Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti
2.2 Melchiorre Cesarotti
2.2.3 Una concezione ambivalente della diversità linguistica
Soffermandoci sugli aspetti che hanno maggiore attinenza con le finalità del nostro studio, dalle proposte cesarottiane emerge un approccio al plurilinguismo che, a un primo livello di analisi, sembra coniugare l’attenzione verso gli scambi linguistici con una visione comparatistica di tipo humboldtiano. Al momento di caldeggiare le ricerche storico-linguistiche, Cesarotti raccomanda infatti di «ricercar le origini italiane coll’esame e ‘l confronto di tutte le lingue le quali concorsero a formar la nostra» (IV, xvi, 1)14, e quando propone lo studio dei dialetti e la redazione dei corrispondenti dizionari, richiamandosi esplicitamente alle idee di De Brosses e di Muratori, ne indica con precisione sia le finalità scientifiche sia le ricadute pratiche:
Studio curioso infine e necessario per posseder pienamente la lingua italiana, per conoscer le vicende e trasformazioni dello stesso vocabolo, e sopra tutto per paragonar tra loro i diversi termini della stessa idea e le varie locuzioni analoghe, valutarne le differenze, rilevar i diversi modi di percepire e sentire dei vari popoli, indi trarre opportunamente partito da queste considerazioni, e supplir talora con un dialetto alle mancanze d’un altro. (IV, xvi, 3)
Oltre all’interesse per la diversità linguistica, il passo dimostra come Cesarotti si ponga in linea di continuità con la tradizione galileiana (Biasutti 2002), ben radicata negli ambienti intellettuali padovani, tradizione secondo la quale la scienza non è un sapere astratto, ma è sempre vincolato alla sua utilità pratica, «utile agli usi della vita», così come il metodo deve coniugare la ragione e l’esperienza, per cui l’analisi filosofica del linguaggio deve avere «per base l’uso e per direttrice la ragione». Ma l’interesse scientifico manifestato dall’autore per la comparazione
14 Secondo Cesarotti tali lingue erano «oltre la latina, e in parte la greca, l’antica gallica o celtica, la gotica, la longobardica, la tedesca, la provenzale, la francese moderna, la spagnola, l’arabica» (ibid.).
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lessicale, al fine di «rilevar i diversi modi di percepire e sentire dei vari popoli», è certamente tutto settecentesco, e se l’affermazione tradisce i debiti dell’autore nei confronti del sensismo (cfr. Brioschi 2002), i due verbi utilizzati, percepire e
sentire, non possono non richiamare alla mente una delle più famose degnità della Scienza Nuova15, a testimonianza dell’influsso del pensiero vichiano che si irradia a tutto il ventaglio dell’attività intellettuale di Cesarotti, come è stato dimostrato da Battistini (2002).
Pur condividendo con Vico il principio dell’origine naturale del linguaggio, l’autore che Cesarotti segue più da vicino nella sua spiegazione glottogonica – a cui sono dedicati i primi capitoli della seconda parte del Saggio – è tuttavia il francese Charles de Brosses (1709-1777)16. Sulla scorta del Traité de la formation
mécanique des langues et des principes physiques de l’etymologie (1765), il filosofo
padovano pone all’origine del linguaggio la capacità imitativa degli esseri umani e le abilità fonatorie. Per comunicare fra di loro, gli esseri umani avrebbero creato inizialmente delle voci onomatopeiche, riproducendo il suono degli oggetti, più precisamente «l’idea del corpo sonoro», in modo fonosimbolico. Siccome «i vocaboli sono come la catena trasversale che riunisce quella degli oggetti con quella delle idee» (II, iii), da questi «vocaboli primitivi» sarebbero poi derivati i lessemi per designare prima le entità visibili e poi quelle astratte, sulla base dei rapporti analogici esistenti sia tra i referenti sia tra i vocaboli. Di questo processo di creazione e derivazione Cesarotti avverte però l’imperfezione, dal momento che
Potendo ciaschedun oggetto derivato in grazia degli anzidetti rapporti diventar centro di molti, e questi successivamente d’altri in infinito, ne segue che i vocaboli quanto più si slontanano dal primo termine radicale, più vanno deviando dal significato di esso, e procedono desultoriamente e trasversalmente d’idea in idea, in guisa che non possono risalire alla prima se non per un laberinto d’obliquità, di cui è talora assai malagevole trovar il filo. (ibid.)
15 Si tratta della già citata degnità LIII:«gli uomini prima sentono senz'avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura».
16 Per un inquadramento delle idee di de Brosses nell’ambito del pensiero linguistico europeo del Settecento e per una valutazione della loro presenza nel Saggio di Cesarotti si veda il prezioso contributo di Nobile (2007).
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Nel processo di creazione e derivazione linguistica si vengono così a creare due categorie di termini, i «termini-figure», che mantengono un rapporto naturale con gli oggetti designati, e i «termini-cifre», per i quali invece tale rapporto si è opacizzato o che, comunque, «non hanno con l’idea che un rapporto arbitrario o convenzionale» (II, ii). Com’è stato osservato, questa dicotomia porta Cesarotti a trasformare la teoria genetica di de Brosses in una teoria estetica (Marazzini 1993: 299), dal momento che, secondo l’abate padovano, i «termini-figure» sono più «belli e pregevoli» perché «rappresentano più al vivo le qualità esterne degli oggetti» (II, vii),
Fonte di creazione di parole arbitrarie è inoltre l’abilità fonatoria di per sé considerata. Sempre seguendo de Brosses, Cesarotti infatti osserva che talune parole sono nate per ‘economia articolatoria’, come nel caso delle voci infantili presenti nelle lingue europee: «le prime articolazioni dei bambini sono labiali, e quindi sogliono essi naturalmente chiamar pappa il cibo, bobò il cavallo, benchè queste voci non abbiano veruna specie di relazione con quegli oggetti» (II, v).
Il meccanismo di sviluppo del linguaggio è a capo anche del processo di variazione intralinguistica, rappresentato da Cesarotti con toni che ricordano l’enfasi posta dall’Ortes sull’irriducibile individualità delle lingue:
Poiché tralasciando l’infinita varietà nella derivazion delle idee, primieramente ciaschedun membro dell’organo vocale non ha una sola articolazione che gli appartenga, ma varie affini nate dalla sua varia flessione e dal vario grado d’impulso, che si diversifica più o meno in ciascheduno degli individui parlanti; poi regna necessariamente molto d’arbitrio nell’accozzamento, nell’ordine e nella temperatura delle consonanti e delle vocali: finalmente i segni arbitrari della derivazione prefissi, inseriti o posposti modificano i vocaboli nati dallo stesso fonte in cento guise diverse: dal che appunto deriva che pochi germi della medesima specie propagano coll’andar del tempo la selva immensa ed intralciatissima delle lingue. (II, vi)
Se l’immagine cesarottiana dell’ingens silva linguarum restituisce l’idea di un caos ingovernabile, essa d’altra parte non adombra il principio unificante che ne spiega l’origine, reso con la metafora dei «pochi germi», dietro alla quale, ancora una volta, è facile scorgere il concetto dei radicali primitivi teorizzato da de
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Brosses. Di conseguenza, se da un lato quest’idea ‘generativa’ sembra autorizzare il pluralismo linguistico come una condizione naturale, dall’altro essa non si affranca dal monogenetismo tradizionale, come appunto emerge nell’affermazione cesarottiana da cui prende le mosse la sua ricostruzione dell’origine del linguaggio:
È certo che l’uomo porta seco dalla natura una lingua incoata, e in un certo senso uniforme, la quale serve di base comune all’immensa famiglia di tutte le lingue dell’universo, e della quale gli eruditi d’alta sfera scopersero in ciascheduna tracce profonde e sensibili. (III, ii)
Oltre a contenere un riferimento abbastanza trasparente a Leibniz («gli eruditi d’alta sfera») e alla sua ricerca storico-linguistica, l’affermazione sembra riproporre il principio della ‘grammatica generale’ di Port Royal (cfr. Simone 1990: 331-336). A ben vedere, quindi, il naturalismo linguistico di Cesarotti rivela dei fondamenti teorici ben distinti da quello vichiano.
Quest’idea della generazione delle lingue si riflette anche sulla rappresentazione dei rapporti che intercorrono fra le stesse, in particolar modo quando l’applicazione dei principi generali riguarda gli idiomi che sono espressione di una realtà municipale e che vantano un prestigio di gran lunga inferiore a quello della lingua comune, come nel caso dei dialetti italiani. Nel trattato cesarottiano si producono così due prospettive divergenti nel modo di affrontare la variazione dialettale, a seconda che essa sia considerata sulla base dei principi del liberismo linguistico dell’autore oppure indagata con gli strumenti che la filosofia del linguaggio metteva a sua disposizione, e ciò senza passare sotto silenzio gli esiti del dibattito settecentesco sull’origine dell’italiano.
La prima prospettiva è chiaramente visibile nella prima parte del trattato. Nelle celebri pagine d’esordio del Saggio, dopo aver affermato che nessuna lingua è superiore a un’altra, nessuna è pura, nessuna è perfetta, nessuna è inalterabile, Cesarotti non solo puntualizza che «niuna lingua è parlata uniformemente dalla nazione» (I, i), ma anche osserva – valutando gli aspetti positivi e quelli negativi della predominanza di un dialetto sugli altri –, che «sarebbe forse da desiderarsi che, siccome appresso i Greci, tutti i dialetti principali fossersi riputati ugualmente nobili, e si maneggiassero ugualmente dagli scrittori» (I, ii).
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Nell’ultima parte del trattato sembra invece prevalere la seconda visione. Nell’accingersi a ripercorrere la storia della questione della lingua, dopo aver rinnovato la sua opposizione contro «le prevenzioni nazionali o scolastiche sulla nobiltà originaria e sulle qualità esclusive delle lingue» ed aver affermato che «se ogni lingua appassisce fra le mani degl’idioti e dei rozzi, ognuna all’opposto si perfeziona e risplende qualora serve agli usi d’un popolo ingegnoso e colto, ed è maneggiata da uomini originali» (IV, i), l’abate padovano così rappresenta la varietà linguistica della Penisola:
Arrestandoci nella nostra, siccome comuni all’Italia furono le rivoluzioni politiche, comuni le cagioni che le produssero, comune l’antica lingua che vi dominava, comune ancora doveva riuscir il nuovo idioma che ne derivò. Non v’è lingua senza dialetto, come non v’è sostanza senza i suoi modi: né però la lingua cessa d’esser una; altrimenti vi sarebbero tante lingue quante città. La sintassi uniforme, le desinenze, la massa comune dei vocaboli, la conservazione delle lettere radicali sono i caratteri distintivi d’una stessa lingua: i termini particolari, le frasi proverbiali, qualche singolarità nelle parti dell’orazione, e sopra tutto le alterazioni della pronunzia, costituiscono i dialetti. Ora in ogni città d’Italia regna lo stesso sistema di costruzione e di reggimento anche nella bocca del volgo; comune è la maggior parte de’ vocaboli, e comunemente intesa, perché le radicali o sono le stesse, o affini tra loro. La differenza in questa parte sta solo nelle desinenze; perché i Lombardi sino a Rimini, ed alcuni altri, troncano le parole nel fine, sicché vengono a terminare nelle consonanti: i Toscani all’opposto e pressoché tutti gli altri da Rimini sino al confine dell’Italia, e i Veneti parimente, conservano la terminazione vocale, terminazione sana e legittima, e riconosciuta per tale da quegli stessi che non l’osservano esattamente. (IV, ii)
Rapportato alla situazione italiana, il liberismo linguistico di Cesarotti si traduce quindi in una posizione fermamente unitarista, corroborata dalle idee linguistiche di Leibniz e de Brosses, posizione che richiama il pensiero di Muratori, come è stato giustamente sottolineato da Perolino (Cesarotti 2001: 162). Così, secondo Cesarotti l’unico tratto significativo che differenzia i dialetti italiani, ricondotti a due gruppi, è costituito dalla presenza o meno dell’apocope finale, fenomeno discusso nel seguito del capitolo con cognizione delle spiegazioni storico-linguistiche avanzate dagli eruditi italiani, in particolar modo da Muratori,
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ma giudicato nel passo citato in base a un principio d’autorità – «terminazione sana e legittima» – che di fatto smentisce l’assunto secondo il quale nessuna lingua è superiore a un’altra. D’altra parte, non fa alcuna differenza che qui si stia parlando di dialetti e non di lingue, dal momento che si tratta di una comparazione inter
pares, né assume rilievo la differenza fra lingua parlata e lingua scritta, varietà
tenute sempre ben distinte da Cesarotti.
Bandito il pregiudizio della lingua nobile a livello teorico, eccolo quindi ricomparire nella considerazione storica dei fatti linguistici, considerazione dietro alla quale non è difficile intravedere quell’equazione una lingua = una nazione che di lì a pochi anni sarebbe diventato il fondamento dell’ideologia linguistica manzoniana. Anche da questo punto di vista quindi – e non solo per il rilievo teorico del Saggio, per la sua organicità e per la ricchezza dei suggerimenti pratici in esso contenuti –, non appare senza fondamento il giudizio che vede in Cesarotti il «vero e grande iniziatore del nostro moderno pensiero linguistico» (Nencioni 1950: 7)17, se rapportiamo tale giudizio a un’ideologia linguistica unitarista.
Dal punto di vista della concezione della pluralità linguistica italiana, invece, il pensiero cesarottiano non si colloca sulla stessa linea di quello espresso da autori come Fontanini, Bettinelli, Carli, Parini, che pur condividendo l’idea della ‘lingua comune d’Italia’, avevano allo stesso tempo valorizzato l’individualità storica dei singoli dialetti. Lungo la linea riformatrice dettata da Muratori, nel trattato di Cesarotti i dialetti vengono così ad assumere una valenza accessoria nei confronti dell’italiano. D’altra parte, la finalità di Cesarotti era quella di contribuire a migliorare la lingua scritta comune, e il titolo della prima edizione del trattato era appunto Saggio sopra la lingua italiana (1785), titolo forse più acconcio ai contenuti dell’opera (cfr. Marazzini 2002: 258).
Quest’idea prerisorgimentale della lingua emerge con grande rilievo anche dal Saggio sopra le instituzioni scolastiche pubbliche e private, composto nel 1797 dopo il passaggio della Repubblica di Venezia all’Austria. Nel delineare il piano di studi della scuola elementare, a cui gli alunni avrebbero dovuto essere ammessi all’età di dieci anni, dopo aver frequentato le scuole normali, Cesarotti colloca al primo posto l’apprendimento della lingua italiana, osservando che «fu sinora
17 Il giudizio di Nencioni, posto al vaglio della più recente storiografia linguistica, è stato confermato da Nobile (2007: 521).
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vergogna il trascurarla; ora diverrebbe un delitto di lesa nazione» (1821: 304). Data la finalità patriottica dello studio dell’italiano, non stupisce il fatto che nell’ordinamento degli studi elaborato dall’autore padovano, una volta ribadita la tradizionale attenzione al latino e, in subordine, al greco, l’apprendimento delle lingue moderne non solo si riduca al francese, in virtù del suo prestigio internazionale, ma la lingua d’oltralpe venga anche inserita nel curriculum in modo da non costituire un pericolo per l’apprendimento dell’italiano e del latino:
Non è più permesso di prescindere dallo studio della lingua francese, già dominante in Europa, e così altamente benemerita delle scienze e dell’arti; ma questo studio deve differirsi sino all’ultimo anno delle scuole elementari, perché, insegnato prima, nuocerebbe a quello della lingua italiana, mescolando i caratteri delle due lingue, ed impedirebbe i progressi della latina, laddove, essendo l’alunno reso abbastanza padrone dell’una e dell’altra, può esercitarsi anche in questa senza pericolo. Perché dopo aver appreso le altre due, l’acquisto della nuova dee riuscirli più facile; e perché infine, essendo più avanzato e in età e nelle conoscenze, può sentir meglio le necessità ed i pregi di detta lingua, che può dirsi ai nostri tempi già classica. (308)
Il differimento dello studio del francese, che contrasta con il diverso ordine di piorità indicato dal Carli, diventa ancora più significativo se consideriamo che le idee pedagogiche espresse da Cesarotti nel profilo introduttivo ripropongono alla lettera quelle di Vico18, che invece aveva raccomandato l’apprendimento precoce delle lingue per la loro utilità nello sviluppo della memoria.
Va da sé, infine, che nel Saggio sopra le instituzioni scolastiche non vi sia alcun riferimento alla dialettofonia degli alunni, alla quale invece Carli aveva dedicato attenzione nel suo disegno di riforma scolastica, condizione che nelle osservazioni didattiche del contemporaneo Denina, come vedremo nel prossimo capitolo, costituisce un dato di fatto fondamentale attorno al quale ruota la sua proposta di introdurre nel Piemonte il francese come lingua scritta.
18 Secondo Cesarotti «l’intelletto prima apprende, cioè osserva gli oggetti presentati dai sensi e dalla memoria, poscia giudica, cioè scorge e nota al convenienza di essi, tanto fra loro, quanto relativamente a noi; finalmente ragiona, cioè da uno o più giudizi già fatti ne deduce un terzo non preveduto. Seguasi lo stesso ordine negli studi, e saremo certi di non errare avendo per guida la natura» (302).