• Non ci sono risultati.

Giuseppe Baretti, Carlo Denina

3.2 Giuseppe Baretti

3.2.2 I giudizi sull’italiano

Nonostante questi importanti riconoscimenti, l’interesse principale di Baretti era tuttavia rivolto al toscano. Come osservato da Dionisotti (1988: 15), in Baretti la ‘spiemontizzazione’ dà infatti luogo a due esiti opposti, da un lato «l’acquisto e l’ostentazione polemica di un linguaggio idiomatico toscano», e dall’altro l’apprendimento e l’utilizzo di altre lingue moderne.

Lungo la prima direttrice della sua apertura linguistico-culturale si possono così collocare le ben note prese di posizione a favore di una lingua viva e duttile, che però non tradisse la sua identità toscana. Anche in questo caso l’affondo contro le posizioni cruscanti poteva contare sulla conoscenza diretta di altre situazioni linguistico-culturali. L’orizzonte internazionale, non solo europeo, delle riflessioni linguistiche di Baretti trova così un corrispettivo nell’intrigante figura di Aristarco Scannabue, lo pseudonimo con cui lo scrittore piemontese firmava gli articoli della

Frusta letteraria, il foglio quindicinale da lui ideato che uscì dal 1763 al 1765, negli

anni della sua permanenza in Italia dopo il primo soggiorno londinese. L’alter ego Aristarco viene appunto presentato come un viaggiatore, soldato e avventuriero, che esibisce una gamba di legno rimediata durante l’attacco di una nave corsara marocchina, essendo allo stesso tempo cultore delle lingue classiche e di quelle orientali11.

11 Nell’Introduzione ai leggitori Baretti così sottolinea la differenza nella formazione e nello stile di vita esistente tra i letterati italiani e il suo personaggio: «La vita di quella mansueta ed innocua gente, che noi volgarmente chiamiamo LETTERATI, non è, e non può essere gran fatto piena di strani accidenti, né troppo feconda di meravigliose varietà, perché è per lo più una vita vissuta tutta in un paese solo, e tutta limitata in un ristretto cerchio di amici, la maggior parte ignoranti affatto, o appena iniziati negli elementi del sapere. Ma la vita del nostro Aristarco Scannabue è stata una cosa assai diversa, ve l’assicuro» (1839, I: 6).

196

Al suo ritorno in patria, dopo cinque lustri vissuti «sempre avvolgendosi come una fiamma per diverse regioni del mondo» (1839, I: 7), Aristarco si dedica a recensire «quel flagello di cattivi libri che si vanno da molti e molti anni quotidianamente stampando in tutte le parti della nostra Italia» (5). Per quanto riguarda le questioni linguistiche, nel famoso articolo del 15 novembre 1763 (1957: 213-219) il recensore polemizza contro gli autori che nella prosa utilizzano lo stile latineggiante alla maniera del Boccaccio, proclamando invece la bontà dello stile naturale, basato sulla costruzione diretta, stile che si concretizza nello «scrivere quel che vien viene» (1957: 214) e il cui modello viene ravvisato nella prosa di Benvenuto Cellini. Citando un lungo elenco di autori francesi ed inglesi, e chiamando poi in causa gli antichi greci e latini, e i cinesi, i giapponesi, gli arabi e i persiani, Aristarco conclude la sua invettiva affermando che

tutti ascoltano i suggerimenti della natura, tutti si conformano all’indole delle loro lingue, tutti si studiano d’essere originali: e noi Italiani vorremo sempre esser copie, se non d’altri, almeno del Boccaccio? Sempre vorremo imitare il suo stile? usare le sue trasposizioni? collocare i nostri verbi in punta a’ periodi? Eh, gioventù d’Italia, mandate al dimonio tutti quegli stolti, che vi danno di questi consigli; cercate d’esprimervi secondo l’ordine naturale delle vostre idee, e non imitate né lo stile del Bocaccio, né quello di altri […]. (219)

È interessante notare come nella difesa dello stile naturale di Baretti siano ormai prevalse le ragioni di Bouhours, a conferma di quel rinnovamento degli usi e delle prospettive teoriche che costituisce il carattere principale della cultura linguistica italiana del Settecento. Conseguenza immediata di quest’idea è la posizione anticruscante di Baretti, espressa sempre dalle pagine della Frusta

letteraria nella celebre Diceria di Aristarco Scannabue da recitarsi nell’Accademia della Crusca il dì che sarà ricevuto accademico (1957: 220-231). Dopo aver

dimostrato che il Vocabolario della Crusca contiene più parole di quello inglese e di quello francese solo perché è pieno di voci disusate, di fiorentinismi, di volgarismi, e di lessemi replicati, come nel caso dei superlativi, Baretti indirizza ancora una volta i suoi strali contro gli imitatori del Boccaccio, attribuendo ad essi la

197

responsabilità dell’inadeguatezza dell’italiano ad assolvere alle necessità comunicative di un’intera società:

Ed ecco finalmente per qual ragione noi ci troviamo ora aver una lingua ne’ libri del nostro Boccaccio, e in quelli de’ nostri antichi latinisti, e de’ nostri cruscanti, e de’ loro troppo numerosi seguaci, che non v’è stato e non vi sarà modo mai di farla leggere universalmente e con piacere al nostro popolo, al contrario appunto di quello che è avvenuto in Francia e in Inghilterra, dove, non essendo mai per buona ventura fioriti né Boccacci né boccacciani, si sono formate due lingue scritte, che sono riuscite chiare, intelligibili, e dilettevolissime agli abitanti di quelle regioni, cominciando da’ più scienziati ed eleganti loro individui, giù sino alla più ignorante e rozza ciurmaglia. (231)

Fautore di una lingua chiara e moderna, Baretti era d’altra parte contrario al liberismo linguistico propugnato dalle pagine del Caffè dai fratelli Verri, come appare nella lettera settima della seconda parte della Scelta di lettere familiari (1912: 265-271), dove le proposte dell’«anticruscaio» Pietro vengono tacciate di «arlecchinate» alla stessa stregua dell’intransigente toscanesimo del «cruscaio» padre Branda, l’antagonista del Parini nella celebre polemica.

Il côté tradizionalista di una figura così sfaccettata come quella del nostro autore emerge poi chiaramente al momento di giudicare «la lingua che s’usa ormai parlando e scrivendo in ogni parte d’Italia», tema a cui viene dedicata la lettera ventiseiesima della seconda parte della Scelta (1912: 330-340). Dopo aver celebrato la soavità, la chiarezza e la versatilità della lingua della tradizione letteraria, l’autore esprime tutto il suo disappunto per la condizione attuale del toscano:

In ciascuna terra nostra, dalla Novalesa appiè dell’Alpi giù sino a Reggio di Calabria, v’ha un dialetto particolare, di cui ogni rispettivo abitante, sia grande, sia piccolo, sia nobile, sia plebeo, sia dotto, non lo sia, fa costantemente uso nel suo quotidiano conversare sì nella propria famiglia che fuori. E quando accade che qualcuno voglia pure appartarsi dagli altri favellando, a quale spediente s’ha egli ricorso? Aimè, ch’egli toscaneggia quel suo dialetto alla grossa, alla grossa bene! E non s’avendo fregata di buonora la memoria colla studiata lettura de’ nostri buoni scrittori, viene a formare una lingua arbitraria, perché senza prototipo: una lingua tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia, che fa pur d’uopo, sentendola, ciascuno si raccapricci, o abbrividi, o frema,

198

se possiede il minimo tantino di quella cosa, che già dissi, chiamata «gusto di lingua», o gli è forza per lo meno se la sogghigni con un po’ di stizza e di smorfia, come quando, invece d’un visino avvenente che s’aspettava, gli s’affaccia un muso a mo’ di maschera. (332)

Quella che per noi è una «testimonianza straordinaria delle prime tensioni al parlato dell’italiano nell’Italia settecentesca» (Gensini 1993: 114), viene quindi stigmatizzata da Baretti come una deviazione dalla lingua letteraria, la lingua «prototipo». Sarebbe tuttavia fuori luogo sottolineare la sua incomprensione delle dinamiche linguistiche che, bisogna ammettere, gli eruditi della prima metà del secolo avevano affrontato con ben altra sensibilità, e fin troppo facile mettere in evidenza la contraddizione del suo pensiero linguistico, visto che da un lato auspicava una lingua viva e moderna, e dall’altro non comprendeva che nel contesto italiano questa non poteva che scaturire da un processo di ibridazione fra la lingua della tradizione letteraria e quella parlata localmente.

Come già notato in precedenza, questi limiti non impedivano tuttavia a Baretti di avere una chiara consapevolezza delle cause dell’assenza di una lingua comune. Nella lettera in questione infatti, oltre alle considerazioni sull’assenza di una vita comune a livello nazionale, viene più volte sottolineato il problema della «scarsa densità della cultura», come nel passo seguente, dove la forza argomentativa poggia su una acuta analisi storica della società italiana:

I nostri signori e le nostre dame parlano, i novantanove in cento, molto goffo e molto sciatto, perché appunto i novantanove in cento sono personcine per lo più ben vestite di panni, ma spoglie d’ogni sapere, né più né meno che i loro servi, anzi che i loro cavalli. E i nostri letterati parlano male i novantanove in cento anch’essi, e scrivono peggio il doppio, perché i novantanove in cento non sono letterati davvero, ma soltanto nell’opinione del grosso volgo, che, veduta in istampa una qualche loro caccabaldola, s’ha subito la bontà di onorarli con quel titolo. E rispetto poi allo stesso volgo, così nol fosse, come lo è, tutto sprofondato da un capo all’altro dell’Italia nella più animalesca ignoranza, ogni dì più accresciutagli, se si potesse, da quelle tante scimunite predicacce che ascolta o da’ pulpiti o da quelle tante melensaggini frammiste alle ribalderie che sente non di rado ne’ teatri, eternamente espresse in un linguaggio sciancato, scorretto, sciagurato e degno più de’ cani e de’ porci che non degli uomini. (1912: 335-336)

199