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Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti

2.2 Melchiorre Cesarotti

2.2.1 Il traduttore come autore

L’elaborazione di una filosofia delle lingue a partire da un’esperienza concreta di traduzione caratterizza anche il caso, ben più famoso, di Melchiorre Cesarotti (1730-1808)10. Filologo, critico, docente dal 1768 di lingua greca ed ebraica all’Università di Padova, Cesarotti occupa un posto di rilievo nel panorama letterario italiano per la sua traduzione dei Canti di Ossian (1763-1772), opera che ha avuto un’influenza rilevante su autori come Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi, per i quali la traduzione di Cesarotti è stata «un’esperienza da “attraversare”, un po’ come diceva Montale di D’Annunzio» (Mattioda 2000: xxix)11.

Limitando la nostra attenzione al livello linguistico dell’operazione cesarottiana, non sarà inutile riprendere alcune osservazioni contenute nel Discorso

premesso alla seconda edizione di Padova del 1772. Esplicitando un’istanza di

rinnovamento della tradizione linguistico-letteraria italiana, istanza che percorre tutto il dibattito settecentesco, fino ad assumere toni di aspra polemica nella famosa

Rinunzia avanti notaro al Vocabolario della Crusca (1764) di Alessandro Verri,

Cesarotti rivendica l’originalità della sua operazione di fronte alle obiezioni del conservatorismo cruscante:

Io so ben che alcune di queste locuzioni non sarebbero sofferte in una poesia che fosse originariamente italiana, ma oso altresì lusingarmi che abbia a trovarsene più d’una che possa forse aggiungere qualche tinta non infelice al colorito della nostra favella poetica, e qualche nuovo

10 Per un profilo dell’autore nell’ambito del pensiero linguistico settecentesco e per una prima bibliografia di riferimento vedi Puppo (1984).

11 Oltre al saggio di Mattioda, sull’Ossian e, più in generale, sulle riflessioni cesarottiane riguardo la traduzione si vedano i contributi di Melli (2002), Brettoni (2004), Coluccia (2005), Daniele (2009), Baldassarri (2011).

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atteggiamento al suo stile. Questo è il capo per cui specialmente può rendersi utile una traduzione di questo genere, e questo è l’oggetto che io mi sono principalmente proposto. (Cesarotti 2000: 6)

Nella sua moderata, ma non per questo meno ferma difesa degli elementi di novità linguistica e stilistica presenti nella sua traduzione, Cesarotti si fa attivo portavoce di alcuni principi basilari della cultura illuminista, che nel proclamare gli ideali del progresso e del cosmopolitismo di fatto poneva il letterato non solo di fronte al problema del rapporto con la tradizione, ma anche, soprattutto nel caso di un traduttore, a quello della mediazione fra lingue, culture e finanche ambienti naturali molto diversi fra di loro, come nel caso dei Canti di Ossian. Nell’affrontare il problema della fedeltà al testo originario, Cesarotti dichiara di aver seguito un metodo affine a quello proclamato dall’Ortes:

Quanto a me, ho seguito costantemente lo stesso metodo di tradurre, cioè d’esser più fedele allo spirito che alla lettera del mio originale, e di studiarmi di tener un personaggio di mezzo fra il traduttore e l’autore. (8-9)

Dalle considerazioni del Cesarotti emerge così la figura di un «traduttore competitivo» (Melli 2002: 374), che interponendosi come un personaggio fra lo scrittore dell’opera originaria e il suo mediatore finisce coll’assumere i connotati di un vero e proprio autore, autorizzato a forzare quello strumento espressivo che si era rivelato

una lingua felice a dir vero, armoniosa, pieghevole forse più di qualunque altra, ma assai lontana (dica pur altri checché si voglia) dall’aver ricevuto tutta la fecondità e tutte le attitudini di cui è capace, e, per colpa dei suoi adoratori, eccessivamente pusillanime. (12)

A ben vedere, rispetto alla posizione dell’Ortes, tutto sommato conservatrice nella dichiarazione di fedeltà al genio stilistico della lingua d’arrivo, Cesarotti si spinge molto più in là nella rivendicazione della libertà del traduttore, anche se poi, al momento di rappresentare la natura nordica e selvaggia, sconosciuta alla

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tradizione classicistica, nella sua traduzione la novità viene di fatto temperata col ricorso a varie citazioni dalla tradizione poetica italiana, in particolare da Dante, Petrarca e Tasso (cfr. Mattioda 2000: xxv-xxvi).

L’attenzione alla figura del traduttore emerge anche nel Saggio sulla

filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana (1800), la summa del pensiero

linguistico di Cesarotti, opera in cui confluisce l’esperienza dei Canti di Ossian incanalandosi lungo i due versanti della riflessione teorica da un lato e della sua applicazione alle varie dimensioni della lingua italiana dall’altro12. Ritenendo che, per arricchire la lingua letteraria della Penisola, «nulla gioverebbe maggiormente che l’instituire una serie di giudiziose traduzioni degli autori più celebri di tutte le lingue in tutti gli argomenti e in tutti gli stili» (III, xviii)13, Cesarotti ci consegna un’apologia del «traduttore di genio» la cui lingua è superiore a quella di uno scrittore, così come il controllo del corpo di un atleta è superiore all’andatura di un uomo comune:

Un traduttore di genio prefiggendosi per una parte di gareggiar col suo originale e sdegnando di restar soccombente; temendo per l’altra di riuscire oscuro e barbaro ai suoi nazionali, è costretto in certo modo a dar la tortura alla sua lingua per far conoscere a lei stessa tutta l’estensione delle sue forze, a sedurla accortamente per vincere le sue ritrosie irragionevoli e ravvicinarla alle straniere, a inventar vari modi di conciliazione e d’accordo, a renderla in fine più ricca di flessioni e d’atteggiamenti senza sfigurarla o sconciarla. La lingua d’uno scrittore mostra l’andatura d’un uomo che cammina equabilmente con una disinvoltura o compostezza uniforme; quella d’un traduttore rappresenta un atleta addestrato a tutti gli esercizi della ginnastica, che sa trar partito da ognun de’ suoi membri, e si presta ad ogni movimento più strano così agevolmente, che lo fa sempre parere il più naturale, anzi l’unico. (ibid.)

12 Il pensiero linguistico di Cesarotti ha goduto di particolare attenzione nella storiografia linguistica italiana. Dopo le note pionieristiche di Nencioni (1950: 7) e quelle ben più ampie di Puppo (1957: 55-83), e dopo i capitoli ad esso dedicati da Vitale (1978: 271-277) e da Marazzini (1989: 165-168; 1993: 295-304; 1999: 134-143), più recentemente hanno contribuito a metterne in luce l’originalità e i debiti nei confronti della tradizione italiana ed europea i lavori di Perolino (2001), Battistini (2002), Brioschi (2002), Coluccia (2005), Nobile (2007), Paccagnella (2011), Daniele (2011), Roggia (2011).

13 Per agevolare il reperimento dei passi in edizioni diverse da quella da cui si cita, curata da Ugo Perolino (Cesarotti 2001), i luoghi del Saggio vengono indicati con il doppio riferimento del numero romano maiuscolo (parte) e di quello minuscolo (capitolo).

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L’idea dell’agone linguistico, in cui il traduttore-atleta doveva far mostra della sua abilità, non poteva, d’altra parte, non entrare in conflitto con il concetto più diffuso nel pensiero linguistico settecentesco, cioè quello di ‘genio della lingua’. La soluzione individuata da Cesarotti, che a tal proposito prende esplicitamente le distanze da Condillac, uno dei suoi principali riferimenti filosofici, gli permette tuttavia di rimanere all’interno delle coordinate teoriche dell’illuminismo, pur con un importante tratto di originalità. Secondo Cesarotti, la lingua si suddivide in due parti, una logica, «che serve unicamente all’uso dell’intelligenza», e l’altra retorica, «che, oltre all’istruir l’intelletto, colpisce l’immaginazione» (I, ii). Di conseguenza anche il genio di una lingua si compone di due parti, distinguendosi in

grammaticale, che riguarda la struttura morfologica e sintattica di una lingua, ed è

pertanto inalterabile, e retorico, suscettibile invece di modificazioni, essendo «il risultato del modo generale di concepire , di giudicar, di sentire che domina presso i vari popoli» (ibid.). Dopo aver precisato che «il genio della lingua è propriamente l’espressione del genio nazionale», Cesarotti può pertanto trarre le conclusioni logiche del suo ragionamento affermando che tutto ciò che produce delle modificazioni nel genio retorico deve necessariamente produrre delle alterazioni anche nel genio grammaticale (ibid.).

Sul piano più propriamente storico, nel confutare l’opinione di Condillac in merito alla stabilità del carattere di una lingua, Cesarotti prima adduce l’esempio del mutamento a cui furono soggette anche le lingue dei greci e dei latini, nonostante la loro superiorità culturale rispetto alle altre popolazioni con cui erano entrate in contatto, e poi celebra con una sintesi di grande effetto il progresso e l’integrazione culturale favoriti dai rapporti e dagli scambi sempre più stretti intercorsi fra le nazioni europee in epoca moderna:

La scoperta d’un mondo incognito, il commercio e la comunicazione universale da un popolo all’altro, la propagazione dei lumi per mezzo della stampa, le conoscenze enciclopediche diffuse nella massa delle nazioni, che trapelano insensibilmente fino nel popolo, i tanti capi d’opera di cui abbondano tutte le lingue più celebri, e attraggono da ogni parte gli sguardi, i pregiudizi d’una tolleranza filosofica sostituiti in ogni genere a quelli del patriottismo, non solo hanno prodotta una rivoluzione generale in tutti gli spiriti, ma insieme atterrarono tutte le barriere che separavano anticamente una nazione dall’altra, e confusero in ciascheduna le tracce del loro

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carattere originario. Le antipatie religiose e politiche non si conoscono più, le usanze e le opinioni sono in una circolazione perpetua; l’Europa tutta nella sua parte intellettuale è ormai divenuta una gran famiglia, i di cui membri distinti hanno un patrimonio comune di ragionamento, e fanno tra loro un commercio d’idee di cui niuno ha la proprietà, tutti l’uso. In tal rigenerazione di cose non è assurdo l’immaginare che il genio delle lingue possa conservarsi immutabile? (ibid.)

Sullo slancio della sua conclusione illuminista, Cesarotti inoltre afferma che a tal punto è forte la tendenza delle lingue europee ad avvicinarsi fra di loro «che senza il genio grammaticale, da cui solo si forma la linea di divisione insormontabile fra l’una e l’altra, diverrebbero a poco a poco una sola, e molte opere d’una lingua non parrebbero che traduzioni dall’altra» (ibid.). Affermazione di grande portata, quella dell’abate padovano, nella quale sembra essere già tutta presente quella lucida comprensione delle dinamiche linguistico-culturali che nel giro di un paio di decenni avrebbe portato Leopardi a riconoscere nel lessico delle lingue europee la categoria degli ‘europeismi’.