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L’esigenza di una lingua viva e moderna

Giuseppe Baretti, Carlo Denina

3.1 Francesco Algarotti

3.1.1 L’esigenza di una lingua viva e moderna

Dedicato a Saverio Bettinelli, con l’invito «a nobilitare con le opere del suo ingegno questa nostra lingua e a renderla sempre più degna dello studio degli stranieri» (Algarotti 1963: 227), il primo dei due saggi nasce dalla consapevolezza del «pericolo a che altri si mette scrivendo in una lingua non sua» (ibid.), e di consapevolezza appunto si trattava, vista la formazione europea, anche nel campo linguistico, dell’autore. Scaturito da una riflessione sul suo impiego del francese, il saggio di Algarotti in realtà si concentra sull’opportunità di continuare a utilizzare il latino nella comunicazione dotta. Il suo ragionamento parte dalla distinzione fra antichi e moderni in merito alla necessità di apprendere le lingue. Se per i Greci

2 Per un profilo bio-bliografico dell’autore si veda Da Pozzo (1986a).

3 Sul pensiero linguistico di Algarotti si vedano le note di Puppo (1957: 32-36), Vitale (1978: 262-265), Gensini (1993: 108-110).

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«una cosa era la lingua volgare e la dotta», mentre le altre lingue non avevano alcun prestigio, e se i Romani, per quanto l’apprendimento della lingua greca fosse necessario per la loro formazione culturale, utilizzavano solo il latino nella composizione letteraria, secondo il conte veneziano

I moderni, all’incontro, si trovano costretti di apprendere le varie lingue in cui parlano e scrivono nazioni che hanno tra loro comunione di trattati, di letteratura, di traffici, che non la cedono l’una all’altra né per ingegno, né per imperio; ed hanno da studiare inoltre la lingua latina e la greca, le quali sono come l’erario di ogni nostro sapere. Tanto da noi esige una certa necessità letteraria, dirò così, e politica, che risulta dalla presente constituzione del mondo. (230)

Con una considerazione di una sorprendente attualità, la necessità del plurilinguismo viene quindi messa in rapporto alla «comunione» delle nazioni moderne, allo stesso tempo gelose della loro identità linguistica. Quanti invece «non degnano depositare i loro pensamenti che dentro al sacrario delle lingue morte», ritenendo che esse siano «in certo modo divenute il linguaggio dell’Universo e della eternità», seguono un’opinione erronea, dal momento che

Diversi sono appresso nazioni diverse i pensamenti, i concetti, le fantasie; diversi i modi di apprendere le cose, di ordinarle, di esprimerle. Onde il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio, riesce specificamente diversa da tutti gli altri, come quella che è il risultato della natura del clima, della qualità degli studi, della religione, del governo, della estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio, di ciò che constituisce il genio e l’indole di una nazione. (231)

Come si può ben vedere, Algarotti perviene a una definizione matura del concetto di ‘genio della lingua’. Alla credenza tradizionale dell’influenza del clima si aggiunge infatti la considerazione dei fattori storici, culturali, religiosi, politici, economici, di tutti quegli elementi insomma che concorrere a definire il ‘genio della nazione’. Tra la forma della lingua e le caratteristiche della società che in essa si esprime esiste quindi una relazione stretta, cosicché chi volesse scrivere in una lingua diversa dalla propria «converrebbe egli fosse un altro Proteo, atto a vestire

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qualunque più strana forma dipendente da un governo, da un clima, da un sistema di cose, nel quale non è altrimenti nato, e a svestire del tutto la propria sua e natural forma» (231-232).

Senza sfociare nel nichilismo dell’Ortes, la riflessione di Algarotti mira quindi a sottolineare l’eccezionalità del pieno possesso di un’altra lingua, ossia della capacità di un individuo di poter assumere tramite di essa una diversa forma di esistenza. Agli occhi del conte veneziano ciò equivaleva infatti a «divenir cittadino di ogni paese» oppure, come nel caso del poeta Ennio, ad «avere tre cuori» (232), secondo la proverbiale affermazione di Gellio.

Ferma restando la validità generale del concetto, Algarotti tuttavia individua delle gradazioni nella possibilità di raggiungere il possesso di un’altra lingua. Dopo aver ricordato l’italofilia dei francesi nel secolo XVII, afferma infatti che è molto più facile scrivere in una lingua non propria, ma vivente, che in una lingua morta, e poi aggiunge che le nazioni europee non sono poi così diverse culturalmente e politicamente «che tra esse non vi abbia molta proporzione e analogia» (233). Per quanto riguarda invece il latino, utilizzato comunemente dai dotti, l’autore sottolinea l’estraneità della lingua antica alla civiltà contemporanea:

la educazione dei Romani avea per fondamento principî di religione, instituzioni, studî, costumanze e modi in tutto diversi da’ nostri. Donde nascevano espressioni ad essi modi corrispondenti e per niente adattabili alle nostre instituzioni ed usanze. Litare diis manibus, come disse il Bembo, per celebrare la messa dei morti, interdicere aqua et igni per fulminar la scomunica, Collegium augurum per il Concistoro dei Cardinali, sono sconvenevolezze tali, che maggior non sarebbe il mettere indosso a uno de’ nostri dottori la toga romana, il voler porre su’ nostri altari la statua di Venere anadiomene o di Marte vendicatore. (ibid.)

Oltre all’inappropriatezza agli usi e costumi contemporanei e all’inapplicabilità, rilevata nelle osservazioni successive, delle espressioni legate all’organizzazione politica del mondo antico, Algarotti pone anche il problema dell’impossibilità di regolare le forme della lingua scritta in base all’uso corrente, «che è il vero padron delle lingue» (235), secondo il dettato oraziano seguito dall’autore al pari degli altri letterati del Settecento, dal Muratori al Cesarotti.

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Questo problema, osserva Algarotti, si pone anche per chi voglia scrivere in italiano. Se i modelli sono unicamente gli autori antichi, la lingua risulta inevitabilmente affettata e può contenere anche delle improprietà. Per tale motivo, rileva Algarotti prospettando una soluzione di sapore manzoniano, «già credettero dover fare, per bene scrivere in italiano, qualche dimora in Firenze l’Ariosto, il Caro, il Chiabrera, il Guarino, il Castiglione ed il Bembo, tuttoché nati e cresciuti nel bel mezzo d’Italia» (ibid.). A maggior ragione, per quanto riguarda la lingua antica il fatto di non «potere attingere al perenne fonte delle città» fa sì che ne risulti «un componimento di frasi latine bensì, ma che non è per niente latino» (236).

Oltre al problema dell’autenticità espressiva, impossibile da riprodurre nell’attualità, il latino non dispone delle parole per affrontare nuovi argomenti, legati ai moderni sviluppi delle arti, delle scienze, della politica, dell’economia, non essendo d’altra parte lecito il pensare di poterne arricchire il vocabolario. Secondo Algarotti infatti, «qualunque cosa vorremmo noi aggiugnere alle vecchie pergamene, sarebbe rigettato a ragione come interpolato, falso ed apocrifo» (237).

Se questi sono i problemi che si presentano a coloro che vogliono utilizzare il latino nella prosa, assurda diventa la pratica della poesia, dal momento che per comporre versi «è necessario formarsi talvolta come una nuova lingua; perché la espressione penetrando addentro nell’animo non sia, come altri [Montaigne] disse, superficiale, perché si dia sfogo a quell’estro che ha invaso ed agita il poeta» (ibid.). Rivelando una sensibilità già quasi romantica, Algarotti quindi osserva che i poeti latini moderni non sono altro che dei ‘centonisti’, e invece di piegare la lingua alle loro necessità espressive, si fanno dominare da essa producendo versi che poco hanno a che vedere con quanto scrivono in italiano:

Anzi bene spesso si può accorgere come le espressioni che negli antichi autori trovansi belle e fatte, guidano esse e formano il sentimento del poeta, in luogo che i pensamenti si tirino dietro le espressioni. E tale autore che in lingua italiana è poeta casto e platonico, diviene licenzioso ed epicureo in lingua latina, trattovi come a forza dalle frasi di Catullo e di Ovidio, suoi maestri e suoi duci. (238)

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Per emulare veramente i Greci e i Latini – nel senso di competere con la grandezza della loro poesia –, conclude quindi Algarotti, è necessario che uno scrittore si serva del suo linguaggio materno, perché «in esso solamente gli è conceduto di esercitare tutte le sue forze, di spiegarle con franchezza e disinvoltura; come a quel soldato che non si serve della corazza e de’ braccialetti altrui, ma ha l’armatura fatta al suo dosso» (239).

Com’è stato giustamente sottolineato da Puppo (1957: 35), nella sua rivendicazione dell’uso dell’italiano Algarotti andava al di là della pur fondamentale motivazione del perseguimento del bene comune che aveva contraddistinto l’approccio di Muratori. Dalle considerazioni del conte veneziano emerge infatti l’esigenza di una lingua viva e moderna per esprimere adeguatamente i nuovi concetti, ma anche per dar voce al ‘genio’ dello scrittore, esigenza quest’ultima che Cesarotti, come abbiamo visto, avrebbe rappresentato con grande efficacia.