• Non ci sono risultati.

La sintesi del dibattito storico-linguistico

il progetto linguistico-culturale e la sintesi storico-linguistica

3.2 La sintesi del dibattito storico-linguistico

Queste quindi le premesse epistemologiche e culturali con cui Muratori si accingeva a intraprendere la monumentale ricostruzione storica che lo avrebbe impegnato per il resto della sua vita. Per quanto riguarda il problema dell’origine dell’italiano, su cui ora ci soffermeremo, un primo abbozzo della posizione dell’autore è già contenuto in un passo del terzo capitolo del primo libro del trattato Della perfetta

poesia:

Prima che lo splendore, e l’autorità del Romano Imperio cominciasse a cadere, aveva già cominciato a rovinare la bellezza dell’Idioma Latino. Il volgo di Roma ne’ tempi stessi di Cicerone, cioè nel secolo d’oro di quella Lingua, usava un linguaggio poco puro, e mischiato con barbarismi, e solecismi. Andò crescendo poscia di mano in mano la rovina del parlar Latino, sì per lo concorso delle Nazioni straniere a Roma, e sì per l’inondazione de’ Goti, de gli Unni, de gli Eruli, de’ Greci, Langobardi, Franchi, e Tedeschi, da’ quali fu più volte sconvolta, saccheggiata, e signoreggiata l’infelice Italia. Così a poco a poco il volgo di questa bella Provincia, oltre all’adottare moltissimi vocaboli forestieri, andò ancora alterando i proprj, cioè i Latini, cambiando le terminazioni delle parole, accorciandole, allungandole, e corrompendole. In somma se ne formò un nuovo Linguaggio, che Volgare si appellava, perché usato dal volgo d’Italia. Mantenevasi però tuttavia in bocca, e nelle scritture degli uomini dotti l’uso della Lingua Latina, ed era questa ancor dal volgo intesa, benché non praticata; onde i pubblici contratti, le prediche, le pistole, i versi, e finalmente i Libri erano sposti non colla Volgare, ma colla Latina favella. Essendosi dappoi cotanto allontanato il parlare del volgo da quel de’ dotti, che difficilmente dal rozzo popolo s’intendeva, o punto non s’intendeva il Latino, s’avvisarono alcuni di adoperar l’Idioma Volgare ancor nelle scritture, come quello, che comunemente era inteso, e parlato. Quando ciò precisamente avvenisse, noi nol sappiamo, perché l’ignoranza, e barbarie di que’ tempi non ne lasciò memoria, o non compose tali opere, che meritassero di vivere infino a i tempi nostri. Egli è nondimeno probabile, che nel secolo dodicesimo, cioè dopo il 1100 si cominciasse alquanto a scrivere in questo nuovo Linguaggio; ed è poi certissimo, che nel secolo

75

seguente, cioè dopo il 1200 molti valentuomini si diedero a coltivar questa Lingua, la quale salì poi solamente nell’altro secolo appresso, per valore spezialmente de’ Toscani, in alto grado di riputazione. (1770, II: 5-6)

Se è vero che Muratori era certamente portato, per indole e per formazione, a comporre i conflitti, piuttosto che ad esasperarli, dietro alla sua sintesi storico-linguistica si scorge tuttavia l’influenza di un modello che sarà qui opportuno richiamare, cioè le osservazioni sull’origine dell’italiano contenute nella Giunta al

primo libro delle Prose del Bembo di Ludovico Castelvetro (1988: 611-623). Come

già ricordato a proposito di Fontanini, Castelvetro aveva infatti riabilitato la tesi bruniana, senza per questo negare l’importanza del superstrato germanico, individuando così una gradualità nell’evoluzione storica che dal latino volgare aveva portato alla formazione dell’italiano. Secondo il letterato modenese, il latino volgare, proprio delle persone rozze, esisteva già in età repubblicana accanto a quello letterario, come testimoniato a livello lessicale dalla lingua delle commedie e delle opere di carattere pratico, e si era diffuso nel periodo imperiale sia a Roma, come lingua parlata presso le corti degli imperatori stranieri, sia nel territorio dell’Impero per effetto della concessione della cittadinanza a tutti i provinciali di condizione libera, che per tale motivo avevano trovato una nuova motivazione ad apprenderlo. L’avvento dei Goti e, soprattutto, dei Longobardi aveva poi accentuato questo processo di diffusione e di progressiva corruzione della lingua parlata, «laonde – afferma Castelvetro – io non crederei errar di molto se io affermassi che, compiuto il primiero centinaio d’anni dopo l’entrata de’ Longobardi in Italia, si fosse universalmente guasta la lingua latina vulgare in tutte le contrade d’Italia» (1988: 620). Mentre l’uso del latino letterario sarebbe rimasto circoscritto alla lingua scritta, il volgare avrebbe poi continuato la sua evoluzione fino all’avvento della civiltà comunale, le cui esigenze pubbliche portarono a una riconsiderazione del valore della lingua parlata, che cominciò ad essere utilizzata anche nella scrittura. Con l’apparizione dei «poeti inamorati» il volgare avrebbe poi assunto dignità letteraria e i componimenti poetici sarebbero divenuti «lo specchio nel quale poscia si riguardò in parlando degnamente, e lo stabilimento della favella instabile popolaresca» (ibid.: 622). Grazie all’autorità di Dante e di Petrarca il volgare

76

avrebbe infine completato la sua evoluzione, fermandosi «nell’essere nel quale ancora al presente dura».

Pur senza riferirsi esplicitamente al suo modello, Muratori dimostra quindi di seguire abbastanza da vicino i principi guida individuati da Castelvetro, in particolare nella considerazione degli effetti provocati dai barbari all’interno di un processo evolutivo di lungo periodo, e nell’attenzione prestata al modo in cui si erano modificati i rapporti fra lingua scritta e lingua parlata19. Come sottolineato da Arato (2002: 68), sulle orme di Castelvetro e contro il Bembo – a cui invece si sarebbe accostato Fontanini – si palesa inoltre la posizione muratoriana riguardo all’influenza della poesia provenzale sulla nascita della lirica italiana, posizione che, val la pena ricordarlo, poggiava sul fraintendimento di un passo della prefazione delle Familiares del Petrarca (ibid.): «più tosto la Provenza dall’Italia, che l’Italia dalla Provenza ha da riconoscere l’uso della volgar Poesia» (Muratori 1770, I: 6)20.

Nei decenni successivi, durante la composizione delle dissertazioni XXXII e XXXIII delle Antiquitates italicae medii aevi (1739), dedicate, rispettivamente, alle origini della lingua e del lessico italiano, l’abbozzo contenuto nella Perfetta poesia sarebbe diventato un palinsesto su cui inserire dati e considerazioni storico-linguistiche derivanti dallo studio delle fonti documentarie – senza dimenticare il prezioso ausilio offerto dai suoi collaboratori e corrispondenti21 – dati e considerazioni a loro volta raffrontati con i risultati emersi dalle ricerche degli altri eruditi (Sorella 1981: 53). La vicenda compositiva delle due dissertazioni è stata analizzata nei minimi dettagli, anche con il ricorso a documenti inediti, da Marri (1981; 1988). In risposta al famoso giudizio di Timpanaro, secondo il quale «quasi tutto il buono che c’è in quelle dissertazioni deriva dal Maffei» (1969: 367), dagli studi di Marri è così emersa l’originalità del pensiero storico-linguistico del

19 A livello testuale, una spia di questa dipendenza può essere rinvenuta nella ripresa dell’espressione «poeti inamorati» utilizzata da Castelvetro, espressione che nella Perfetta poesia, sempre a proposito dell’utilizzo letterario del volgare, diventa «l’essere costoro per l’ordinario innamorati» (Muratori 1770, II: 6).

20 Nella dissertazione XXXII delle Antiquitates Muratori sembra invece ritornare sui suoi passi, affermando che i provenzali poetarono dal 1100 al 1254, che la fioritura in Italia della poesia in volgare avvenne a partire dal XIII secolo e fu avviata dai siciliani e, soprattutto, che l’interpretazione del passo di Petrarca in realtà è controversa (Muratori 1988: 81).

21 Fra i primi vanno ricordati i modenesi Pietro Gherardi e Giacomo Crispi (cfr. Marri 1984: 32-40), mentre fra i secondi, numerosi e diffusi in tutta Italia, un posto di assoluto rilievo ebbe per gli argomenti linguistici il senese Uberto Benvoglienti (cfr. Burlini Calapaj 1983).

77

modenese, che avrebbe cominciato a lavorare alle due dissertazioni già nel 1726, portandone a termine la prima stesura rispettivamente nel 1727 e nel 1730 (Marri 1981: 76-79), ben prima quindi della pubblicazione della Verona illustrata (1732), come testimonia il carteggio con Uberto Benvoglienti (Muratori 1983: 163-195). Ma la risposta di Benvoglienti alla prima lettera in cui compare l’interesse muratoriano per l’origine della lingua (ibid.: 163) contiene anche alcuni puntuali commenti all’edizione del 1726 dell’Eloquenza italiana di Fontanini (ibid.: 164-167), opera a cui Marazzini ha attribuito l’avvio del dibattito settecentesco sull’origine dell’italiano.

Vista la circolazione delle idee storico-linguistiche tra gli eruditi che nel secondo e nel terzo decennio del secolo si occuparono del problema dell’origine dell’italiano, e considerato il fatto che Muratori fu l’ultimo a dare alle stampe il suo contributo, non sembra fuori luogo guardare alle due dissertazioni come alla sintesi finale di un intenso ed aspro dibattito. Ciò senza nulla togliere agli elementi di originalità presenti nei contributi di Muratori, gli unici, vale la pena sottolinearlo, che non solo furono pubblicati come dissertazioni autonome nel 1739, ma vennero anche rivisti in occasione della versione italiana predisposta dallo stesso autore per l’edizione delle Antichità italiane che uscì postuma nel 1751, versione da considerarsi quindi come definitiva, alla quale d’ora in poi faremo riferimento.

Nella dissertazione Dell’origine della lingua italiana, al momento di dover indicare quando ciò ebbe luogo, Muratori afferma che «tal mutazione s’andò a poco a poco facendo» (1988: 51), prendendo almeno apparentemente le distanze da Castelvetro, citato per il fatto che il «dottissimo modenese» aveva ritenuto che la nuova lingua fosse apparsa solo durante il regno dei Longobardi:

S’ha qui, a mio credere, da tenere per cosa ignota, anzi falsa, che principalmente sotto i Goti e Longobardi nascesse e fosse ridotta al suo vero stato la lingua volgare italiana, di cui ora ci serviamo per esprimere i nostri pensieri. Fu questo cambiamento opera di molti secoli; e quanto più si scostarono gl’italiani dall’età degli antichi Romani, tanto più ancora si allontanarono dalla loro lingua. (52)

78

Immediatamente dopo, tuttavia, precisando che «quel sì che possiam credere come cosa verisimile si è che a’ tempi de’ Longobardi e Franchi crescesse non poco la corruzione della lingua latina» (ibid.), Muratori rientra nell’alveo della tesi di Castelvetro e propone una serie di esempi tratti dai documenti medievali per dimostrare che «si possono […] attribuire a que’ secoli barbarici varie mutazioni che oggidì continuano nella lingua italiana» (ibid.). I fenomeni su cui si sofferma sono in particolare la formazione dell’articolo e la rifunzionalizzazione delle preposizioni che, come aveva già compreso il Benvoglienti, divengono «segni de’ casi». A proposito della formazione dell’articolo, Muratori ritiene che «usando i Longobardi e Franchi, siccome nazioni germaniche, di anteporre l’articolo ai nomi, facilmente gl’italiani abbracciarono tale usanza, e cominciarono ad adoperare il, la,

lo, li, o i, le» (ibid.). Quanto alla loro etimologia, l’erudito modenese ricorda che la

derivazione degli articoli dell’italiano dalle forme del pronome ille era stata già proposta da Castelvetro e in seguito accolta da Cittadini. Oltre all’influenza del superstrato germanico, avvenuta – rileva Muratori – anche per il francese e lo spagnolo, viene inoltre presa in considerazione, ma solo incidentalmente, la possibilità che l’articolo romanzo derivi dall’arabo al.

Nelle pagine precedenti, Muratori si era soffermato sull’altra dimensione fondamentale della variazione linguistica, cioè quella spaziale:

Noi sappiamo l’indole e la natura delle lingue. Una sola, per così dire, è professata e parlata da un’intera nazione, ma divisa in più dialetti: altrimenti si parla in una provincia, e in forma diversa nell’altre. Anzi nella medesima provincia una città è alquanto differente dall’altra nella favella; e nelle stesse vaste città qualche, sebben lieve, diversità di linguaggio si truova fra gli abitanti de’ differenti borghi e rioni. Non occorre che io ricordi qual sia in questo la pratica dell’Italia, Francia, Spagna, Germania, tutte provvedute di differenti dialetti, perché ne son testimoni le orecchie di ognuno. Come mai di grazia possiamo noi pensare, essere stati sì felici i tempi dei Romani, che la pura latinità si mantenesse e parlasse in tutte le provincie di quel vasto imperio, e che la conservassero intatta tutte le città e fin le stesse ville, e niuno di tanti popoli discordasse dall’altro? Quanto a me, non so persuadermi tanta uniformità di linguaggio, e tengo che s’inganni chiunque voglia credere che fiorisse per tutta l’Italia la medesima purità e pronuncia della lingua latina, che si osservava in Roma. Ci erano anche allora vari dialetti. (1988: 38)

79

Se il passo rivela un’ascendenza dantesca (ne è spia la considerazione sulla diversità del linguaggio fra i diversi quartieri di una città), in esso d’altra parte emerge con grande evidenza un tratto che distingue l’approccio di Muratori da quello degli altri eruditi del tempo, cioè la capacità di affrontare con consequenzialità logica i problemi linguistici visti nella loro complessità storica. Il fenomeno della variazione, qualificato come «indole e natura delle lingue», viene così prima esemplificato con il riferimento alla situazione linguistica dei principali paesi europei, e poi ridotto a principio generale per formulare un’ipotesi sulla presenza dei dialetti nell’antichità. Nelle pagine seguenti (38-40) vengono inoltre addotte delle prove documentarie a conferma dell’ipotesi di partenza. Fra di esse occupano un posto di rilievo i passi degli autori da cui emerge la necessità, avvertita dagli stessi Romani, di studiare la grammatica, problema su cui Muratori si era già soffermato nella Perfetta poesia, in un passo criticato da Salvini (Muratori 1770, II: 79-84), a dimostrazione che anche nell’antichità esisteva una lingua volgare, diversa da quella letteraria, che invece bisognava studiare per poterla dominare con sicurezza. Ad ulteriore conferma di ciò Muratori fa riferimento ad alcune iscrizioni di epoca imperiale contenenti dei solecismi, attribuiti all’influsso della lingua del volgo e all’ignoranza dei lapicidi.

Ad arricchire il quadro della complessità linguistica antica si aggiungono le testimonianze che attestano la presenza in Italia delle lingue degli «Etrusci, Greci, Osci, Insubri, Liguri, Galli, ed altri popoli, che a poco a poco piegarono il collo sotto i vincitori Romani» (42), lingue che, afferma Muratori, dovettero coesistere con il latino per molto tempo, anche nella stessa competenza dei parlanti, come nel caso del poeta Ennio, a proposito del quale Gellio afferma che «tria corda habere sese dicebat: quod loqui graece, osce et latine sciret» (ibid.). Data questa situazione, osserva Muratori,

né pure s’ha unicamente da ricorrere ai tempi de’ barbari stabiliti in Italia, per osservar declinante dalla sua purità la lingua latina. Questo deliquio era già cominciato alcuni secoli prima, essendo esso linguaggio ogni dì sporcato da assaissimi solecismi e barbarismi nel commerzio del popolo, perché mischiato colle lingue usate prima delle conquiste romane, e non mai estinte, oltre alla natura delle lingue tutte sottoposte coll’andare del tempo a vari cambiamenti. (45)

80

Come si può vedere, trattando del processo evolutivo che condusse alla formazione dell’italiano, in atto ben prima delle invasioni barbariche, Muratori fa rientrare anche un accenno all’influsso del sostrato preromano, concetto che viene poi discusso al momento di affrontare il tema dell’origine dei dialetti italiani. Ricordando «l’ingegnosa opinione» avanzata da Maffei nella Verona illustrata per dar conto delle differenze fra il dialetto veronese e quello bresciano, dopo aver esposto i suoi dubbi sulla possibilità di poter inferire dai dialetti moderni quale fosse la situazione linguistica antica, Muratori deve poi ammettere, seppur con molta cautela, che

Pare non inverosimile, non procedere da altro, che i Lombardi fin quasi a Rimini per la maggior parte abbrevino o tronchino i vocaboli, se non perché anticamente i Galli prima del dominio romano stesero fino a Rimini la loro signoria, e probabilmente anche allora per lo più terminavano le lor parole in consonanti, come praticano anche oggidì: laddove i Toscani, e quasi tutti gli altri popoli sino al fine orientale dell’Italia terminano per lo più in vocali la massa delle lor parole. (74)

Il concetto dell’influenza del sostrato, elaborato da Maffei a sostegno del suo «patriottismo locale», viene quindi applicato da Muratori per avanzare una possibile spiegazione della frattura dialettale esistente fra l’Italia settentrionale e quella centrale, frattura qui esemplificata con la presenza o meno dell’apocope della vocale finale. Si tratta di un primo accenno – fondato su uno dei tratti ancor oggi considerati distintivi – a quella linea La Spezia-Rimini che dalla scienza dialettologica e dalla romanistica verrà indicata non solo come il confine fra i dialetti italiani settentrionali e quelli centro-meridionali, ma anche come la linea di demarcazione fra la Romània occidentale e quella orientale (cfr. Loporcaro 2009: 59-70; 82-91). Ma le perplessità riguardo alla correttezza di una tale spiegazione sembravano a Muratori difficilmente superabili, soprattutto per il fatto che, percorrendo questa strada, si sarebbe dovuta ammettere l’esistenza dei dialetti

81

moderni fin dall’antichità, «il che non si dee mai credere», concludeva l’erudito modenese (Muratori 1988: 74)22.

Dopo aver dimostrato, in base ai fenomeni già richiamati, come «a’ tempi de’ Longobardi e Franchi crescesse non poco la corruzione della lingua latina», Muratori affronta il problema delle attestazioni e della denominazione delle nuove lingue che si erano venute a formare. Nel riportare il testo romanzo dei Giuramenti di Strasburgo, così afferma: «ecco qual fosse la lingua romana, cioè la volgare de’ Franco-Galli, molto certamente più somigliante allora che adesso alla nostra italiana» (58). Il commento di Muratori non può non richiamare alla mente quello di Fontanini, autore con cui non a caso il modenese polemizza nelle pagine seguenti a proposito del significato del termine lingua romana e poi romanza – secondo il Muratori attribuibile solo al francese – e della lezione francigena, erroneamente accolta da Fontanini nella trascrizione dell’epitaffio di Gregorio V al posto di francisca23, aggettivo con cui per Muratori al tempo ci si riferiva sia alla lingua francese sia a quella tedesca, sebbene nell’epitaffio il termine alludesse inequivocabilmente a quest’ultima (59-61). Al di là del significato attribuito all’etichetta lingua romana o romanza, su cui ci siamo a lungo soffermati, mentre Fontanini aveva stabilito un interessante parallelo fra la lingua dei Giuramenti e il friulano contemporaneo, chiamando in causa anche l’antico francese e il provenzale e dimostrando interesse per altre varietà conservative come il francoprovenzale e il romancio, Muratori si limita invece a paragonare l’antica lingua romana all’italiano contemporaneo. Probabilmente anche questa semplificazione risentiva della sua diversa considerazione, ormai di carattere politico, come abbiamo visto, non più

22 Nel suo commento al passo, Marazzini sottolinea il fatto che Muratori dimostrava di concepire l’azione del sostrato non come un’influenza graduale ma piuttosto come una mescolanza di elementi eterogenei (Muratori 1988: 75), che quindi avrebbe portato ad un’immediata apparizione della differenziazione dialettale accanto al latino. Per tale motivo, come si evince dalla versione latina della dissertazione, che in merito al passo citato presenta alcuni elementi di diversità, Muratori rimaneva nel dubbio se l’origine dei dialetti dovesse essere attribuita al sostrato preromano o piuttosto al superstrato germanico. Non sarà inutile ricordare che il problema dell’origine dei dialetti italiani continua ancora a fare discutere, e non solo per la rilevanza dell’influenza del sostrato e del superstrato. Mario Alinei ha infatti proposto di retrodatare l’origine dei dialetti italiani al periodo storico anteriore alla romanizzazione, sostenendo che essi sarebbero stati varietà indoeuropee autonome, sorelle quindi e non figlie del latino (per una disamina dell’audace proposta di Alinei cfr. Loporcaro 42-47).

23 In realtà Fontanini, come si è visto, nell’edizione del 1736 dell’Eloquenza italiana aveva accolto la lezione francisca. Stupisce pertanto che Muratori non abbia corretto questo punto, dal momento che aveva steso una lunga recensione proprio di tale edizione (1739).

82

solo letterario, delle lingue nazionali e dei dialetti locali. Pur avendo precedentemente affermato il principio generale della variazione linguistica e ribadito l’onnipresenza dei dialetti accanto alla lingua comune, Muratori conclude infatti il suo paragone con la Francia avendo in mente soltanto «la nostra volgare»:

Possiam perciò giustamente credere che non fosse differente allora la fortuna del latino in Italia, e che talmente fosse cresciuta la corruzion di quello, che ancor qui si usasse una lingua molto diversa, cioè la nostra volgare, benché non ridotta peranche al segno che è. (58)

Riguardo alle caratteristiche dell’italiano antico, per quanto le attestazioni indirette, come nel caso dell’epitaffio di Gregorio V, rivelassero la sua esistenza, Muratori (63) doveva ammettere di non poter produrre alcuna attestazione per i secoli VIII, IX e X, al di là della famosa espressione «Torna, torna frater», contenuta in un documento del VI secolo, già citata dal Lipsio come italiana e poi ripresa da altri, come Fontanini e Maffei, che invece, come abbiamo visto, la attribuiva al romeno24. Quanto alle caratteristiche dei dialetti, «a me qui mancando memorie – concludeva laconicamente Muratori –, convien tacere» (67). La