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Individualità e convenzionalità delle lingue

Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti

2.1 Giammaria Ortes

2.1.1 Individualità e convenzionalità delle lingue

Come si legge nell’Avviso al Lettore premesso al testo delle Riflessioni, l’occasione di stendere le sue considerazioni linguistiche si era presentata all’Ortes al momento

1 Per un profilo dell’autore si vedano Torcellan (1961) e Anglani (1984), per quanto riguarda invece i suoi riferimenti filosofici e scientifici cfr. Di Lisa (1988; 1993).

2 Del pensiero linguistico di Ortes si sono occupati Formigari (1988; 1990: 133-144; 1993), che ne ha sottolineato il nesso con le idee economiche dell’autore, e Gensini (1993: 191-202).

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di licenziare alle stampe la traduzione di un’opera inglese, non nominata nell’Avviso ma identificata (Di Lisa 1988: 219) con l’Essay on man (1732-1734) di Alexander Pope (1688-1744)3. Rivelatosi impossibile il proposito di contenere le osservazioni in una semplice prefazione, Ortes così giustifica la composizione del suo trattato:

ò4 giudicato più facile, anzi che scrivere una prefazione insignificante, di stendere tutto ciò che sul detto proposito di lingue, e di cose per esse espresse mi si presentava alla mente, in un Trattato completo, e inteso a questo epressamente; il quale così non à più che fare colla traduzione suddetta, ma à molto che fare per quanto mi sembra, colle maniere di pensare sugli studj, sulle cognizioni umane, sugli affari comuni, e sulla Religione medesima, per quanto codeste maniere essendo al presente diverse dalle usate a’ tempi passati, si reputano di quelle migliori.

Come per tutti gli autori del suo secolo, anche in Ortes il discorso sulle lingue finisce per chiamare in causa tutta una serie di argomenti di carattere sociale, culturale, religioso, che dal linguaggio promanano e a esso rimandano con un fitto intrecciarsi di motivi. Al momento di isolare i rapporti fra il linguaggio e gli altri aspetti della vita umana, Ortes si concentra sugli ambiti che troviamo espressi nel titolo dell’opera, ossia gli oggetti, i costumi e le cognizioni, quanto a dire il mondo materiale, quello morale e quello culturale. Il principio generale che accomuna questi tre ambiti, e che, come vedremo in seguito, caratterizza anche il linguaggio, è il movimento, identificato newtonianamente come una legge universale, «in che consiste la vita e la essenza di tutte le cose mortali, e senza di che resterebbe il tutto coperto e ingombro di quiete, morte e nullità eterna» (V-VI).

Il movimento assicura quindi la vita nell’universo, ma le sue leggi costanti e invariabili produrrebbero solamente oggetti «invariabili e fra loro consimili», se non intervenissero delle «modificazioni diverse e infinite, colle quali procede il moto medesimo fisico o morale fra gli oggetti tutti creati» a diversificare fra di loro tutte le sostanze di cui è composto il creato (VI). Secondo Ortes

3 Sulle traduzioni settecentesche dell’opera di Pope, in particolar modo in area veneta, cfr. Fantato (2006).

4 Indipendente anche nella grafia, Ortes non utilizza la lettera h per le voci del verbo avere, preferendo invece le forme accentate ò, ài, à, ànno.

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Queste considerazioni stabiliscono dunque questa verità, che gli oggetti creati sono bensì tutti Consimili, per le stesse costanti leggi di moto fisico e morale per cui sussistono, ma che sono altresì tutti Diversi, per le diverse modificazioni di codesto moto che procede colle medesime leggi, scorrendo questa somiglianza e dissomiglianza per gradi insensibili dagli oggetti di ciascuna specie a quelli di tutte le altre contigue dal regno minerale al vegetale, e dal vegetale all’animale fisico, (e lo stesso dee intendersi del morale) come è noto ai naturalisti e agli altri filosofi per quel misero finitesimo di natura che si traspira, e dal quale soltanto lice arguir di tutt’essa. (VI-VII)

La compresenza di «uniformità e varietà di sostanze» assicura dunque l’ordine universale (VIII), e tale legge determina anche il mondo morale, rendendo così temi come l’equità, il valore, la costanza, l’amore, simili e allo stesso tempo diversi per ciascun individuo (XI-X). Per quanto riguarda in particolare gli oggetti, Ortes precisa che la somiglianza e la diversità che li caratterizza deriva dalle «diverse relazioni fra di essi, non riferendosi un oggetto all’altro che per quanto ad esso è simile, o da esso è diverso» (X). Ma visto che ognuno di essi intrattiene con un altro relazioni «tanto infinite, quanto i gradi di somiglianza o di diversità, co’ quali possan fra lor riferirsi» (XI), ciò comporta un’inevitabile impossibilità da parte degli esseri umani di giungere ad una comune percezione degli oggetti:

ciascun intelletto particolare, che per le forze sue limitate dee apprenderli non per tutte, ma per alcune sole di tali relazioni, dovrà apprenderli per relazioni diverse da quelle, per le quali le apprenda ciascun altro, e in conseguenza dovrà apprenderli diversamente da tutt’altri. (XI)

La diversità del mondo della materia si ripercuote quindi sulle immagini che di esso si producono in ogni singolo intelletto, immagini che finiscono per essere consimili e allo stesso tempo diverse da individuo a individuo. Ora, visto che «la favella dell’uomo – afferma Ortes – è quel dono che egli à di comunicare ad altri le immagini presentate al suo cervello dagli oggetti esterni, e quivi combinate in più modi dalla facoltà intellettiva» (I), considerata la diversità sia degli oggetti sia delle immagini che di essi si formano nella mente di ogni individuo, pensare che sia possibile comunicare «per voci del tutto corrispondenti» i concetti e che vi possa

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quindi essere «un’esatta analogia fra le immagini colle quali s’apprendon gli oggetti, e le voci colle quali s’esprimono, è figurarsi un’assurdità» (XIV). Tanto più che, per assicurare l’esatta corrispondenza fra immagine e parola, non solo ogni oggetto dovrebbe essere denominato in modo distinto da parte di ogni singola persona, ma tale denominazione dovrebbe anche variare in relazione al tempo, dato che gli oggetti si modificano incessantemente a causa del moto perpetuo a cui sono soggetti. Bisognerebbe infatti chiamare in modo diverso «una rosa stessa per esempio al mattino e alla sera, e un uomo stesso prima e dopo una febbre quartana» (ibid.).

Questa implacabile legge della diversificazione degli oggetti, delle immagini e delle parole darebbe così vita a un « garbuglio di favelle, per cui non sarebbe possibile intendersi fra padre e figlio, o fra marito e moglie, più che fra gli antichi fabbricatori scesi dall’altissima torre di Babele» (XV). Ma siccome, ammette Ortes, «è pur necessario che queste immagini si comunichino dagli uni agli altri», ecco quindi intervenire il principio del comune consenso:

non resta se non che gli oggetti s’esprimano per voci identiche stesse accordate per consenso e per uso, per le quali gli oggetti o le figure e immagini loro, s’esprimano non esattamente, ma prossimamente, e non già per quanto sarebbe necessario, ma per quanto è soltanto possibile; in guisaché essendo tali immagini tutte simili e tutte altresì diverse, le voci corrispondenti le esprimano bensì esattamente quanto alla lor somiglianza comune, ma non quanto all’individua loro diversità. (ibid.)

La convenzionalità della parola è quindi resa possibile dalla sua arbitrarietà, e la sua forza di significazione si misura in base al ‘prossimo’ e al ‘possibile’, dal momento che essa può diventare comune solo se esprime i tratti di somiglianza sottesi alle diverse immagini di un oggetto, e ne neutralizza invece gli elementi di diversità. In tal modo la comunicazione fra gli esseri umani può avvenire, ma essa sarà sempre soggetta all’imperfezione del linguaggio, dal momento che le parole sono, inevitabilmente, di numero inferiore all’infinità degli oggetti e delle immagini da essi suscitate:

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Un contrassegno espresso della detta imperfezione d’analogia tra le voci, e le immagini d’oggetti per esse significati è questo, che ciascuno nello spiegare altrui le proprie immaginazioni o i propri sentimenti d’animo, non trova così pronte le voci che occorrerebbero, e ch’ei desidererebbe, come trova le immagini, e non v’è cosa più familiare, quanto il dolersi uno di non poter per voci dar così bene ad intendere ad altri ciò ch’ei sente e intende per sé medesimo, di che gli amanti soglion lagnarsi il più spesso. (XVII)

Dopo questa sorprendente osservazione, che fa venir in mente i drammi delle maschere pirandelliane, Ortes allarga il raggio delle sue riflessioni al campo della diversità linguistica. E su questo terreno si spezza il vincolo dell’inopia verborum, almeno in quanto al possibile numero di voci lessicali assolutamente considerato, dal momento che, essendo anche le parole soggette alla legge universale del moto e quindi del cambiamento, possono anch’esse moltiplicarsi all’infinito:

[L’infinità] delle voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali l’aria stessa può uscir dalle labbra, spinta e percossa dagli organi della favella […]. Quindi apparisce perché le lingue abbiano ad esser diverse a diversi tempi e nei diversi luoghi. Perciocché essendo le maniere, colle quali le voci possono articolarsi infinite, e dovendo esse adoprarsi a numero finito per esprimer oggetti medesimi e consimili, benché infiniti; non v’è ragione perché a quest’uso s’adoprino l’une anziché l’altre di esse, o perché un sasso, un fiore, una stella appellati ora in Italia con questi nomi, non fosser appellati o non fosser per appellarsi ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diversi. (XVIII-XIX)

Anche in questo caso, a porre un freno alla potenziale infinità del numero delle parole interviene la convenzione, che «non è necessaria per certe voci, ma è libera e arbitraria per tutte» (XVIII), assicurando così la comunicazione. Ciò non toglie, tuttavia, che le lingue una volta introdotte per convenzione non continuino a modificarsi nello spazio e nel tempo, e non solo perché le parole si alterano in seguito alle modificazioni incessanti degli oggetti a cui esse rimandano, ma anche perché cambiano gli usi degli stessi oggetti a seguito della nascita di «nuove arti», dando così luogo all’introduzione di nuove denominazioni e all’abbandono di quelle antiche (XIX-XX). Questa «alterazione e rinovazione di lingue» è inoltre accresciuta dal contatto fra popoli che parlano lingue diverse, fatto che produce una

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mescolanza linguistica che a sua volta si risolve nella formazione di una o più lingue diverse da quelle originarie (XX).