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I dialetti come ‘tesoro’ linguistico

Gian Rinaldo Carli, Giuseppe Parini, Ferdinando Galiani

4.1 Saverio Bettinelli

4.1.2 I dialetti come ‘tesoro’ linguistico

La disinvoltura con cui Bettinelli affronta le questioni storico-linguistiche si rivela invece più pregnante al momento di trattare dei dialetti italiani, da lui considerati «più che i marmi e le medaglie stesse, non che le scritte memorie, il più durevole monumento d’antichità» (377). Dopo aver ricordato il ruolo dei trovatori nella nascita della poesia in volgare e nella conseguente formazione della «lingua universale d’Italia», Bettinelli propone un’inedita classificazione dei dialetti italiani

5 Pur non rilevando le contraddizioni presenti nella ricostruzione storico-linguistica del Bettinelli, anche Gensini osserva che «la sua lettura della questione sembra dipendere più che altro da presupposti ‘critici’ (o, come forse avrebbe detto, ‘filosofici’) inerenti lo sviluppo delle lingue in situazioni di contatto fra popoli ed etnie differenti» (1998a: 35-36).

6 Questa infatti l’affermazione di Muratori: «Noi ben sappiamo che la lingua dei Franzesi di allora si chiamava romana, e poi fu appellata romance. Fu di parere monsignor Fontanini che anche l’italiana e spagnuola fossero così denominate. Si può certamente dubitarne dell’italiana. Gli esempli da lui addotti solamente indicano la franzese» (1988: 61-62).

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realizzata con un criterio etnico7, cioè sulla base della presunta influenza esercitata da alcune popolazioni nella determinazione del ‘genio’, quanto a dire delle caratteristiche linguistiche delle varie aree italiane:

Trovasi nell’Italia una qualche verisimile partizione di questi dialetti concordi alle nazioni più dominanti in varie parti. I. Più greco è il genio e l’accento all’oriental mare e alle spiagge di Venezia, Sicilia, Napoli, Puglia, Calabria. II. Più gallico o celtico e all’occidente e lungo l’Alpi verso Francia e Germania e sotto l’Appennino e verso il Po da Ponente, Genovesato, Piemonte, Friuli più alto, Milanese, Bergamasco, Bresciano, Cremonese, Piacentino, Parmigiano, Modenese, Bolognese, Romagnolo. III. Più asiatico de’ Reti e Veneti o Eneti antichi, dal Trentino, basso Friuli, Trevisano, Padovano, Vicentino, Veronese, Adriano, Ferrarese, Mantovano. IV. Più etrusco ed Italo primitivo il Toscano, Romano, Spoletano, Orvietano, ulterior Marca ec. (377-378)

La classificazione di Bettinelli, pur nella sua approssimazione, presenta vari aspetti interessanti. Innanzitutto vale la pena rimarcare il fatto che il criterio etnico in realtà sottintende il principio dell’influenza sia del sostrato, principio che Bettinelli ricavava da Maffei, sia delle modalità di contatto che noi chiamiamo adstrato e superstrato. Inoltre, bisogna osservare che le grandi aree abbozzate da Bettinelli non si discostano molto, almeno in termini generali, dalla classificazione attuale, pur tenendo conto dell’inclusione del friulano nel gruppo «gallico o celtico» e della mancata considerazione del sardo. Per quanto riguarda la coerenza interna ai singoli gruppi, nel caso dei dialetti dell’«oriental mare» Bettinelli ne giustifica successivamente il carattere precisando che «i greci ne lasciarono molte [voci] a Venezia col gran commercio e più in Sicilia, Puglia e Calabria sin dopo il mille» (390). Corretta è inoltre la ripartizione in due gruppi dei dialetti del Friuli, dal momento che, storicamente, la fascia costiera orientale è linguisticamente veneta (cfr. Marcato 2001: 47-50). Di difficile comprensione è invece la collocazione nel gruppo asiatico del ferrarese e del mantovano, il dialetto natio dell’autore, anche se

7 Prima di Bettinelli, l’unica classificazione dei dialetti italiani che si ricordi è quella di Dante, realizzata sulla base di un criterio meramente geografico, cioè la collocazione a destra o a sinistra dello spartiacque degli Apennini. Fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento si sarebbero poi susseguite le classificazioni, ben più attente agli aspetti linguistici, di Denina (1797), autore su cui ci soffermeremo nella seconda parte di questo studio, Fernow (1808) e Biondelli (1853), per giungere infine a quella contenuta nell’Italia dialettale (1884) dell’Ascoli (cfr. Benincà 1988: 53-64).

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per la verità, nel precisare che fra alcune ripartizioni i confini non sono così netti, Bettinelli considera «Mantova e Ferrara un po’ galliche più dell’altre» (378).

Riflettendo sulle dinamiche della variazione dialettale, Bettinelli dimostra di essere consapevole delle cause fondamentali delle opposte tendenze all’innovazione e alla conservazione. Sottolinea infatti la presenza di «men fissi accenti» nelle aree costiere, anche insulari, più esposte alla presenza di stranieri, mentre rileva che «la situazione dentro terra è men variabile e quella de’ monti ancor meno del piano, perché men di là vengono al basso abitanti e più radi vi accorrono forestieri. Infatti quivi sono linguaggi antichissimi conservati mirabilmente» (ibid.). Considerando inoltre le immigrazioni come un ulteriore agente di differenziazione linguistica, Bettinelli si sofferma sulle isole linguistiche germaniche in trentino e nel veronese – confutando a proposito di queste ultime l’origine cimbrica sostenuta da Maffei, e propendendo invece per una colonizzazione avvenuta in epoca medievale – e accenna a quelle greche e dalmatiche (ossia albanesi) in Sicilia.

Il quadro tracciato da Bettinelli sottolinea quindi il ruolo degli apporti esterni nella determinazione della peculiarità linguistica della Penisola. Nella visione dell’autore, la complessa realtà dei dialetti non si configura pertanto come una presenza accessoria rispetto all’italiano, da lui inteso, al pari degli altri trattatisti settecenteschi non toscani, come lingua comune d’Italia. Per questa via, analogamente a quanto abbiamo riscontrato nell’Eloquenza italiana di Fontanini, si rivalutava il plurilinguismo storico della Penisola, considerandolo parte costitutiva di una situazione linguistico-culturale che trovava nella complessità il suo tratto identitario caratteristico, tratto che ancor oggi viene considerato uno dei più evidenti della realtà italiana (cfr. Galli della Loggia 1998: 9). Secondo l’autore infatti, oltre a essere, come quelle lombarde, «espressive, gentili, evidenti», le parole dialettali spesso avevano anche nobile origine, potendo risalire al greco, all’arabo, al celtico, all’etrusco, «giacché nulla più al tempo resiste quanto il facciano le parole» (390).

Per trarre profitto da questa eredità storica, Bettinelli lancia l’idea, certamente provocatoria – se pensiamo al purismo della Crusca –, di raccogliere tutta questa ricchezza storico-linguistica in un dizionario «universale»:

Or facciasi dunque un dizionario italiano; perché non vi avran luogo ancor queste [voci dialettali]? Ottimo certo sarebbe il pensiero di farsi in ciascun

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dialetto e provincia un proprio vocabolario, giacché sì saporite e sì grate son pure le poesie già publicate in milanese, bergamasco, genovese, veneziano, bolognese, napoletano ed in altri, nelle quali impiegarono le lor penne chiarissimi ingegni. Allor da questi particolari scegliendosi l’ottima parte, verrebbe a comporsi un dizionario universale a giudizio di tutta la nazione provato e s’avrebbe allor finalmente un vero tesoro di lingua. (390-391)

L’idea del tesoro del patrimonio linguistico italiano – di per sé non nuova8 – non trovò realizzazione, ma la proposta di un vocabolario aperto ai contributi regionali verrà di nuovo avanzata, come vedremo, da Cesarotti (Marazzini 2009: 262-263), autore assai sensibile al contributo che i dialetti avrebbero potuto offrire all’arricchimento lessicale dell’italiano (Cortelazzo 1980: 107). Diverso è invece il caso dei vocabolari dialettali, che nella visione di Bettinelli avrebbero dovuto costituire il serbatoio a cui attingere per la realizzazione del dizionario universale. Nella seconda metà del Settecento vennero infatti realizzati numerosi vocabolari bilingui dialetto-italiano, andando incontro alle esigenze del mondo della scuola, dove nell’ambito delle riforme realizzate dai principi illuminati era stato dato risalto all’insegnamento dell’italiano (cfr. Genovesi 2010: 18-27). Scopo di tutti questi dizionari era appunto quello di permettere l’apprendimento dell’italiano partendo dal dialetto (Cortelazzo 1980: 105-108)9. Del resto, alla diffusione dell’italiano era certamente attento anche Bettinelli, visto che, dopo aver sottolineato il rallentamento causato dalle discussioni linguistiche del Cinquecento nel processo di fissazione della lingua comune, si augurava «d’aver in Italia una lingua sicura e universale da scrivere in ogni stile bene studiandola senza timore di parti e di pregiudizi» (391).

Bettinelli conclude la sua trattazione con un elogio del francese, che grazie alle sue doti di naturalezza, semplicità e chiarezza si è imposto come modello nel

8 L’idea era stata già avanzata dal letterato materano Ascanio Persio (1554-1610) nel Discorso

intorno alla conformità della lingua italiana con le più nobili e antiche lingue e principalmente con la greca, pubblicato a Venezia e a Bologna nel 1592 (cfr. Vitale 1978: 71-72).

9 Questa rimase, del resto, la motivazione fondamentale dei dizionari bilingui composti nell’Ottocento, il secolo d’oro della lessicografia dialettale (cfr. Marazzini 2009: 312-315), anche se non va passato sotto silenzio il fatto che sia Cherubini sia Boerio, autori dei due dizionari dialettali più prestigiosi (rispettivamente quello milanese e quello veneziano), si richiamassero esplicitamente alle idee di Cesarotti (cfr. Cortelazzo 1980: 107).

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secolo XVIII nel mondo della cultura e anche nel mercato librario10. L’elogio suscita tuttavia una nota di sconforto, a conferma di come lo spirito di competizione riacceso dalle accuse di Bouhours avesse prodotto una chiara consapevolezza della necessità di un rinnovamento, che dal settore linguistico-letterario finiva per riverberarsi anche a quello dell’organizzazione politica: «or quando sia per riunirsi insieme tutta l’Italia e per formare con una lingua ancor più bella, com’ella può farsi, di cotal merce, io non mi so prevedere» (393).

Al di là di queste ultime considerazioni, che ritornano più volte anche nelle

Lettere inglesi (cfr. Gensini 1998a: 15-16), ciò che importa sottolineare nelle idee

linguistiche di Bettinelli è il fatto che l’esigenza di una lingua comune rinnovata non solo non si pone in conflitto con la valorizzazione dei dialetti, ma anzi, il plurilinguismo caratteristico della situazione italiana, prodottosi fin dall’antichità a seguito delle numerose migrazioni, viene concepito come una risorsa fondamentale per dar luogo a tale rinnovamento.