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Fedeltà e autenticità delle traduzioni

Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti

2.1 Giammaria Ortes

2.1.3 Fedeltà e autenticità delle traduzioni

Dopo la condanna senza appello del plurilinguismo, Ortes passa a trattare del terzo ambito a cui si rapportano le lingue, ossia le cognizioni, e propone un’interessante distinzione fra cognizioni reali e apparenti. Le prime sono quelle «geometriche astratte», la cui verità è inconfutabile, mentre le seconde, di gran lunga più comuni, sono quelle opinabili, come quelle relative alla storia, al diritto, alla politica (LX-LXI). Dopo aver dedicato numerose pagine a sviscerare l’argomento, l’autore ritorna alle considerazioni sul linguaggio, richiamando il concetto dell’imperfezione

6 Formigari (1990: 139) si limita a un generico riferimento ai materialisti francesi, mentre Gensini (1993: 194) ritiene che si possa intravedere un’influenza di d’Holbach.

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delle lingue, derivata, ricordiamo, dalla sproporzione esistente tra il numero finito delle parole stabilite per convenzione e l’infinità degli oggetti. A questo punto, applicando le sue considerazioni linguistiche alle nuove categorie delle cognizioni reali e apparenti, Ortes inserisce una digressione in cui spiega come i tropi retorici siano, in buona sostanza, una conseguenza dell’imperfezione delle lingue:

Una assai curiosa conseguenza che dalle cose suddette si viene a dedurre è questa, che l’imperfezione accennata delle lingue, per cui le voci riescono a numero molto minore di quello degli oggetti per esse espressi, par che torni non già a difetto come si crederebbe a prima vista, ma a perfezione ed eleganza di quelle maggiore, in quanto non avendovi così nessune voci talmente proprie e attaccate ad alcuni oggetti, che non possano applicarsi anco ad altri; gli oggetti stessi possono esprimersi, o destarsene le immagini negli intelletti, non solo per voci dirette, ma per più altre ancora indirette chiamate traslate come s’è veduto7, d’oggetti a quelli analoghi e consimili. A questo modo sebbene manchino nelle lingue le voci dell’ultima precisione alle immagini degli oggetti determinate, soprabbondano per le indeterminate, e in mancanza e nell’impossibilità di adoperare per ciascuna immagine ciascuna voce diversa, se ne adoprano non una, ma più e più altre d’oggetti a quelle affini e consimili, per le quali non una, ma più immagini similmente occorrono all’intelletto pur fra sé consimili e combinabili, ciò che suol avvenire con molto diletto e soddisfazione dell’intelletto medesimo. (LXXVII-LXXVIII)

Ecco allora che, con un nuovo e geniale paradosso, dall’imperfezione delle lingue e dall’indeterminatezza del lessico Ortes concepisce l’idea della potenzialità espressiva del linguaggio. Affrancate dal loro rapporto diretto con gli oggetti, le parole non solo possono essere utilizzate metaforicamente, ma possono anche combinarsi fra di loro, moltiplicando così le immagini che si associano a un concetto. Non a caso, Ortes esemplifica questa virtù del linguaggio sottolineando l’effetto semantico di alcuni traslati utilizzati come appellativi divini:

7 Nel cap. XIV, dedicato alle Imperfezione della favella sulle cognizioni reali, Ortes aveva affermato: «E invero quantunque ciascuni oggetti in ciascuna favella tengano alcune voci più espressive e distinte, dette pertanto lor proprie; ciò non fa che tali voci non possano eziandio applicarsi ad oggetti da quelli diversi, per le quali diventan traslate, non per altro certamente, che per la povertà appunto di esse voci in riguardo agli oggetti, e all’impossibilità di appellar ciascuni con voci talmente proprie, che non possan esser d’altri» (LXXIV).

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Così appellandosi DIO ottimo e grandissimo, non solo per questo venerando più proprio suo nome, ma per altri ancora traslati di via, di

verità, di vita e simili, si destan nell’animo tutte le immagini proprie e loro

affini, possibili più o meno a destarsi per queste ciascune voci, a misura dell’attività dell’animo stesso, onde figurar alla mente con più efficacia e grandezza l’idea di questa ineffabile essenza. (LXXVIII)

Quanto all’utilizzo dei tropi retorici, dopo aver raccomandato una «certa connessione e misura, per la quale siano conosciuti simili e relativi agli oggetti lor proprj» (ibid.), Ortes precisa che essi convengono alle cognizioni apparenti, più che alle reali. Queste ultime infatti richiedono «termini più proprj e precisi», dal momento che i traslati finirebbero per «renderle a chi n’è privo più oscure ancora ed ignote» (LXXX).

Come Gensini ha osservato, (1993: 199), queste considerazioni sembrano richiamare quella distinzione fra parole e termini che, teorizzata in ambiente portorealista, era stata approfondita da Beccaria8, e sarebbe poi diventata uno dei capisaldi della poetica leopardiana. Certo è che Ortes ne trae lo spunto per stabilire una strabiliante equazione fra la retoricità della comunicazione sociale e la prevalenza delle cognizioni apparenti (LXXII), cioè del cosiddetto senso comune rispetto alle conoscenze scientifiche, lanciando così uno strale non solo contro le credenze popolari, ma anche e soprattutto contro quella cultura accademica e stantia che già nella prima metà del secolo si era attirata le critiche di Muratori. Per tale motivo, pur riconoscendo all’eloquenza una funzione comunicativa importante per le ragioni sopra illustrate, Ortes la colloca in una posizione subordinata rispetto alle arti che invece hanno il compito di «istruire»:

E perché le verità di qualsivoglia genere non possono esser conosciute che per qualche istruzione, questa dunque dovrà sempre precedere il diletto che proviene dalla favella, e l’oratoria così, la poesia, non men che l’altr’arti tutte dilettevoli, dovran generalmente conseguire la filosofia, la morale, e l’altr’arti istruttive, siano apparenti o siano reali, senza che possan mai quelle precedere queste, non essendo certamente possibile adornar coi fiori dell’eloquenza, e con immagini traslate e sublimi, ciò che non si sia prima appreso per voci proprie, più piane e precise. (XCIV-XCV)

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Recuperando le cordinate della sua visione ‘geometrica’, al seguace di Galileo e di Newton pare infatti che «l’ostinarsi poi a contrastar quel reale con questo apparente, è come contrastar il corso del Sole con un tiro di cannone, o pensar di distruggere la natura in sé stesso [sic]» (C).

Esaurita la sua trattazione, Ortes può così ritornare all’occasione che l’aveva generata, e stendere il bilancio della sua esperienza di traduttore. Eccolo allora affermare che la traduzione che siamo soliti definire ‘letterale’ è possibile solo nel caso delle cognizioni reali, dove si tratta semplicemento di sostituire il «termine» di una lingua con quello dell’altra. Per quanto riguarda invece le cognizioni apparenti, che vengono comunemente espresse con un abbondante ricorso ai tropi retorici, Ortes osserva che è impossibile riprodurre nella lingua d’arrivo l’effetto comunicativo che l’ornatus possiede nella lingua di partenza. Ogni lingua si caratterizza infatti per il suo proprio ‘genio retorico’, come verrà definito da Cesarotti. Il traduttore, per risolvere il problema, dovrà pertanto «figurarsi d’essere autore, per non isfigurare il suo autore», cioè dovrà trasporre fedelmente i contenuti del testo di partenza ricreandone l’espressività in base ai caratteri stilistici propri della lingua d’arrivo9. Il buon fine della sua traduzione sarà quindi determinato dalla fedeltà ai contenuti dell’originale e dall’autenticità espressiva che avrà saputo conferire al nuovo testo:

L’indizio poi per cui ravvisare, s’ei si sia nel tradurre comportato con queste regole, sarà sol questo, di piacer tanto la sua traduzione a quei della lingua tradotta, quanto l’originale a quei della lingua originale, o di poter quella passar per opera così originale fra quelli, come l’originale medesimo passa per tale fra questi. (CVI)

9 Nell’Avviso al lettore Ortes aveva rivendicato la novità di tale scelta dichiarando, a proposito della traduzione dell’Essay di Pope, di essersi «allontanato dalle maniere solite usarsi dagli altri in simili casi». Il riferimento andrà probabilmente rapportato al criterio della ‘fedeltà al testo di partenza’ sostenuto nel contesto italiano, a differenza di quanto avveniva oltralpe, da letterati quali Maffei e Salvini (cfr. Brettoni 2004: 22-26). Sulla pratica della traduzione ‘parola per parola’ nell’Italia del primo Settecento cfr. anche Pistolesi (2006).

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Conclusione di grande finezza quella dell’Ortes, degna di un grande letterato, e allo stesso tempo un’affermazione more geometrico dell’individualità delle lingue, senza per questo negare la praticabilità della traduzione.