Giammaria Ortes e Melchiorre Cesarotti
2.1 Giammaria Ortes
2.1.2 Inutilità cognitiva del plurilinguismo
A questo punto il caleidoscopio teorizzato da Ortes, che nella sostanza sembra rinnovare con strumenti concettuali moderni l’idea tradizionale, di matrice dantesca, della naturalità del cambiamento linguistico, prende una colorazione inattesa, virando verso i toni della scepsi, così congeniali all’autore. Riflettendo sull’individualità delle lingue, tutte irrimediabilmente diverse l’una dall’altra per i motivi considerati, il filosofo veneziano è portato dal suo ragionamento a concludere che è impossibile conoscere veramente il mondo materiale veicolato concettualmente dalle lingue diverse dalla propria, dal momento che gli oggetti denominati in una lingua di altro luogo e tempo possono essere conosciuti solo attraverso le immagini che di essi noi ci formiano nel presente. Così, ad esempio, per mezzo dei nomi «vir, man, e uomo si concepirà ora in Italia del pari un tale come un Giampietro, e non mai come un Lentulus o come un Richard» (XXI).
Dopo aver affrontato con grande acume il fenomeno della diversità linguistica, Ortes giunge così a negare l’utilità cognitiva del plurilinguismo:
Lo che si dice per avvertire, che la cognizione delle lingue morte o vive straniere, non amplifica per nulla la cognizion degli oggetti, ma carica soltanto la mente di più termini d’essi appresi ad un modo solo, diritto o torto ch’ei siasi, lasciando ciascuno nello stato d’ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde ei si trovi. Certo è che quantunque ciascuno apprenda gli oggetti diversamente da tutt’altri, per appellarli con più nomi non li apprende con più maniere, o colle maniere degli altri, ma segue a concepirli all’usato suo modo. Ond’è che per apprendere più lingue si apprendon più voci, per le quali replicar in mente gli oggetti, e comunicarli a persone di lingue diverse non diversamente all’une che all’altre, senza apprendere perciò niente di più su quelli, o senza accrescer per nulla le proprie cognizioni; quand’ancora la mente occupata ed ingombra dalla farragine di quei moltiplici termini sugli oggetti medesimi, non restasse perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con più precisione, restando così le cognizioni su essi tanto più limitate e ristrette, quanto apprese per più mani di lingue, come v’à gran luogo di dubitare. (XXI-XXII)
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Secondo Ortes, quindi, la conoscenza di un’altra lingua, pur permettendoci di comunicare con persone che non parlano la nostra – ammesso che ciò possa realmente avvenire, vista l’imperfezione delle lingue –, non solo non aggiunge nulla alla conoscenza che noi abbiamo degli oggetti, ma il fatto stesso di ingombrare la mente di «molteplici termini sugli oggetti medesimi» potrebbe anche mettere a repentaglio la chiarezza e la precisione delle nostre cognizioni.
La concezione della negatività del plurilinguismo viene ribadita nella sezione dedicata alla diversità dei «costumi», cioè delle indoli, delle mentalità e dei comportamenti degli uomini, argomento che Ortes affronta sulla base delle medesime argomentazioni che abbiamo visto sviluppare a proposito degli oggetti. Dopo aver ricordato che le lingue «non s’apprendono dalla natura, ma da sola meccanica scolastica, o da istruzione pratica d’altri, senza apprender perciò niente più di reale» (XLIX), Ortes sembra trarre dall’esistenza di lingue diverse una legge generale, di sapore hobbesiano, che governa le relazioni fra i gruppi umani: le lingue dimostrano infatti come la natura unisca gli uomini solo nella misura in cui ciò è a loro favorevole, mentre li mantiene separati quando la loro unione, oltre a essere inutile, «sarebbe incomoda, e potrebbe rendersi ancora nociva» (LIII)5.
Nell’ottica della separazione, più che della diversità linguistica, inevitabile e allo stesso tempo necessaria, è vista così la differente consistenza dei campi lessicali registrati dai dizionari di lingue diverse in merito alle medesime aree dell’esperienza:
Per esempio nel vocabolario arabo dicesi, il Cammello espresso con voci mille ed una, quando nell’italiano si tiene per espresso abbastanza per quest’una sola, lasciate fuori le mille; e ciò non per altro, che per la molteplicità d’usi di codesto animale nelle contrade arabe maggiore che nelle italiane, per la quale moltiplicità, gli oggetti e i costumi diversificando nell’une e nell’altre regioni, diversamente s’esprimono. E lo stesso si
5 A conferma della condivisione da parte di Ortes della concezione della ferinità della condizione naturale dell’uomo, sostenuta appunto da Hobbes, si può citare la definizione di società che s’incontra nelle Definizioni per servire all’istoria filosofica universale de’ nostri tempi: «Patto che fanno gli uomini di raffrenare la natural inimicizia che ànno gli uni per gli altri mediante l’osservazione di alcune leggi che stabiliscono di comune consenso» (1961: 101). Di diversa opinione invece Gensini (1993: 197-198), che per smentire l’influenza di Hobbes sul pensiero di Ortes chiama in causa il concetto di «ragione comune», presente nel trattato ma apparentemente senza un particolare rilievo teorico.
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direbbe d’innumerabili altre produzioni animali e vegetali diverse degli uni luoghi e tempi, in riguardo a quelle di altri. Ch’è la ragione, per cui un Dragomanno pratico del pari della lingua araba, e dell’italiana s’arresta bene spesso nel ragionar di cose italiane colla prima lingua, e nel ragionar di arabe colla seconda. (LVI)
Per quanto le osservazioni contenute nel passo possano far venire in mente moderne teorizzazioni sul relativismo linguistico, e nonostante l’attenzione posta sul bilinguismo, in realtà qui si ribadisce semplicemente il fatto che le differenze negli usi e nei costumi si riflettono nella diversità dei modi di esprimerle. Ortes rimane infatti convinto che «la cognizione di più lingue non è cognizione per se stessa, ma è un mezzo per cui comunicare soltanto a più altri quelle cognizioni, che sulle cose e non sulle parole, si fossero apprese» (LVII). Ed è proprio questo il punto che permette di far luce sulle paradossali affermazioni dell’autore. Se le lingue sono solo degli strumenti per comunicare, e non aggiungono nulla alla nostra conoscenza del mondo, allora esse da un lato possono essere considerate necessarie visto che permettono di mantenere separati i gruppi umani in una sorta di omeostasi naturale, e dall’altro corrono invece il rischio di diventare un ingombro inutile, e finanche dannoso per chi non si contenta dei propri costumi e della «patria favella»:
Ognun che trascuri tutto questo per quanto è suo, affine di adottarlo per quanto fosse d’altri, sia certo che trascura quel che a lui è più naturale, per assumere e tenersi a quel che gli è meno, e che ciò è come s’ei spogliasse i propri vestiti per adossarsi gli altrui, che non se gli adatteranno mai bene indosso. Un uomo di tutti i costumi, di tutti i sentimenti, e di tutte le lingue, suole dal popolo e dai romanzieri ammirarsi come un portento. Un uomo tale per la verità e per la natura, sarebbe un arnese insignificante e contraddittorio, di nessun costume, sentimento, o favella che almen fosse sua propria, com’ei sarebbe di nessuna nazione e religione, quando intendesse esser di tutte. (LVII)
È difficile valutare se la risentita considerazione finale costituisca l’inevitabile conclusione di un ragionamento fin troppo stringente, oppure se essa rappresenti una presa di posizione polemica nei confronti del cosmopolitismo illuminista. In ogni caso, Ortes manifesta il suo disprezzo nei confronti della confusione che deriverebbe dal mettere tutte le lingue e le culture sullo stesso piano,
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«essendo ogni favella istituita per esprimere gli oggetti e i costumi d’un luogo e d’un tempo» (LV). Ciò infatti non rispetterebbe la condizione, che l’autore considera naturale, dell’identificazione da parte dell’individuo con una lingua, una nazione, una religione.
Lungi dal rappresentare un’anticipazione romantica, il concetto di identità difeso dall’Ortes sembra in realtà dettato da un motivo tradizionalista, a cui fa da sponda il suo dogmatismo religioso, come emerge nelle ultime battute del passo citato. Del resto, è un tratto tipico del pensiero dell’Ortes quello di presentare idee ardite accanto a posizioni conservatrici. Così, per quanto il suo modo di teorizzare possa far pensare a un’influenza del materialismo settecentesco6 – ma non dimentichiamo che l’unico nome ricorrente nell’opera ortesiana, per il resto avarissima di riferimenti, sembra essere quello di Galilei (Formigari 1990: 139) – il suo pensiero linguistico si ricollega invece alla filosofia del XVII secolo. La visione strumentale del linguaggio che, com’abbiamo visto, finisce per sminuire l’acuta considerazione delle cause della diversità linguistica, ricorda infatti le idee di Cartesio, anche se va osservato che Ortes non abbraccia il razionalismo cartesiano fino alle sue estreme conseguenze, dal momento che – mantenendosi in ciò fedele alla tradizione italiana – non dimostra alcun interesse per le soluzioni artificiali al problema dell’imperfezione linguistica. L’idea della lingua perfetta era evidentemente estranea al suo naturalismo e, forse ancor di più, al suo scetticismo.