relazioni analogiche (metaforiche) all’interno del suo mondo esperienziale, porta a considerare la diversità linguistica come un risultato della sua creatività, intesa come qualità precipua del suo essere.

Per questa via ecco allora riapparire il concetto dell’ingenium propria

hominis natura di cui Vico aveva trattato nel De ratione e nel De antiquissima, e da

questa prospettiva andrebbe quindi considerata anche la comparazione di carattere estetico a cui Vico giunge a conclusione del suo discorso sul dizionario mentale, dopo aver ricordato l’esempio fatto in precedenza (387-389) dei quindici diversi punti di vista da cui i padri di famiglia erano stato osservati «nel tempo che si dovettero formare le lingue»:

Da tutto lo che si raccoglie questo corollario: che quanto le lingue sono più ricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono più belle, e per ciò più belle perché son più evidenti, e perché più evidenti sono più veraci e più fide; e, al contrario, quanto sono più affollate di voci di tali nascoste origini sono meno dilettevoli, perché oscure e confuse, e perciò più soggette ad inganni ed errori. Lo che dev'essere delle lingue formate col mescolamento di molte barbare, delle quali non ci è venuta la storia delle loro origini e de' loro trasporti. (445)

L’elemento che distingue le lingue, in particolar modo quelle volgari, è quindi il diverso grado di bellezza da esse posseduto, frutto della loro storia particolare. La diversa bellezza delle lingue deriva infatti dalla ricchezza di quelle forme che Vico chiama «parlari eroici accorciati», che le rendono «più evidenti […] più veraci e più fide», cioè, in sostanza, la bellezza di una lingua dipende dal grado in cui in essa è ancora evidente la sua poeticità originaria10. Nel caso delle lingue che hanno subito un’influenza straniera questa poeticità si è invece opacizzata, perché le origini semantiche dei forestierismi e quindi i loro eventuali usi metaforici si perdono nelle nebbie della storia.

10 Pennisi (1987: 124-131) ha invece avanzato l’ipotesi che Vico considerasse i «parlari eroici accorciati» come delle varietà linguistiche anteriori, di carattere dialettale.

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Ma la riflessione sul carattere misto delle lingue, in cui gli elementi arcaici continuano ad affiorare nel tessuto delle lingue «volgari», proprie dello stadio della razionalità, sfocia in una considerazione sulla formazione delle tre tipologie linguistiche che sembra contraddire il principio evolutivo della tripartizione vichiana:

Ora, per entrare nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, è da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch'eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli dèi e di quella degli uomini), così nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue (intendendo sempre andar loro del pari le lettere); però con queste tre grandissime differenze: che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta, pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolata egualmente e di articolata e di muta, e 'n conseguenza di parlari volgari e di caratteri eroici co' quali scrivevano gli eroi, che σήματα dice Omero; la lingua degli uomini, quasi tutta articolata e pochissima muta, perocché non vi ha lingua volgare cotanto copiosa ove non sieno più le cose che le sue voci. (446)

Non si può non osservare che, se presa alla lettera, l’affermazione vichiana risulterebbe contraddittoria non solo riguardo all’aspetto linguistico, ma anche nei termini più generali di quella storia ideale eterna di cui si vogliono stabilire i principi. Se le tre epoche si distinguono per il diverso grado di complessità delle istituzioni create dall’uomo, non si può infatti pensare che tutte le articolazioni della civiltà siano sorte allo stesso tempo. Affrontando la contraddizione dal versante linguistico, Pagliaro ha tuttavia sostenuto che l’affermazione della contemporaneità della nascita delle tre tipologie chiama in causa un criterio fenomenologico, non genetico, cosicché «non si tratta più di tre momenti cronologicamente distinti della natura umana, ma di tre aspetti, che si unificano in essa e che convergono nell’unico risultato, che è il linguaggio come attività e come forma» (Pagliaro 1961: 422). L’idea della contemporaneità dei tre livelli rappresenterebbe, sempre secondo Pagliaro, il punto d’arrivo della speculazione vichiana sul linguaggio. Mentre Coseriu (2010: 343) è dell’opinione che il criterio di fondo della Scienza nuova rimanga in ogni caso quello storico-genetico, Trabant (1996: 53-56) ritiene invece che dal pensiero vichiano emerga una «contemporaneità delle due prospettive»,

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anche in considerazione del fatto che il filosofo napoletano poteva formulare le sue teorie sullo sviluppo del linguaggio solo proiettando sull’asse diacronico le sue intuizioni sulla molteplicità sincronica della semiosi.

Partendo da quest’ultima osservazione, potremmo allora osservare che il concetto dello sviluppo del linguaggio attraverso la sequenza gesti-simboli-segni non contrasta né con l’idea della compresenza delle tre tipologie – che lo stesso Vico del resto ammetteva a proposito della presenza nella lingua volgare dei «parlari eroici accorciati» – nè con la possibilità che esse possano insorgere con una modalità ricorsiva, rinnovando così il carattere misto delle lingue. Vico ci dà una famosa immagine della continuità di questo processo:

La favella poetica, com'abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l'acque portatevi con la violenza del corso. (412)

Sviluppando la suggestione vichiana, potremmo allora osservare che, come l’acqua dei fiumi continua ad addolcire quella del mare, così anche le lingue articolate in cui prevalgono i significati astratti possono non solo arricchirsi ‘poeticamente’ di nuovi traslati per designare nuove sensazioni, idee o esperienze, ma anche lasciar spazio a improvvise manifestazioni di «lingua muta», prodotte da reazioni spontanee di fronte ad eventi non comuni. Quando ci capita qualcosa di straordinario, non diciamo forse che «siamo rimasti a bocca aperta», oppure «senza parole», quanto a dire annichiliti nella nostra capacità di verbalizzare un’esperienza che supera la nostra immaginazione? Insomma, come dirà Leopardi, «il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni» (Zibaldone 141).

Ritornando all’immaginario antropologico dell’autore, ai «bestioni» primordiali non si dà invece la possibilità inversa, ossia la facoltà di passare immediatamente dal gesto alla parola arbitraria di significato astratto – che può essere intesa solo se codificata, cioè se convenzionalizzata –, perché ciò richiederebbe delle capacità cognitive di ordine superiore. Quando invece il passaggio è graduale, allora diventa plausibile l’occorrenza in sequenza immediata

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di elementi che appartengono a livelli di sviluppo contigui, come vedremo fra breve a proposito della spiegazione della nascita delle strutture linguistiche.

Da queste considerazioni, si può quindi concludere che il pensiero vichiano lascia intravedere un originale concetto di plurilinguismo interno alle lingue, di carattere tipologico, che per alcuni aspetti rivela dei punti di contatto con le considerazioni di natura sociolinguistica che avevamo visto emergere nel dibattito sull’origine dell’italiano. In un paragrafo precedente (443), seguendo il suo caratteristico procedimento ‘etimologico’, Vico aveva infatti spiegato l’apparizione del volgare nel mondo latino con l’apprendimento della lingua degli eroi da parte dei loro schiavi, i vernae, da cui il derivato vernaculae, parola con cui venivano denominate le varietà linguistiche parlate dal popolo. Nell’interpretazione vichiana, il passaggio alla lingua volgare viene così ricondotto a una differenziazione funzionale di carattere diastratico, quanto a dire a una diversa tipologia linguistica che s’impone nel momento in cui i servi si appropriano della lingua dei loro padroni, se accogliamo l’esegesi di Pagliaro (1961: 424)11.

Quanto alla formazione dei volgari romanzi, su cui si accapigliavano gli eruditi del tempo, Vico si limita a formulare un’ipotesi in base al principio della ricorsività della storia ideale eterna, ipotesi storicamente disarmante, ma perfettamente coerente con la sua visione dei fatti linguistici: siccome del periodo successivo alle invasioni barbariche rimangono solo documenti in «latino barbaro», mentre le prime attestazioni dei volgari, in base alle sue fonti, non sono antecedenti al XIII secolo, «resta da immaginare che’n tutti que’ secoli infelici le nazioni fussero ritornate a parlare una lingua muta tra loro» (1051).