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Le origini dell’italiano e delle altre lingue romanze

Nell’Eloquenza italiana il problema delle origini della lingue romanze viene così introdotto:

Le tre più celebri lingue vive, Italiana, Spagnuola e Francese, dilatate da più secoli in Occidente, debbono il proprio essere al discadimento della latina, cagionato principalmente dai popoli del Settentrione, i quali sotto il generico nome di Goti, sin prima dell’Imperio di Massimino si strinsero in lega co’ Romani, e dipoi col nome di Franchi, Vandali, Unni, e Longobardi ostilmente si diffusero in amendue le Gallie, Cisalpina e Transalpina, e poi nelle Spagne. Queste nazioni di un sol labbro (a riserva forse degli Unni, riputati di origine Sarmatica, e perciò di lingua Slavonica, da Goffredo Gugliemo Leibnizio14) avendo ne’ paesi occupati messa in commercio la novità e barbarie del proprio linguaggio, a poco a poco fecero dapertutto mutar faccia al dominante idioma latino, usato allora dagli abitanti di quelle

14Di Gottfried Wilhelm Leibniz viene citato un passo apparso nel primo volume dei Miscellanea

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provincie, dove posero il piede, i quali si chiamavano in quel tempo

Romani, cioè di legge e di lingua Romana; talmenteché dall’alterazione di

esso idioma latino se ne venne pian piano a formare un altro, poscia detto ancor egli Romano, e indi Romanzo; non già perché fosse Romano, ma perché con tal nome si distinguesse dal Teotisco (cioè Tedesco antico) sopravvenutovi, e altramente chiamato Barbaro, che in radice non era se non il Gotico […]; e indi in questo [scil. l’idioma Romanzo] piuttosto, che in quello, il quale dapprima usavasi nel parlare, ma non così nello scrivere, si composero i poemi, e le storie militari, o cavalleresche, perciò dette

Romanzi. Quindi è, che l’idioma Romanzo, e il Francese passavano per

sinonimi (1736: 3-4).

Come si può ben vedere, Fontanini segue la tesi della ‘frattura’, anche se non bisogna dimenticare che, come abbiamo precedentemente evidenzato, la formulazione presente nell’Eloquenza italiana costituisce il punto d’arrivo di un pluridecennale percorso di approfondimento storico-linguistico, piuttosto che la riproposizione acritica della tesi di origine umanistica. Nonostante il ricorso al termine negativo «discadimento», in riferimento alla modificazione del latino, il mutamento linguistico viene così presentato nella sua oggettività storica, senza nostalgie umanistiche, trattandosi di un processo che, al di là di precisi avvenimenti, Fontanini, sulla scorta di Dante, considerava connaturato alle lingue (24).

In secondo luogo, va sottolineato il fatto che, nell’attribuire l’origine delle lingue romanze al contatto fra il latino e le lingue delle popolazioni germaniche, Fontanini proiettava la storia dell’italiano in un orizzonte europeo, utilizzando come punto di partenza una tripartizione linguistica che non può non ricordare quella dell’ydioma tripharium del De vulgari eloquentia (I, viii, 5).

Entrando nel dettaglio «dell’alterazione di esso idioma latino», relativamente alla flessione nominale e al sistema verbale – forse anche in virtù di una qualche conoscenza del tedesco, che poteva aver maturato a Gorizia alla scuola dei gesuiti – Fontanini successivamente afferma che

è certo, in quanto a noi altri Italiani, che nell’imperio Gotico e Longobardico, durato fra noi da tre secoli, si tralasciò ogni regola ed arte di declinare per casi, di cui parimente son privi i Tedeschi. Si presero i casi obliqui per lo retto: e i tedeschi aggiungono tuttavia le preposizioni per segni de’ casi, le quali i Latini supprimono. La conjugazione si gittò al Germanismo, adottando i verbi ausiliari, avere ed essere, con l’ajuto de’

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quali si fingono i tempi, e si esprime la forma passiva; laonde io ho amato sente dell’indole Tedesca, e così molte altre forme di dire. (24)

Seppur con molti limiti, come la considerazione sull’assenza dei casi nel tedesco, vale tuttavia la pena segnalare la presenza di queste conoscenze linguistiche, delle quali non solo Benvoglienti, ma anche lo stesso Muratori lamentava invece la mancanza (Muratori 1983: 169-170). Per quanto riguarda l’effettivo ruolo del superstrato germanico nella generazione dei fenomeni indicati, è chiaro che Fontanini si sbagliava, essendo essi riconducibili a dei processi evolutivi in atto già in epoca antica, come il contemporaneo Maffei, sulla scorta di Cittadini, era in grado di dimostrare con grande lucidità15.

In quanto al lessico, la considerazione di Fontanini nei confronti dell’influenza del superstrato germanico era supportata da riferimenti ad eruditi nordeuropei, come «l’Ickesio Inglese e Carlo Lundio Svezese», autori di importanti opere lessicografiche nel campo della germanistica (cfr. Droixhe 1988: 110-113). Invece, secondo Fontanini gli etimologisti che si erano rifatti unicamente alle fonti latine e greche, come Angelo Monosini e Ottavio Ferrari, «in esaminare moltissime voci e formole non bene si apposero» (1736: 26).

Ritornando al passo dell’Eloquenza italiana da cui siamo partiti (3-4), nel tentativo di definire l’identità linguistica dei volgari – ben poco attestati – da cui in seguito si sarebbero sviluppate le lingue neolatine, Fontanini ricorre al termine

idioma Romano, e poi Romanzo, per riferirsi a queste varietà, definendole in

opposizione al Tedesco, e sottolineando il fatto che, a causa del prestigio delle opere composte oltralpe, «l’idioma Romanzo, e il Francese passavano per sinonimi».

Du Cange, nel cap. XIII della prefazione al Glossarium, aveva fatto ricorso alla medesima denominazione per riferirsi a varie attestazioni dell’uso del volgare, provenienti soprattutto dall’area francese: «Vulgaris illa Romana lingua, quae etsi aliquid latinitatis redoleret, latina tamen non esset, ut quae et barbara non agnosceret vocabula, et longe aliis grammaticae legibus regeretur» (1840: I, 9). Il lessicografo citava, fra gli altri, Nitardo, lo storico carolingio che aveva tramandato la formula dei Giuramenti di Strasburgo, documento riportato anche nella

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prefazione al Glossarium, con una lunga serie di annotazioni linguistiche (I, 23). Non stupisce, quindi, che anche Fontanini includesse nel suo trattato il testo dei Giuramenti, visto che «quel testo, già riprodotto da Fauchet, interessò tutti, da Du Cange a Leibniz fino a Muratori, e divenne un punto nodale per la romanistica europea» (Marazzini 1989: 76-77). Nel commentare il prezioso documento linguistico, Fontanini osserva che

Il dettato di queste due formole in idioma Romanzo ha in più cose assai della nostra lingua Friulana, ma rustica e plebea, la quale ritien più del suo primo e non alterato originale, e molto si accosta alla Provenzale, e all’antica Francese; onde ben dice il Leibnizio, che il saggio, tramandatoci da Nitardo, in Provinciales magis, ipsosque Italos vergit. Di qui apparisce lo stato, in cui nell’anno 842 trovavasi la lingua Romanza: e tale dal più al meno ella dovette essere ancora negli altri paesi, dove stendeasi l’imperio Carolino, e principalmente in Italia; ma non già così in quei di Lamagna, dove correa la vecchia lingua Teotisca, e non la Romanza. (12)

Il passo rivela elementi di grande interesse, come il riferimento alla lingua friulana, sul quale ci soffermeremo in seguito, ed altri di forte ambiguità, in particolare riguardo al concetto di lingua romanza. Nel commento di Fontanini rimane infatti inespressa l’identità della lingua romana attestata nei Giuramenti. Di conseguenza, risulta assai difficile comprendere se l’autore abbia adottato tale denominazione come un iperonimo, per riferirsi a una pluralità di varietà linguistiche, assai simili tra di loro16, oppure, come è parso a Marazzini, per Fontanini «il Giuramento di Strasburgo era la testimonianza di una lingua

16 Questa era anche l’opinione di altri eruditi contemporanei, ben poco accondiscendenti nei confronti degli scritti dell’arcivescovo di Ancira. Benvoglienti, pur criticando l’utilizzo del termine

romanzo da parte di Fontanini, il 10 febbraio 1727 così scriveva al Muratori: «Voglio però

confessare che nel principio di queste tre lingue [francese, italiana e spagnola] non vi fusse tra di loro una grande differenza; tutti costoro di queste nazioni parlavano latino, quale si corrompette col mescolamento d’un medesimo linguaggio barbaro, perciò fra di loro non passava altro divario di quello che passa fra i dialetti di una lingua» (Muratori 1983: 164). Secondo Maffei (1738: 110-111) «per Romanzo intendeasi ogni linguaggio volgare nato dal Romano, cioè corrotto dal buon Latino» e «L’Italiano, il Francese, e lo Spagnuolo furon già assai più vicini, e fra sé uniformi, e passavano per dialetti dell’istessa lingua». Per quanto riguarda la posizione di Muratori, cfr. infra il capitolo su Muratori.

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‘intermedia’ tra il latino e gli idiomi romanzi, la quale era stata parlata in maniera uniforme in tutti i territori non germanici dell’impero di Carlo Magno» (1989: 77)17.

In altre occasioni Fontanini sembra utilizzare il termine con un significato più trasparente. Il capitolo IV del primo libro, ad esempio, s’intitola Antichità della

lingua Romanza Italiana, e si apre con il riferimento a un fatto avvenuto in

Germania nel 772, citato nella Vita di Santa Lioba, seguace di San Bonifacio, testo in cui si racconta di un paralitico spagnolo miracolato durante una sua visita alla grotta del Santo, a Fulda. Non appena riacquistato l’uso delle gambe, il fedele «interrogatus ergo a presbytero (quoniam linguae ejus, eo quod esset italus, notitiam habebat) retulit, se per excessum mentis vidisse virum» (1736: 7). Secondo Fontanini, il documento testimonia il fatto che all’epoca «già vi era il linguaggio

Italiano; e che non per altro lo Spagnuolo s’intendea da chi sapea l’Italiano, senon

per essere entrambe lingue Romanze» (ibid.).

Per giungere a una comprensione più chiara del significato con cui Fontanini accoglie il termine, bisogna tuttavia prendere in considerazione il secondo libro del trattato18. Nell’incipit del primo capitolo, riepilogando il discorso affrontato nel primo libro, l’autore afferma:

Da quanto abbiamo già divisato, chiaramente risulta, che il discadimento del latino idioma, prodotto in Italia dal numeroso, e vario concorso delle nazioni straniere, venne a dare il primo essere a questa lingua Romanza; e che poscia il commercio de’ nostri co’ Franchi, e specialmente co’ Provenzali, siccome a noi più vicini, fu cagione, che la loro favella,

17Aderisce a questa interpretazione anche Pellegrini (2000: 136), approfondendo lo spunto presente in un saggio di Francescato (1977). Francescato aveva inoltre ricollegato il concetto di lingua

romanza comune all’idea, espressa da Sabellico agli inizi del Cinquecento e poi accolta da molti

altri autori, secondo la quale il friulano si distingueva dalle altre varietà romanze per il fatto di essere una mescolanza di più lingue. Sulla storia di tale interpretazione cfr. Pellegrini (1987: 110-115; 2000: 129-137). Sulla base dell’interpretazione della lingua romanza come lingua intermedia comune, Marazzini (1989: 77) ha intravisto nel commento di Fontanini un’anticipazione della tesi formulata agli inizi dell’Ottocento da François Raynouard, il quale aveva identificato la lingua

romanza comune con il provenzale. Su Raynouard cfr. Vitale (1955: 86-89), Varvaro (1968:

33-40), Francescato (1978). Tale tesi, com’è noto, fu sostenuta in Italia da Giulio Perticari (cfr. Vitale 1978: 393-396), il quale tuttavia non accettò l’idea della priorità cronologica del provenzale (cfr. Marazzini 1989: 188-195).

18 Il secondo libro appare solo nell’edizione del 1736 e nella ristampa del 1737. Pistolesi (1993: 241-249) propone di datare la sua redazione agli anni 1729-1730, e adduce come elemento giustificativo della sua composizione la volontà di Fontanini di confutare le idee espresse nel 1724 da Anton Maria Salvini, nelle sue Annotazioni al terzo libro della Perfetta poesia di Ludovico

Antonio Muratori, con cui il letterato fiorentino aveva preso posizione contro l’attribuzione

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similmente Romanza, se ne passasse ad allignare fra gl’ingegni Italiani, e che poi la nostra pigliando di mano in mano corpo fisso e regolato, giungesse col girare degli anni a farsi distesamente ammirare in iscritto, ladove tal pregio della scrittura stimavasi proprio del solo idioma latino, tal quale correa ne’ secoli guasti, e confusi dalla barbarie dominatrice in tempo, che il Romanzo, cioè il volgare del latino, conforme lo dice il Minturno19, usavasi nel parlare, ma non così nello scrivere (113).

Nel riprendere in mano il suo trattato in vista della nuova edizione, al momento di raccordare la prima parte, pubblicata nel 1726, a quella che avrebbe visto la luce solo nel 1736, dopo la sua morte, Fontanini ha quindi modo di esporre con maggior chiarezza il concetto. Nel passo viene infatti sintetizzato il processo storico che dal latino conduce alla formazione delle lingue romanze, ricordando prima la frattura causata dall’arrivo dei ‘barbari’ e poi l’influsso linguistico-letterario esercitato in Italia dai «Franchi» e dai «Provenzali», affermando così la differenza fra «la loro favella, similmente romanza» e «la nostra», che dal suo «primo essere» giunse «col girare degli anni a farsi distesamente ammirare in iscritto». Pur in mancanza di riferimenti cronologici precisi, il passo citato testimonia quindi come Fontanini, nell’utilizzare il termine lingua romanza, si riferisca ad una pluralità di varietà linguistiche derivate dal latino volgare, varietà che, «pigliando di mano in mano corpo fisso e regolato», grazie anche al loro utilizzo nella scrittura, avvenuto in tempi diversi, assunsero l’identità di lingua francese, provenzale e, appunto, italiana20.

A questa consapevolezza storico-linguistica facevano da sponda le teorie di alcuni importanti autori. Rintracciando una linea di continuità fra le idee storico-linguistiche di Dante, di Sperone Speroni e di Giuseppe Scaligero, Fontanini si sofferma sulle idee di quest’ultimo, ricordato nell’ambito della storia del pensiero linguistico per essere stato il primo a tratteggiare un quadro delle parentele fra le lingue europee che presupponeva un’ipotesi poligenetica (cfr. Droixhe 1978: 60-76; 2000: 1958). Nella sua Diatriba de europaeorum linguis (1612: 115-118),

19 Si tratta del poeta Antonio Minturno, pseudonimo di Antonio Sebastiani (1500-1574), autore del trattato Arte poetica, opera a cui Fontanini fa riferimento nel passo citato.

20 Arato (2002: 88) cita invece il medesimo brano ma a sostegno dell’interpretazione proposta da Marazzini, senza soffermarsi sull’effettivo valore semantico che la locuzione lingua romanza assume nel passo in questione.

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basandosi su alcune concordanze lessicali, Scaligero aveva infatti raggruppato le lingue europee in undici matrici (matrices), fra le quali a suo modo di vedere vi era

nulla cognatio, suddividendole a loro volta in quattro maggiori (latina, greca,

germanica, slava) e sette minori (albana, tartarica, ungara, finnica, irlandica, britannica, cantabrica), e le aveva considerate come le lingue originarie di tutte le altre varietà parlate in Europa, da lui denominate propaggini (propagines)21. Richiamando le idee e gli esempi di Scaligero, Fontanini così argomentava:

Perciò noi possiamo prendere una voce della lingua matrice, la qual sia comune alle propaggini o diramazioni, e dialetti, dalla qual voce la matrice possa prendere il nome. Tal voce sia Deus, che è della matrice latina, donde viene l’italiana Dio, la Francese Dieu, e la Spagnuola Dios. Queste tre diramazioni e dialetti di una voce sola, per osservazione dello Scaligero, il quale in ciò confronta con lo Speroni, da me altrove citato22, si chiamano lingue Romanze: quae omnes uno nomine Romanzae, idest Romanenses,

sive Romanae vocantur: quam appellationes victores Barbari induxerunt23. Di qui si vede la fine penetrazione di Dante, col quale in tal pensiero della varia diramazione delle tre lingue Romanze lo Scaligero dopo lo Speroni si è incontrato nel ragionare con sì esatta chiarezza. (212-213)

Pur essendo funzionale all’esaltazione della «fine penetrazione di Dante», la citazione da Scaligero sembrerebbe confermare le nostre precedenti osservazioni sul significato del termine lingua romanza accolto da Fontanini nel suo trattato. Si tratterebbe quindi di un iperonimo (omnes uno nomine […] vocantur) usato per intendere ogni varietà derivata dal latino, senza distinzione diatopica, diacronica o diastratica. Con l’etichetta lingua romanza vengono infatti identificati non solo il francese, lo spagnolo, l’italiano e i dialetti parlati nella Penisola, ma anche la lingua dei Giuramenti di Strasburgo, il provenzale e l’antico francese, lingue, queste

21 Per meglio comprendere la lucidità del collegamento stabilito da Fontanini, si ricordi che Dante, nel fondamentale cap. VIII del primo libro del De vulgari eloquentia, aveva utilizzato le metafore botaniche radix e propago per riferirsi alla supposta origine orientale del genere umano ed alla sua diffusione in occidente dopo l’episodio della torre di Babele. Quanto ai riferimenti di Scaligero, è probabile che l’antecedente più diretto sia stato Konrad Gessner, che nel suo Mithridates (1555: 25) aveva affermato: «Latinae linguae propagines, sed tempore et vulgi imperitia valde corruptae, sunt tres hodie vulgares linguae, Italica, Hispanica et Gallica».

22 Elogiandone l’ingegno e la cultura, Fontanini aveva in precedenza apprezzato la terminologia adottata dallo Speroni, che nel Dialogo dell’Istoria aveva denominato la lingua letteraria comune

romanzo d’Italia (cfr. Fontanini 1736: 26).

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ultime, che Fontanini, in base al criterio della maggior conservatività, giudica simili al friulano, lingua «rustica e plebea, la quale ritien più del suo primo e non alterato originale» (1736: 12). A riprova di ciò non va inoltre dimenticato il fatto che assai frequentemente Fontanini accompagna il termine romanzo con un attributo, come

antico, francisco, d’Italia ecc., attributo che invece non compare quando la

caratterizzazione è desumibile dal contesto oppure quando il termine rimanda all’antico francese o al provenzale o a una delle lingue che hanno mantenuto tale denominazione, come il romancio.

A nostro parere, pur nell’evidente assenza di un approccio sistematico, che certamente risente anche della tormentata vicenda compositiva ed editoriale dell’opera (cfr. Volpato 2012: 47-53), la ricerca di una terminologia adeguata dimostra l’attenzione di Fontanini nei confronti delle sfaccettature della variazione linguistica, che viene a configurarsi come un processo connaturato alle lingue ma agente con dinamiche diverse, al punto da dar luogo, nel caso specifico delle lingue romanze, a esiti comparabili anche se cronologicamente lontani. I rapporti che l’autore individua tra il friulano e altre varietà romanze di diversa epoca storica, in particolar modo la lingua dei Giuramenti di Strasburgo, il provenzale e l’antico francese, diventano così «il segno di una curiosità per il dialetto considerato come base di raffronto, testimone del passato capace di tramandare elementi arcaici» (Marazzini 1989: 77).

Se la mancanza di attestazioni altomedievali delle lingue romanze, in particolare dell’italiano, mancanza di cui si lamentava anche il Muratori (cfr. Marazzini 1989: 79), aveva indotto Fontanini ad affidarsi alla sua erudizione per tracciare un quadro storico-linguistico coerente, diverso è invece il caso dell’ausilio offerto dalle fonti indirette, che attestavano non tanto le lingue, quanto il loro uso nella lingua parlata. Nel suo trattato, Fontanini fa varie volte riferimento a tale tipologia di documenti, come nel caso della Vita di Santa Lioba, contenente l’episodio, già citato, del paralitico spagnolo, oppure della Cronaca della Badia di San Benigno in Borgogna, nella quale si menzionano le abilità comunicative di Alinardo, Arcivescovo di Lione vissuto nell’XI secolo, abilità molto apprezzate dagli abitanti di Roma, dove Alinardo si recava frequentemente, per il fatto che il

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prelato «proferebat vernaculum sonum loquelae uniuscuiusque gentis, quousque latina penetrat lingua, ac si eadem patria esset progenitus» (1736: 115).

Il documento a cui l’autore dedica in assoluto maggior attenzione è tuttavia l’epitaffio in distici elegiaci di Papa Gregorio V, morto nel 999, il commento del quale occupa l’intero capitolo VI del primo libro del trattato. Stando alla ricostruzione storica proposta dallo stesso Fontanini, Gregorio V, al secolo Brunone, era figlio di Ottone, duca di Carinzia e prefetto della Marca di Verona, e nipote di Liutgarde, figlia dell’imperatore Ottone I. Riguardo alle lingue del suo repertorio, nell’epitaffio (1736: 16) viene prima definito «Lingua Teutonicus» e poi, con una importante precisazione, si dice che «Usus Francisca24, vulgari, et voce latina, / Instituit populos eloquio triplici». Dopo aver ricordato che il papa era originario della Francia orientale ed aveva fatto i suoi studi a Vormazia, capitale di quella regione, Fontanini espone la sua interpretazione:

la lingua materna e natia di Gregorio fu la Teotisca, o Tedesca, nell’epitaffio appellata Francisca: e per questo egli è detto ancora di

nazione Tedesco, Lingua Teutonicus, che è il sinonimo di Franciscus,

affinché a niuno cadesse in pensiero, che Gregorio avesse parlato quattro lingue, ladove nell’epitafio si dice, che ne parlò tre sole. (17)

Senza entrare nel merito della fondatezza dell’interpretazione fontaniniana25, si può osservare come la singolare attenzione dedicata a questo documento riveli una particolare sensibilità nei confronti del plurilinguismo, inteso come competenza ed uso di più di una lingua, sia esso riconducibile a necessità comunicative, come