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L’elaborazione dello schema storiografico

2. Scipione Maffei e la teoria classicistica sull’origine dell’italiano

2.1 L’elaborazione dello schema storiografico

Le idee espresse nella Verona illustrata, invece, sono il risultato di una profonda maturazione storico-culturale, avvenuta fra il 1712 e il 1720 ed avviata da un evento preciso (Momigliano 1984: 262-263). Se, come egli stesso ricorda nella sua autobiografia intellettuale premessa all’edizione delle Complexiones di Cassiodoro (1721), il trattato sulla cavalleria, con lo studio delle credenze antiche in merito all’onore, gli aveva spianato la strada verso l’erudizione, la scoperta dei codici antichi della Biblioteca Capitolare di Verona, da lui rinvenuti nell’ottobre del 1712 in cima a un armadio, lo spinse ad approfondire gli studi di antichistica e, nel contempo, ad impadronirsi degli strumenti della filologia3.

Nello studio dei codici Maffei si avvalse della sapienza di Benedetto Bacchini, il padre benedettino maestro di Muratori (Golinelli 1998). Successivamente ampliò il raggio dei suoi interessi anche all’epigrafia, e la sua attenzione si rivolse in particolar modo al mondo etrusco. Per studiare più da vicino le testimonianza di quell’antica civiltà si trasferì per due anni in Toscana, dove venne inguaribilmente contagiato dalla nascente ‘etruscomania’ (Cristofani 1983; Cipriani 1998), che lo portò a formulare l’ipotesi, esposta nel Ragionamento sopra

gli Itali primitivi (1727)4, che gli Etruschi, discendenti a loro volta dai Cananei,

2 Riguardo all’origine e allo sviluppo delle opinioni del Maffei sulle civiltà centro e nordeuropee cfr. il fondamentale contributo di Costa (1977: 248-284).

3 La premessa all’edizione delle Complexiones è stata ripubblicata, con traduzione e commento, da Marchi (1992: 35-60). Per l’elenco dei codici della Capitolare e per maggiori dettagli sulla loro scoperta si rimanda a Zivelonghi (1998).

4 Il Ragionamento venne pubblicato in appendice all’Istoria diplomatica, l’opera in cui l’autore presentò i risultati dei suoi studi conseguenti al ritrovamento dei codici della Capitolare.

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come egli credeva, avessero colonizzato l’intera Penisola, lasciando delle tracce anche nella lingua. Rifacendosi alla tesi cinquecentesca del Giambullari, il quale riteneva che l’italiano fosse derivato direttamente dall’etrusco5, Maffei si era lasciato trasportare dalla sua infatuazione per quella civiltà al punto da giungere ad affermare che:

Non sono da disprezzare alcune osservazioni del Giambullari nell’Origine della lingua Italiana: in molte cose devia essa dai molti modi della Latina, e della Greca, e si conforma all’Ebraica, onde pare potersi sospettare le provenissero dal genio dell’Etrusca, che correa in Italia prima, e che fu poco dall’Ebraica diversa: sono tra queste il non declinare i nomi, il non aver comparativo, l’usar molti affissi, il non aver neutro, e l’aver però articoli ma non del neutro, il suplire i gerundi e supini coll’infinito, il negare con due negazioni, e il formare i versi non per piedi e quantità, ma per suono e rima. (1727: 239)

Evidentemente, all’altezza del Ragionamento sugli Itali primitivi l’approccio storico-linguistico di Maffei era ancora molto lontano, nel metodo e nel merito, dalle documentate osservazioni che invece troviamo nella Verona illustrata, anche se nel passo emerge con chiarezza quello che sarà un contributo importante del suo pensiero linguistico, cioè la considerazione del ruolo del sostrato nel mutamento linguistico, fenomeno, come vedremo in seguito, già preso in esame nel trattato

Dell’antica condizion di Verona (1719).

Ritornando alla fondamentale scoperta del 1712, il tipo di carattere utilizzato in alcuni dei codici antichi della Capitolare lo portò, in contrasto con gli assunti della neonata scienza diplomatica, a proporre una spiegazione monogenetica dei diversi generi delle scritture medievali, la cui origine, a suo modo di vedere, doveva essere ricondotta all’epoca romana6. Criticando la suddivisione proposta da Mabillon, Maffei infatti afferma che «non ci fu mai carattere Gotico, non Longobardo, non Sassonico, non Francogallico» (1732: 620), dal momento che le

5 Sulla teoria ‘aramea’ della derivazione dell’italiano dall’etrusco, fondata sulla credenza dell’identità di questo con l’aramaico e dell’introduzione di quest’ultimo nell’Etruria da parte di Noè, cfr. Marazzini (1989: 26-29) e Tavoni (1990: 221-222). Sulla ripresa della teoria ‘etrusca’ nel Settecento vedi inoltre Marazzini (2002a).

6 Le idee di Maffei in merito alla paleografia, proposte nel 1727 nella Istoria diplomatica e di seguito sintetizzate con citazioni tratte dalla Verona illustrata, risalgono almeno al 1715 (Momigliano 1984: 262).

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popolazioni a cui veniva attribuita l’introduzione di tali caratteri «furon genti, che la spada usar sapeano, ma non la penna, e che non avean mai formata lettera in nissun modo» (628). I Longobardi, limitando il discorso al contesto italiano, una volta assimilatisi linguisticamente ai latini iniziarono a servirsi anche della scrittura, «ma avendo imparato qui, non altramente potean farlo che al modo de’ lor maestri, e come qui era in uso» (ibid.).

Secondo Maffei, quindi, il genere della loro scrittura, così diverso da quello delle epigrafi scolpite in capitale latina, «nacque in Roma, e fu proprio de’ Latini niente meno di qualunque altro» (631). Le necessità quotidiane della vita pubblica e privata dei romani, testimoniate dagli autori antichi, e le tracce di questi caratteri contenute nelle epigrafi, nei documenti papiracei e nei codici anteriori alle invasioni barbariche obbligavano infatti a postulare che anche nell’antichità fosse esistito un carattere minuscolo e corsivo, di utilizzo corrente (635-640).

Oltre a essere uno dei risultati più brillanti del suo acume filologico, la sua spiegazione dell’evoluzione della scrittura si tradusse ben presto in uno schema storiografico che Maffei applicò ad altri aspetti della cultura italica, come la metrica accentuativa mediolatina e romanza, anch’essa fatta risalire all’epoca antica. Timpanaro (1969: 361-364), dopo aver sottolineato il parallelismo fra le idee maturate da Maffei in merito alle questioni paleografiche e a quelle metriche, rileva inoltre come lo stesso schema concettuale venga applicato anche nella trattazione sull’origine dell’italiano inserita nella Verona illustrata.

Ma fra i motivi che condussero Maffei ad accostarsi alla tesi della ‘continuità’, bisogna ricordare anche due eventi bibliografici che non potevano non incidere sulle sue determinazioni. Innanzitutto, la nuova edizione del Trattato di Celso Cittadini, pubblicata nel 1721 all’interno delle Opere, edizione che aveva permesso la circolazione delle sue idee storico-linguistiche. Fatto salvo il parallelismo concettuale individuato da Timpanaro, non v’è dubbio, infatti, che le teorie di Cittadini costituissero il riferimento più immediato delle idee di Maffei sull’origine dell’italiano.

In secondo luogo, non può non sorgere il sospetto che anche la pubblicazione della prima versione del trattato di Fontanini, avvenuta nel 1726, abbia giocato un qualche ruolo nel mutamento di fronte operato da Maffei. La

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contrapposizione fra gli eruditi della prima metà del Settecento era infatti feroce, e ognuno dei primattori nel dibattito sull’origine dell’italiano cercò di gettare discredito sulle posizioni seguite dai suoi avversari, passando invece sotto silenzio i debiti nei confronti delle loro teorie, in molti casi fatte oggetto di un vistoso saccheggio (cfr. Arato 2002).

Per misurare la distanza di Maffei dalle idee di Fontanini, ci si può rifare alla stizzita recensione all’edizione definitiva dell’Eloquenza italiana (1736), che l’erudito veronese pubblicò nel 1738, includendola nel secondo tomo delle sue

Osservazioni letterarie (Maffei 1738: 99-298)7. Dopo aver criticato l’ambiguità del titolo8, la sconnessione delle idee e l’involutezza dello stile del trattato di Fontanini, Maffei si sofferma sulle posizioni dell’Arcivescovo in merito alle origini dell’italiano, cogliendo l’occasione per affermare la validità e la modernità delle proprie tesi:

Assai si travaglia in questo primo libro di persuadere a forza d’autorità, come l’Italiana è nata dall’impasto delle lingue barbare con la Latina. Questa era già l’opinion vecchia, e volgare, e per citarsi in favor di essa altri venti scrittori di più, niente s’impara di nuovo. Ma egli è uscita un’Istoria l’anno 1732, nell’ultimo libro della quale pare siasi mostrato a evidenza, come questo è un equivoco, che prese piede sulla fede de’ primi, e senza ulterior’esame. Le dimostrazioni, che quivi si apportano, o doveano essere abbracciate dall’autor nostro, come più altre cose non ha sdegnato di prendere da quel libro, o doveano essere confutate; perché senza questo il suo ripetere quaranta volte il contrario, non serve a nulla. E poiché tanto prese da Celso Cittadini, perché non imparò tal verità da lui, che tante volte la insegna? Nel suo trattato dell’origine, e processo della nostra lingua, di cui egli prese, e si appropriò il titolo, fa vedere anche il Cittadini a lungo, come la cagion della mutazione in vulgare del parlare latino non fu

l’avvenimento in Italia de’ Goti, de’ Longobardi, e de gli altri barbari; e fa

vedere, come né pur gli articoli le son venuti dalla conversazion de’

barbari; ma nel volgo c’erano ab antico. (108-109)

7 La recensione venne poi ripubblicata in Muratori et al. (1739: 3-91).

8 Secondo Maffei utilizzare il termine eloquenza come sinonimo di eloquio, come Fontanini aveva fatto chiamando in causa l’autorità di Dante (cfr. Fontanini 1736: 23; 196-197), generava confusione nei lettori, dal momento che «in volgare a’ giorni nostri eloquenza altro non significando che eloquenza» (1738: 101).

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L’Istoria a cui Maffei fa riferimento nel passo è quella relativa alla città di Verona, che occupa l’intera prima parte della Verona illustrata (1732), opera per cui, subito dopo la sua pubblicazione, l’autore si guadagnò l’accusa di plagio da parte di Fontanini e Muratori. I due eruditi rinfacciarono infatti a Maffei di essersi servito nella compilazione della seconda parte della Verona Illustrata, dedicata alla storia letteraria, degli appunti di Ottavio Alecchi (cfr. Arato 2002: 107-108).

L’animosità della contraccusa, rivolta a Fontanini, di non aver seguito le idee di Cittadini probabilmente era dovuta anche a questo fatto. Quanto all’indifferenza dimostrata da Fontanini per le argomentazioni contenute nella

Verona illustrata, bisogna ricordare che l’erudito friulano aveva già esposto le sue

idee nell’edizione del 1726 dell’Eloquenza italiana, edizione che, come abbiamo sopra ipotizzato, potrebbe aver contribuito alla decisione di Maffei di dire la sua sull’argomento. In merito all’accusa di non aver seguito le idee di Cittadini, invece, abbiamo già avuto modo di soffermarci sui motivi che potrebbero aver portato Fontanini a minimizzare il contributo del letterato senese.

Un altro punto fondamentale della recensione tocca il rilievo assegnato da Fontanini all’influsso del francese e del provenzale nello sviluppo dell’italiano letterario. A tal proposito, Maffei osserva polemicamente che

Dopo aver più volte professato, che fa quest’opera in difesa, e in favore della nostra lingua, vien con mirabil coerenza a mostrare, com’essa per sé era rozza, povera e incolta, e che però i primi Scrittori Italiani non in Italiano ma scrissero in Francese, e che per la Francese, e per la Provenzale si venne poi l’Italiana civilizando. Questo valente Scrittore era stato udito più volte ragionare in affatto contraria sentenza, e si tiene che mutasse poi per essersi immaginato di mortificar con questo certe persone di parere del tutto diverso, che gli vennero in disgrazia. Non possono i Francesi adunque far maggior caso di lui, in quel che si faccia in guerra d’un vil desertore. (115-116)

Se Maffei aveva sicuramente ragione a stigmatizzare l’incoerenza della posizione di Fontanini, per altro verso, essa si dimostrava una conseguenza inevitabile della prospettiva storico-linguistica seguita dall’Arcivescovo, che l’aveva portato a considerare con rinnovata attenzione la complessa vicenda storico-linguistica italiana. Su questo punto, tuttavia, le due impostazioni erano

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inconciliabili. La visione classicistica impediva infatti a Maffei una serena considerazione delle influenze delle altre lingue e letterature dell’Europa medievale sullo sviluppo della lingua italiana.

Il terzo elemento qualificante della recensione riguarda lo spazio dedicato da Fontanini al De vulgari eloquentia. Maffei rimarca il fatto che l’autore «persiste sopra di essa per cento facciate fino alla consumazion del libro» (1738: 127), dilungandosi su aspetti dell’opera, come la sua discussa autenticità, su cui, a suo modo di vedere, pochi nutrivano ancora dei dubbi. Il fastidio di Maffei per l’indugio di Fontanini sul trattato dantesco si tinge poi di manifesto risentimento quando sottolinea il fatto che l’Arcivescovo, nella sua analisi del De vulgari eloquentia, non aveva menzionato la nuova edizione dell’opera da lui curata, pubblicata assieme ad una scelta di opere di Trissino (1729)9. Si trattava della prima ristampa dopo l’editio princeps del Corbinelli del 1577, affiancata dalla versione del Trissino del 1529 ed accompagnata da delle importanti annotazioni di Maffei. Nella prefazione il letterato veronese adduceva infatti ulteriori argomentazioni a sostegno dell’autenticità dell’opera e forniva una nuova spiegazione del significato del titolo della Commedia, deducendolo dalla dottrina dantesca dei tre stili (Trissino 1729, I: xxix).

Con una valutazione a posteriori, si deve riconoscere che Maffei aveva pienamente ragione a infiammarsi per l’omissione di Fontanini, dato che la nuova edizione del De vulgari eloquentia fornì un contributo fondamentale al riaccendersi dell’interesse per l’opera del poeta fiorentino, al quale nella seconda parte della

Verona illustrata viene dedicato un capitolo apologetico (Maffei 1731: 96-108)10. Al di là dell’apporto dell’uno o dell’altro alla rivalutazione di Dante, si può quindi affermare che, almeno sulla grandezza dell’autore fiorentino, fra i due eruditi vi era una perfetta consonanza di opinioni.

9 È probabile, d’altra parte, che l’ampia trattazione sul De vulgari eloquentia inserita nella terza edizione dell’Eloquenza italiana sia una risposta, alla maniera dell’autore, all’iniziativa editoriale di Maffei.

10 Sul ruolo di Maffei nella rivalutazione di Dante in area veneta nella prima metà del Settecento cfr. Puppo (1975) e Dionisotti (1998).

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