Gian Rinaldo Carli, Giuseppe Parini, Ferdinando Galiani
4.3 Giuseppe Parini
4.3.1 Il valore della pluralità e della naturalezza espressiva
Fra gli intellettuali impegnati direttamente nel processo riformatore avviato nella Milano asburgica un ruolo di rilievo ebbe Giuseppe Parini (1729-1799), esponente di spicco dell’illuminismo lombardo, letterato sensibile e attento alle dinamiche della situazione linguistica contemporanea, pur collocandosi lungo un filone classicistico23.
Ciò è evidente fin dalla prima delle sue polemiche giovanili, dove prende posizione contro il frate servita Alessandro Bandiera24, autore de I pregiudizi delle
umane lettere (1755), volume nel quale il padre senese aveva proposto una
riscrittura aulica, in stile boccacciano, di una predica del gesuita romano Paolo Segneri (1624-1694), accusandolo di non essere «giammai entrato nel gusto della nostra lingua» (Parini 2012: 67)25. La difesa del Segneri da parte di Parini muoveva dalla distinzione fra il livello linguistico e quello stilistico del discorso. Secondo l’autore de Il Giorno infatti «altri potrebbe dir bensì a un bisogno, che il Padre Segneri con mala Rettorica scrisse; ma non già con cattivo linguaggio» (ibid.).
22 La raggiunta consapevolezza dell’importanza che le lingue moderne rivestivano nell’educazione pubblica diede ben presto adito a strumentalizzazioni di natura politica, come emerge chiaramente durante il successivo periodo napoleonico. Nella Repubblica Cisalpina il curriculum di studi delle neo-istituite scuole pubbliche intermedie infatti prevedeva oltre all’apprendimento dell’italiano anche quello del francese, escludendo invece le altre «lingue dotte viventi» (cfr. Genovesi 2010: 28-30).
23 Per un profilo dell’autore e per la bibliografia essenziale si rimanda a Bonora (1986); per il pensiero linguistico del Parini si veda invece il fondamentale saggio di Morgana (2003).
24 Lo scritto contro il Bandiera venne pubblicato in forma di lettera indirizzata all’abate Pier-Domenico Soresi, amico del Parini, anch’esso membro dell’Accademia dei Trasformati e a sua volta autore di una lettera contro il frate senese. Il testo è contenuto nell’edizione degli Scritti
polemici del Parini curata da Silvia Morgana e Paolo Bartesaghi, da cui si cita, con il titolo Giuseppe Parini all’abate Pier-Domenico Soresi (Parini 2012: 61-93).
25 Il padre Segneri, considerato il maggior esponente dell’oratoria sacra del Seicento, in piena temperie barocca aveva pubblicato un Quaresimale divenuto celebre per la chiarezza e la semplicità del linguaggio.
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Dopo aver affermato la perfetta toscanità della lingua utilizzata dal gesuita romano, Parini passava a criticare l’innalzamento dello stile che caratterizzava la riscrittura del Bandiera, dal momento che le parole non affettate, a volte popolari utilizzate dal Segneri «colla viltà loro tendono ottimamente allo scopo […] d’ingenerare orrore, aborrimento, e che so io, nello animo del Peccatore» (74-75). Coniugando i precetti della sua formazione retorica con una sensibilità tipicamente settecentesca per la funzione sociale del linguaggio (Morgana 2003: 25), Parini sosteneva l’efficacia comunicativa della naturalezza espressiva e della variazione stilistica, criticando in definitiva il Bandiera perché «affettatissimo uso egli ha fatto poscia di mille vocaboli, de’ quali, comecchè ci abbia gli equivalenti, nondimeno, non gli ha mai variati in conto alcuno, impoverendo in cotal guisa la nostra Lingua, per quanto sta a lui, de’ molti, e ricchi giojelli, ond’ella in sì diverse fogge s’adorna, e compone» (81).
Questa consapevolezza del valore comunicativo della pluralità espressiva riappare in Parini, sottoforma di difesa del dialetto milanese, nell’ambito di una famosa polemica innescata dalla pubblicazione dei Dialoghi della lingua toscana (1760) del padre Paolo Onofrio Branda, polemica protrattasi per molti anni e conclusasi solo con l’intervento dell’autorità municipale26. Anche in questo caso il Parini rispose con una lettera alle provocazioni del Branda, il quale nell’esaltare la lingua toscana aveva attaccato non solo il dialetto della città di Milano, ma anche gli usi e i costumi dei suoi abitanti27. Come già rilevato da Vitale (1978: 280), va tuttavia sottolineato il fatto che il Branda, ex insegnante di Parini, nei suoi dialoghi aveva esaltato i pregi non tanto della lingua letteraria, quanto del fiorentino vivo, sulla base degli ideali di naturalezza e di semplicità che anche Parini condivideva. In tal modo – osserva sempre Vitale – anche il fiorentino, considerato dai seguaci della tesi italianista alla stessa stregua degli altri dialetti italiani, veniva ad assumere il rango di lingua, varietà coerente con quella della tradizione letteraria e allo stesso
26 Sulla storia della polemica, oltre a Salinari (1944-45), vedi anche Morgana e Bartesaghi (2012).
27 Alla lettera indirizzata al Branda, che rispose rinnovando le sue accuse, Parini fece seguire un avvertimento e una seconda lettera. Anche in questo caso, citiamo dal testo della prima lettera riportato nell’edizione curata da Morgana e Bartesaghi con il titolo Al Padre D. Paolo Onofrio
Branda Milanese C. R. di S. Paolo e Professore della Rettorica nella Università di S. Alessandro, Prete Giuseppe Parini (Parini 2012: 107-150).
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tempo priva di quell’affettazione che costituiva il principale obiettivo delle critiche mosse dagli antitradizionalisti.
La difesa pariniana della lingua e della letteratura milanese muove quindi dal medesimo principio della naturalezza linguistica su cui facevano leva le argomentazioni del Branda, principio che Parini espone attraverso un’interessante rielaborazione di motivi rinascimentali e settecenteschi. Dopo aver affermato la sostanziale uguaglianza di tutti i codici verbali, in base al concetto razionalista secondo il quale le lingue sono degli strumenti per esprimere il pensiero, dalle necessità del quale dipende il loro sviluppo, l’autore precisa che
Ciò, che fa creder superiore una lingua ad un’altra, si è la maggiore abbondanza de’ vocaboli proprij d’una sola cosa, i quali servono alla diversità degli stili; ed oltre a questo la maggiore universalità di essa lingua, nata da varj accidenti naturali, politici e morali, la quale serve alla maggior copia degli scrittori. (2012: 127)
Da questi due aspetti, il secondo dei quali di natura propriamente extralinguistica, discende quindi la superiorità della lingua rispetto al dialetto, che Parini inquadra in un modello sociolinguistico dove viene contemplata anche una varietà intermedia:
Perocché in ciascun paese si possono distinguere tre diversi linguaggi: l’uno è il dialetto particolar del paese, l’altro la lingua dominante, e il terzo quell’altra specie di lingua introdotta dall’affettazione, parlata dalla gente più colta, e civile, e formata degli altri due. (ibid.)
Quanto alla genesi del modello pariniano, Morgana (2003: 27-29) ha riscontrato una probabile influenza dell’Ercolano del Varchi, documentabile anche in base a precise concordanze lessicali, opera nella quale ricorre una classificazione tripartita dell’uso del fiorentino cinquecentesco (dei letterati, dei non idioti e degli idioti) simile a quella proposta dall’autore milanese. Al di là dell’influenza varchiana, l’elemento di novità che vale la pena sottolineare è la presenza della varietà intermedia, che sembra rappresentare un processo di acquisizione della lingua comune da parte dei parlanti dialettofoni di media cultura, quanto a dire la
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presa d’atto dell’esistenza di una varietà regionale dell’italiano allo stato embrionale28. Rimanendo nell’area lombarda, si tratta con ogni probabilità di quell’italiano pieno di interferenze dialettali di cui Muratori aveva dato un saggio in un passo della Perfetta poesia citato in precedenza, varietà intermedia che compariva già nelle battute di alcuni personaggi delle commedie dialettali del Maggi e che ormai in pieno Ottocento, con la denominazione di «parlar finito», attirerà l’attenzione anche del Manzoni (cfr. Isella 1984: 36-37).
In quanto al dialetto, nella sua lettera al Branda – che aveva stigmatizzato la goffaggine e la rozzezza del milanese – Parini invece esalta «quel linguaggio, che essendo, e il più naturale, e il più puro, ed incorrotto della nostra Città, è conseguentemente da riputarsi il più bello» (2012: 128) 29, e al luogo comune, sostenuto dall’avversario, di essere adatto solamente a far ridere, ribatte osservando che non è la lingua a far ridere, ma sono piuttosto le cose che con essa vengono comunicate, altrimenti «si dovrebbe dire il medesimo anche della bellissima lingua Toscana, e così di tutte le altre lingue del mondo, nelle quali tutte secondo i diversi stili usansi, e scherzi, e piacevolezze, e modi, e proverbj, e lepidezze, che sono più atte a far ridere» (129).
L’argomento della naturalezza del milanese veniva sostenuto dal Parini adducendo anche l’usuale concetto di ‘genio della lingua’, che l’autore metteva in rapporto con il carattere universalmente riconosciuto degli abitanti della città:
Questa medesima schiettezza, e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua Milanese a coloro de’ nostri, che posti sonosi ad esaminarne la natura. (144)
Secondo Parini, chi aveva riconosciuto ed esaltato quest’indole del milanese era stato il Maggi, che nella sua produzione in dialetto, oltre ad avere affrontato i
28 Sulla storia della diffusione dell’italiano a Milano e, più in generale, in Lombardia cfr. Bongrani e Morgana (1992), Morgana (2012).
29 Oltre a prendere spunto dal Varchi per la descrizione della situazione linguistica comtemporanea, secondo Morgana (2003: 27) è probabile che Parini nella sua difesa del dialetto sia stato influenzato dal naturalismo linguistico di Machiavelli. L’autore milanese infatti conosceva il trattato del Varchi dall’edizione apparsa a Firenze nel 1730, che recava in appendice l’anonimo
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«più serj e gravi insegnamenti della morale», aveva fatto dire ai personaggi del popolo «cose, onde le [persone] più civili si pregerebbono, e […] colle loro piacevolezze non mai fredde, o impulite ha mescolato gli ammaestramenti più serj, ed importanti» (146) 30. Sulle orme del Maggi, aggiunge il Parini, altri «dotti, e savj uomini» avevano contribuito con le loro opere alla nobilitazione del dialetto milanese, come Girolamo Birago, Domenico Balestrieri e Carlantonio Tanzi, «quindi è, che – conclude l’autore – noi abbiamo veduto in pochi anni la nostra lingua mostrarsi capace di tutte le vere, e più solide bellezze della poesia» (ibid.).