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Il rinnovamento della lingua italiana

Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti

2.2 Melchiorre Cesarotti

2.2.2 Il rinnovamento della lingua italiana

Quanto alla lingua italiana, nella quale questa tendenza regna «sopra d’ogn’altra», Cesarotti ritiene che il genio nazionale si possa cogliere meglio nelle opere degli «scrittori indisciplinati», piuttosto che in quelle «dei castigati e saputi», prendendo così una netta posizione contro il tradizionalismo e il purismo toscaneggiante, posizione dietro alla quale non è difficile intravedere il portato della sua esperienza di traduttore.

Secondo Cesarotti, oltre ad avvalersi delle già ricordate traduzioni, il rinnovamento della lingua italiana, che «al paro delle altre, è povera in proporzione dei bisogni dello spirito, e domanda d’essere arricchita di nuovi termini» (III, vii), doveva avvenire soprattutto a livello del lessico, secondo un ordine di priorità che viene ampiamente illustrato nella terza parte del Saggio. La prima fonte di rinnovamento dev’essere la lingua stessa, sia attraverso i processi di creazione metaforica (III, v), sia mettendo a frutto le sue potenzialità strutturali: «Sempre un

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verbo – sostiene infatti il filologo padovano – potrà generare i suoi verbali, sempre da un adiettivo potrà dedursi il sostantivo astratto, o dalla sostanza generale il nome adiettivo che ne partecipa» (III, viii). Nuove formazioni lessicali possono inoltre essere introdotte attraverso i composti, possibilità che Cesarotti riconosce alla lingua italiana, pur ammettendo che tale potenzialità non si è rivelata molto produttiva (III, ix).

In secondo luogo, la lingua può arricchirsi attingendo ai dialetti. Si chiede infatti Cesarotti:

Tutti i dialetti non sono forse fratelli? Non son figli della stessa madre? Non hanno la stessa origine? Non portano l’importanza comune della famiglia? Non contribuirono tutti ne’ primi tempi alla formazion della lingua? Perché ora non avranno il diritto e la facoltà d’arricchirla? I dialetti di Grecia non mandavano vocaboli alla lingua comune, come le diverse città i loro deputati al collegio degli Anfizioni? Non dice Quintiliano ch’egli reputa romani tutti i vocaboli italici? Perché vorremmo noi stabilire un assioma opposto, e creder barbari tutti gli italici fuorché quelli d’una provincia, anzi pure d’una città? (III, x)

Condividendo con gli altri autori non toscani del Settecento il concetto trissiniano dell’italiano come «lingua comune di tutti gli uomini colti d’Italia», Cesarotti considera quindi del tutto naturale l’integrazione nel corpo della koinè degli elementi dialettali, trovando un radicamento alla sua idea nella situazione linguistica dell’antica Grecia e nel pensiero di Quintiliano, e polemizzando invece contro la posizione fiorentinista. Nell’accogliere le parole dialettali Cesarotti raccomandava tuttavia giudizio, affinché esse si accordassero «alla foggia già convenuta, secondo l’analogia delle forme» (ibid.), in modo quindi da arricchire la lingua nei settori in cui essa è carente, evitando però rozzi municipalismi.

Se il «fondo nazionale» non può essere d’aiuto, allora bisogna ricorrere alle lingue straniere, che Cesarotti distingue, significativamente, in antiche e moderne. Per quanto riguarda le prime, il ricorso alla lingua latina è per l’italiano un fatto naturale, e permette di elevare lo stile del discorso. I latinismi dovranno però acclimatarsi, evitando così la pratica deteriore di «latineggiare italianamente» (III, xi). Diverso è invece il caso del greco da cui, osserva Cesarotti, sono derivati molti

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termini tecnici come barometro, termometro, telescopio ecc.. Pur ammettendo che «ella presenterà sempre ai dotti una miniera inesausta per la loro nomenclatura» (III, xii), l’autore tuttavia si chiede se il ricorso alla lingua greca sia realmente necessario, o se invece non sia possibile attingere all’italiano, facilitando così la comprensione di nuovi concetti da parte dei meno istruiti. Osserva infatti Cesarotti:

Termini di tal fatta non sono pel maggior numero che cifre cinesi e geroglifici egizi; essi tolgono alle classi medie qualunque comunicazione con la scienza, e ritardano i progressi dello spirito e della cultura nazionale: laddove le idee dottrinali stemperate nell’idioma comune spargerebbero nel popolo qualche barlume di scienza utile agli usi della vita, e ne desterebbero il gusto. (ibid.)

Invece di «grecheggiare eternamente senza necessità», l’autore propone una graduale e «acconcia sostituzione» dei grecismi «a vantaggio comune ed a vero arricchimento della lingua» (ibid.).

Per quanto riguarda le lingue straniere moderne, che secondo Cesarotti nell’Italia contemporanea si riducono al francese, vista l’ascendenza esercitata dalla cultura transalpina, dopo aver stigmatizzato «coloro che vanno tutto giorno infrancesando la lingua italiana senza proposito», l’autore non può evitare di chiedersi:

Ma dall’altro canto, se la lingua francese ha dei termini appropriati ad alcune idee necessarie che in Italia mancan di nome, e se questi termini hanno tutte le condizioni sopra richieste, per quale strano e ridicolo aborrimento ricuserem di accettarle? Che la Francia abbia molti termini di questa specie non è permesso di dubitarne se non a chi è affatto digiuno delle conoscenze del secolo. Qual insensato patriottismo ci fa dunque sdegnar i frutti stranieri che possono esserci d’alimento e delizia? (III, xiii)

L’ironia nei confronti dei puristi si fa poi sferzante quando ricorda come molti francesismi siano stati accolti nella lingua italiana già nel Trecento, nota storico-linguistica da cui scaturisce l’inevitabile domanda: com’è dunque possibile che «si pretenda ora ch’ella divenga ritrosa, schizzinosa e fantastica, quando si tratta di nuove scelte a proposito, autorizzate dal bisogno e non rifiutate dal gusto?» (ibid.).

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A ben vedere, proprio le necessità del «bisogno» e del «gusto», binomio che coniuga l’ideale del progresso della società e della cultura con la convenienza espressiva e il piacere estetico – necessità queste ultime a cui nessun letterato avrebbe potuto rinunciare –, sembrano essere i denominatori comuni dell’apertura cesarottiana nei confronti degli scambi linguistici, apertura che non ha pari nella cultura italiana del Settecento, e che venne aspramamente criticata, fra gli altri, dal già ricordato Galeani Napione.

Nella quarta parte del Saggio si palesa così in tutta la sua ampiezza e profondità l’avversione dell’abate padovano nei confronti dell’Accademia della Crusca e dello strumento che ne incarnava i principi, quel Vocabolario di cui da pochi decenni era uscita la quarta edizione (1729-1738). Dopo aver ripercorso la storia dell’Accademia ed essersi soffermato sulle timide innovazioni lessicali introdotte progressivamente nelle varie edizioni del Vocabolario, Cesarotti pronuncia la sua inappellabile condanna del principio purista che ne sta alla base, lanciando un proclama a favore del ‘liberismo linguistico’:

Non si tratta di un aumento precario di vocaboli, si tratta di libertà; ma d’una libertà permanente, universale, feconda, lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione in cui risiede la facoltà di far leggi. È tempo ormai che l’Italia si affranchi per sempre dalla gabella delle parole bollate, come gl’insurgenti d’America si affrancarono da quella della carta. (IV, xiii)

Dopo aver chiarito che «questo è l’oggetto che ci siamo proposti nello stender il Saggio presente» (IV, xiv), l’autore avanza una serie di proposte che si configurano come un vero e proprio progetto di politica linguistica a favore della lingua «della nazione» (IV, xv). Innanzitutto, Cesarotti caldeggia l’istituzione di un «Consiglio Italico per la lingua», con sede a Firenze, il cui governo venga esercitato dai membri dell’Accademia fiorentina, l’erede dell’Accademia della Crusca di fatto soppressa nel 1783. Il Consiglio Italico si sarebbe poi dovuto avvalere di una serie di Consigli provinciali, composti dai letterati più prestigiosi, scelti dall’organo centrale, ai quali demandare l’elezione dei soci a livello locale.

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In secondo luogo, l’autore si sofferma sulle azioni da intraprendere, di cui fornisce un elenco dettagliato (IV, xvi): ricerche di storia della lingua; ricerche etimologiche; studio sui dialetti e redazione di specifici vocabolari; spogli lessicali sia dagli autori classici sia da quelli non inclusi nel Vocabolario della Crusca; ampliamento del lessico tecnico-scientifico della lingua nazionale con termini prelevati dai dialetti o da altre lingue; confronto fra il vocabolario dell’italiano così accresciuto e quello delle altre lingue; compilazione di due vocabolari, uno ad uso degli studiosi, di carattere etimologico, storico, filologico, critico, retorico, comparativo, contenente tutte le voci di tutti i dialetti, e l’altro più ridotto, destinato ai comuni utenti della lingua, ma arricchito rispetto al vocabolario attuale nella terminologia tecnico-scientifica, purgato degli arcaismi più desueti, aggiornato negli esempi e integrato con alcune etimologie che «possono servir di lume nell’uso de’ vocaboli»; traduzioni di autori di tutte le lingue; studi sulla lingua e lo stile delle opere degli autori celebri recentemente scomparsi; peer reviewing (!) degli scritti degli autori viventi ma solo a richiesta degli stessi, mentre, in caso contrario, il Consiglio si sarebbe astenuto dall’esprimere giudizi sulle loro opere.

Illustrato l’ampio ventaglio di proposte, il Saggio si conclude con un’affermazione di forte ottimismo riguardo alla realizzabilità degli interventi diretti dal Consiglio italico:

L’impresa è grande: ma che non può il zelo, la riunione, il concerto? L’Italia abbonda d’ingegni attissimi a verificarla; Firenze gli raccolga, ne formi un corpo, lo diriga, lo animi: il volere fu sempre la cote del potere; si voglia davvero, e si potrà. (IV, xvi, 12)

Dal nostro punto di osservazione, è fin troppo facile rilevare l’ingenuità del proposito cesarottiano. E ciò non solo «perché non per via legislativa, sia pur nazionale, poteva rendersi viva e comune in tutti i gradi della nazione la lingua italiana» (Vitale 1978: 276-277), ma anche per il fatto che, quand’anche il volere fosse stato davvero una dura cote, per disporre di un potere in grado di intraprendere una politica linguistica nazionale – sia pur limitata alla lingua scritta, come nell’orizzonte teorico cesarottiano –, si sarebbe dovuto comunque attendere l’Unità. Ma come ognuno sa l’unificazione politica del paese si concretizzò in altra

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temperie culturale, e quella linguistica venne concepita (certamente non realizzata) secondo i principi dettati dal Manzoni.