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La rivalutazione del plurilinguismo italiano

Nel rinnovato contesto delle discussioni erudite della prima metà del Settecento, affrontare il tema dell’origine dell’italiano da un punto di vista linguistico, senza focalizzare quindi l’attenzione sulle questioni letterarie, comportava inevitabilmente una riconsiderazione dell’identità storica dei singoli dialetti. Il capitolo XVI del primo libro dell’Eloquenza italiana, dove si tratta Del dialetto ‘comune’, e di molti

altri delle antiche lingue ‘Romanze’, alcune delle quali sono tuttavia in essere, si

apre con la considerazione che «gl’idiomi di tutti i regni, e provincie si parlano in varj dialetti, più, e meno eleganti, coltivati nelle corti, e nelle opere scritte» (1736: 53). Segue poi l’elenco dei dialetti parlati in Francia, con riferimenti a Fauchet, Ménage e Scaligero, mentre per quanto riguarda la situazione italiana, dove – osserva Fontanini – «i dialetti […], che fra sé appena s’intendono, io credo, che sieno assai più», viene citato il De vulgari eloquentia (ibid.).

Quanto poi ai rapporti che l’autore individua tra la propria lingua materna, il friulano, e altre varietà romanze, Cescutti (2008: 37-41) ha richiamato l’attenzione su un documento conservato alla Biblioteca civica di Udine, attribuito a Fontanini, contenente una serie di appunti che si ricollegano al trattato storico-linguistico26. Nelle dieci cartelle manoscritte, dedicate interamente al friulano, oltre a riferimenti ad autori, a note storico-linguistiche e a spiegazioni etimologiche, sono contenute anche numerose corrispondenze lessicali tra il friulano ed il francese, in alcuni casi accompagnate da considerazioni fonetiche. Fra queste ultime, ad esempio, soffermandosi sugli esiti del dittongo latino au Fontanini rileva che «l’au dai

26 Il riferimento è al ms. Fontanini 395, descritto nel registro dei manoscritti conservati nella Biblioteca civica “Joppi” di Udine (d’ora in poi, BCU) come una copia, probabilmente del XIX secolo, tratta dai manoscritti esistenti nella Biblioteca “Guarneriana” di San Daniele del Friuli.

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Francesi si pronuncia per o il che pure è stato preso dagli Italiani, invece dell’au come oro, tesoro Moro ecc. i Furlani hanno tenuto l’au dicendo aur tesaur laurar Sant Maur»27.

Oltre ad individuare, su base comparativa, elementi caratteristici della sua parlata natia, Fontanini si dimostrava in grado anche di offrire una spiegazione storica della sua identità linguistica. Sempre nel capitolo XVI del trattato storico-linguistico, ampliando il raggio delle sue considerazioni, l’autore osserva:

Arrigo Stefano scoperse ne’ confini di Francia, e d’Italia il vecchio idioma

Romanzo, singolarmente in Savoja28:e tra saggi, che ne adduce, ve ne sono che chiaramente si accostano al Friulano, il quale, come già toccai, ha molto dell’antico Romanzo Francesco, specialmente in alcune parti montuose, e nella campagna, dove più si mantiene la semplicità antica: la quale ancora può esservi stata accresciuta nel principato assoluto di due Patriarchi di Aquileia Francesj del secolo XIV i quali furono Bertrando del Quercì, e Filippo Cardinale della real casa d’Alansone. La corte di questi due grandi Principi ecclesiastici, e quella in particolare del primo, abbondò di Provenzali, Caorsini, e Guasconi, impiegati in cariche sacre, e civili nel Ducato del Friuli e nel Marchesato d’Istria: con la quale occasione potettero maggiormente sopra il dialetto Friulano, già mentovato da Dante e da Franco Sacchetti, e molto simile al loro nelle voci tronche, e in vari accidenti, spargervi il proprio idioma fino a quel segno, che tuttavia dura, e di cui forse altrove distesamente ragioneremo. Ma l’antica favella Romanza sussiste pur ne’ Grigioni; anzi nel cantone Elvetico di Friburgo, e in qualche altro luogo ella corre tuttavia con tal nome, accostandosi molto all’Italiana. (55)

Nel passo si noti innanzitutto la corretta individuazione areale della presenza dei tratti conservativi, che lascia intendere come nei centri urbani la situazione fosse diversa, cosa che oggi noi possiamo spiegare chiamando in causa l’influenza del veneto, venutosi a sovrapporre al friulano dopo la sottomissione a Venezia del

27 BCU, ms. Fontanini 395, 7r. Sempre a proposito dei dittonghi, commentando il testo dell’epitaffio di santa Colomba, Fontanini (1726: 16) aveva osservato: «Non vi apparisce alcun dittongo, essendovi scritto non solo que per quae, ma sec per saec, e agustas per augustas; donde si trae, che i dittonghi nel secolo V in cui fu scolpito l’epitaffio, non si proferivano sciolti e distinti, almeno dai nostri Veneti».

28 Il riferimento è a Henri Estienne (1528-1598) – figlio del noto umanista Robert Estienne – , che nel suo Hypomneses de gallica lingua (1582: 3-4), oltre a citare, inevitabilmente, varie parole del francese, aveva riportato anche alcune voci del Romantium parlato in Savoia, verosimilmente il francoprovenzale.

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Patriarcato di Aquileia (1420). Quanto alla spiegazione storica delle somiglianze esistenti tra il friulano ed il romanzo francesco, anche se risulta ormai assodato che i tratti linguistici caratterizzanti il friulano si siano fissati anteriormente, durante i secoli XI-XIII (cfr. Francescato e Salimbeni 1977: 99-111), è assai significativo il fatto che, pur spiegando la somiglianza fra le due varietà romanze anche in base ad un supposto influsso della corte francofona, cioè in termini di superstrato, e non invece come una coincidenza di fenomeni conservativi, Fontanini individui correttamente nel periodo del Patriarcato di Aquileia l’epoca in cui si è consolidata tale somiglianza, e quindi, quanto al friulano, si è stabilita la sua individualità all’interno del panorama linguistico italiano. Se nella sua spiegazione si può ancora rintracciare la tesi della mutazione linguistica indotta dai ‘barbari’, tale supposto influsso viene però rapportato alla specificità della storia locale, che ha determinato l’identità del friulano.

Ma l’affermazione più sorprendente è sicuramente l’ultima, con la quale si viene a stabilire una sorta di continuità fra «l’antica favella Romanza» e la lingua dei Grigioni, cioè il romancio, oltre a chiamare in causa la lingua parlata nel Cantone di Friburgo (che Fontanini evidentemente identifica con il romando) e in altri non precisati territori. È probabile che questo accostamento, oltre ad essere motivato dall’affinità etimologica esistente fra i nomi di tali lingue, fosse scaturito anche dalla consultazione di due opere citate a continuazione, cioè il Cavaliere in

risposta al Gentiluomo del Muzio (1589), del grigionese Domenico Mora, e la

traduzione in romancio, voluta da Passionei, della versione italiana dell’Esposizione

della dottrina della Chiesa cattolica di Jacopo Benigno Bossuet (Fontanini 1736:

55). Visto il contesto in cui compare tale osservazione, ci troviamo in presenza di quella che potrebbe essere la prima affermazione della somiglianza tra il friulano ed il romancio, somiglianza che, com’è noto, venne analizzata scientificamente da Graziadio Isaia Ascoli quasi un secolo e mezzo dopo, nei suoi Saggi ladini29.

Da queste considerazioni di Fontanini sembra quindi emergere una particolare sensibilità nello stabilire accostamenti e nel ricercare spiegazioni storiche di fatti linguistici, in particolar modo per quanto riguarda la sua lingua

29 Francescato (1977: 257), pur sottolineando la priorità cronologica dell’accostamento, lo fa però derivare dal duplice ‘preconcetto’ seguito, a suo modo di vedere, da Fontanini, cioè quello del friulano come mescolanza di lingue e quello della lingua romanza comune.

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materna, a cui del resto era molto legato30. Nel secondo libro del suo trattato, dedicato in gran parte all’esposizione delle idee linguistiche di Dante, Fontanini si dilunga nella presentazione dei dialetti italiani sulla scorta del De vulgari

eloquentia, utilizzando l’opera dantesca come una fonte storica sugli idiomi parlati

nella Penisola31. A proposito della condanna del friulano, ad esempio, si sente in dovere di precisare che «né quel crudeliter accentuando eructuant di Dante, in vece di eructant, si verifica più, se non forse in bocca di qualche rozzo villano» (1736: 232).

Sarebbe tuttavia un errore attribuire questa affermazione unicamente all’orgoglio del parlante. Nelle trentacinque pagine del suo trattato dedicate ai dialetti, Fontanini di fatto ribalta la prospettiva dantesca: invece di riproporre i giudizi negativi dell’autore della Divina Commedia, inserisce osservazioni linguistiche, riferimenti eruditi e notizie storiche, e ne documenta gli utilizzi letterari (218-253)32. Secondo Fontanini, alcuni dialetti potevano infatti vantare una tradizione di tutto rispetto, come nel caso del veneziano, elogiato per il fatto che «niun dialetto Italiano dopo il Romanzo comune, è provveduto di maggior numero di opere scritte» (1736: 247). Inoltre, se i dialetti avessero avuto la stessa fortuna letteraria del romanzo comune – aveva affermato Fontanini già nel suo commento all’Aminta del Tasso – «io non ho dubbio in persuadermi, che ancora questi si vederebbono in istima nulla inferiore al Toscano» (1730: 232).

Seguire il pensiero linguistico di Dante nei suoi principi fondanti, quattro secoli dopo la sua formulazione, significava quindi superare «l’orrore per la variazione» (Trabant 2010) che aveva indotto il poeta fiorentino da un lato a riconoscere la necessità storica della ‘grammatica’ e dall’altro a teorizzare il volgare illustre come soluzione alle esigenze letterarie del suo tempo. Nel XVIII secolo, quella lingua che nella percezione dantesca era come un pantera «redolentem

30 A testimonianza del legame affettivo con la sua terra d’origine, si ricordi che Fontanini lasciò alla città di San Daniele, per disposizione testamentaria, l’intera sua biblioteca (per la complessa vicenda del lascito fontaniniano cfr. Molaro 1993a: 1-59). Postumi apparvero inoltre i cinque libri

Historiae literariae Aquileiensis (1742), dedicati ad illustrare la vita e l’opera di alcuni letterati di

origine friulana.

31 Pistolesi (1993: 250), fra le motivazioni che potevano aver indotto Fontanini a dedicare così tanto spazio al trattato dantesco, indica anche lo spunto che il De vulgari eloquentia offriva per la trattazione dei dialetti italiani.

32 Alle pp.119-121, dopo essersi soffermato sulle più antiche testimonianze dell’italiano, Fontanini documenta anche quelle di alcuni dialetti.

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ubique et necubi apparentem» (De vulg. I, xvi), anche se confinata per lo più agli usi scritti, era ormai un mezzo di comunicazione concreto, che Fontanini, sulla scorta della cosiddetta ‘tesi italianista’ di matrice trissiniana, chiama Romanzo

comune o, seguendo lo Speroni, lingua Romanza d’Italia (cfr. Vitale 1978: 62-70),

giustificando storicamente la sua presenza accanto ai dialetti «per la generale civiltà del commercio, e per la scambievole corrispondenza e comunicazione delle scritture» (1736: 53)33.

Per affrontare la complessità della situazione linguistica italiana con rinnovata attenzione alle sue dinamiche evolutive, e con la consapevolezza dell’inevitabilità del mutamento linguistico, bisognava riconsiderare il valore storico delle parlate locali, da cui, come abbiamo visto, non erano esenti nemmeno gli aspetti letterari. Le osservazioni di Fontanini, a prescindere dalla loro concretezza storica, testimoniano così un fatto importante, cioè che nella prima metà del Settecento «si andava sviluppando una considerazione diversa, in chiave storica, del dialetto […], senza condizionamenti e precostituite ragioni polemiche, come invece capitava facilmente nel dibattito sui dialetti condotto in sede letteraria» (Marazzini 1989: 77-78). Nell’impianto complessivo dell’Eloquenza italiana, opera che, ricordiamo, era stata pubblicata da Fontanini per difendere la tradizione italiana dagli attacchi di Bouhours, i riferimenti linguistici e letterari riguardanti gli idiomi locali formano quindi parte integrante dell’introduzione storico-linguistica e del catalogo bibliografico, introducendo così nel dibattito settecentesco un quadro rinnovato della complessa situazione linguistico-culturale venutasi a creare nella lunga ed articolata storia della Penisola.

33 Non sfugga l’importanza di questa considerazione che pone l’accento sulle valenze comunicative, non letterarie della lingua comune.