Gian Rinaldo Carli, Giuseppe Parini, Ferdinando Galiani
4.2 Gian Rinaldo Carli
4.2.1 La centralità dei dialetti nella storia linguistica italiana
Un altro esempio di come l’attenzione al plurilinguismo da un lato si ponesse in linea di continuità con gli approcci emersi nella prima metà del secolo, e dall’altro si misurasse con i processi riformatori indotti dalle idee illuministe, è rappresentato dal pensiero linguistico di Gian Rinaldo Carli (1720-1795). Nato a Capodistria, trasferitosi dopo varie peregrinazioni a Milano, dove entrò a far parte dell’Accademia dei Pugni e divenne un importante collaboratore del Governo austriaco, Carli si distinse soprattutto come economista11.
10 A proposito della posizione dell’autore nei confronti della lingua d’oltralpe, Gensini ha giustamente osservato che «l’antigallicismo del Bettinelli, via via accentuatosi negli anni, non esclude un profondo apprezzamento per la cultura francese e per i meccanismi sociali che consentono a questa di fare scuola in Europa» (1998a: 24).
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Nella quarta parte delle Antichità italiche (1790), vasta opera di erudizione che ebbe un buon successo editoriale, Carli dedica un capitolo alle origini della lingua12. Dopo aver ricordato, analogamente a quanto aveva fatto Bettinelli, le principali tesi che si erano fronteggiate nel dibattito sull’origine dell’italiano, inclusa la più recente posizione di Tiraboschi, che nel suo breve excursus si era allineato alle tesi di Muratori (cfr. Marazzini 1989: 103-104), Carli propone un’originale ricostruzione storico-linguistica:
Se fosse lecito dopo tanti celebri Letterati addurre un’opinione di più, io direi, che in Italia gran quantità di dialetti differenti sia stata sempre, dai quali in primo luogo si compose la lingua Latina. Che formata questa lingua, e resa colta, ed universale, i suddetti dialetti presero a vicenda da essa varj modi, e varie voci, con le quali in parte si alterarono, ma non si estinsero giammai; cosicché in tutti i secoli, dall’origine di Roma e prima ancora, sino ai giorni nostri fu diverso il parlare de’ Toscani, da quello dei Circompadani, dei Veneti, del Piemonte, del Genovesato, non che del Regno di Napoli, e della Sicilia. Direi innoltre, che la venuta, e permanenza de’ Barbari, variamente modificò i dialetti in proporzione della differente loro combinazione, in modo che tutti diversamente si corruppero e quindi tanta quantità di parlari ne venne. Osserverei finalmente, che in tanta varietà di dialetti, le persone colte, e di lettere dei secoli XI, XII e XIII cospirarono a modellare una lingua, che potesse essere intelligibile a tutti, ed universale, accostandosi, per quanto fu loro possibile, alla Latina, e questa lingua fu quella, che da Dante è chiamata illustre, cardinale, aulica, e cortigiana, che non è di alcun paese, ma che è usata, come egli soggiunge, dagli illustri Dottori, che hanno fatto Poemi in lingua Volgare, come i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, quelli della Marca Trevigiana, e della Marca d’Ancona. Non conviene adunque (se non erro) confondere questa lingua dei dotti, cioè italiana, con i dialetti particolari d’Italia; e però parrebbe potersi conchiudere, che non dalla corruzione della lingua Latina, ma bensì dai corrotti dialetti ne sia derivata una lingua nuova, che s’è chiamata Italiana. (1790, IV: 88-89)13
Nella ricostruzione di Carli i dialetti divengono quindi la dorsale lungo la quale si è andata determinando la storia linguistica della Penisola, dando vita in tempi diversi alle due lingue dotte e universali, cioè il latino e l’italiano. Oltre alla
12 Sull’opera e sui suoi rapporti con l’erudizione settecentesca vedi il saggio di Vedaldi Iasbez (2004), che tuttavia non si sofferma sulle tematiche linguistiche.
13 Nella trascrizione del testo si è ritenuto opportuno alleggerire la punteggiatura, decisamente sovrabbondante soprattutto nell’uso del punto e virgola e dei due punti.
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chiara ascendenza dantesca di questa «nuova opinione» del Carli, basata sull’opposizione lingua naturale vs lingua artificiale, l’idea che il latino abbia avuto origine dai dialetti in realtà non è altro che l’estrema conseguenza della paradossale ipotesi formulata nella prima metà del secolo dal Quadrio, secondo il quale «siccome le cose imperfette esistono prima, che le perfette, così non andrebbe lungi dal vero chi opinasse, che l’odierna lingua Italiana fosse prima, che la colta Latina, da che la colta Latina fu studiato ritrovamento delle colte persone, le quali la prima rusticana e nativa a regole ordinarono, e ingentilirono» (1739, I: 42)14.
D’altra parte, bisogna chiarire che Carli non pensava affatto che i dialetti moderni fossero esistiti fin dall’antichità. Quando parla di dialetti da cui sarebbe nata la lingua latina, Carli infatti si riferisce alle lingue delle popolazioni preromane, che avevano lasciato varie tracce nella lingua latina, osservabili anche quando essa «era alla sua perfezione ridotta» (1790, IV: 90)15. Come si evince dal passo citato, secondo Carli le lingue preromane si erano a loro volta modificate nel corso dei secoli, in particolar modo in seguito al contatto prima con il latino e poi con le lingue dei barbari, dando così luogo ai dialetti moderni, dei quali – analogamente a quanto aveva fatto Fontanini – l’autore adduce alcune testimonianze del periodo medievale, attingendo ai documenti pubblicati dagli eruditi della prima metà del Settecento16.
Quanto alla lingua latina, l’autore osserva che «non si corruppe mai quanto si crede, perché in ogni tempo in essa, più o meno elegantemente, si scrisse» (89). I solecismi che contraddistinguono il latino dei documenti medievali sono invece dovuti, secondo il Carli, all’ignoranza dei notai e all’influenza delle lingue locali, cioè, diremmo noi, sono fenomeni d’interferenza nel discorso, non nella lingua (Weinreich 2008: 18-19).
Al di là dell’improbabile ricostruzione storico-linguistica proposta da Carli, dalla quale tuttavia emerge un’indubbia capacità di cogliere alcuni aspetti della
14 A proposito dell’ipotesi del Quadrio, Marazzini (1989: 102-103) sottolinea come essa costituisca una radicalizzazione della tesi bruniana, rilevando allo stesso tempo la sua ascendenza dantesca.
15 Fra i numerosi esempi citati dal Carli, si può ricordare l’utilizzo di Catullo della voce «circompadana» basium per osculum, non attestata negli autori precedenti né in quelli del periodo classico. Come rileva l’autore, basium ricompare poi in Marziale, Giovenale e Petronio, ed è rimasto sia nel veneziano sia nel toscano (ibid.).
16 Le testimonianze riportate da Carli (1790, IV: 100-106) riguardano il fiorentino, il lombardo, il veneziano, il siciliano e il romano. Citando Dante e Muratori, fa inoltre riferimento al friulano, al sardo e al corso.
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fenomenologia del plurilinguismo, va quindi sottolineato il fatto che nella trattazione dell’autore – analogamente a quanto abbiamo rilevato in Bettinelli – viene dato particolare risalto alla differenziazione dialettale della Penisola, derivata dalla composizione multietnica della sua popolazione e dalle migrazioni straniere.
Trattando infine delle relazioni intercorse in epoca medievale fra italiano, francese e provenzale, Carli relativizza l’apporto delle lingue d’oltralpe alla formazione della lingua comune della Penisola. A proposito del francese, avanza il sospetto che «la nostra lingua abbia assai più contribuito ad accrescere la francese di quello che questa abbia dato all’italiana»17, mentre per quanto riguarda il provenzale osserva che «trattone la poesia, ed alcuni modi di dire provenzali, dei quali Dante e il Petrarca se ne giovarono, quella lingua, nel comune del popolo, non fè alcun progresso, ristringendosi soltanto in alcune parti, dove anche oggidì, benché con alcune alterazioni, si mantiene e si usa» (1790, IV: 106-107).
Per intendere l’ultima affermazione, bisogna precisare che Carli, collocandosi sulla linea del Bettinelli, riconosceva l’identità del provenzale e della lingua romanza, pur non ritenendo che quest’ultima fosse stata una lingua intermedia fra il latino e le lingue neolatine, concetto estraneo ai principi della sua ricostruzione storico-linguistica. Se la lingua romanza non poteva quindi essere considerata la madre di quella italiana, essendo quest’ultima «sortita dal seno dei diversi dialetti, purgandosi, e regolandosi sulla latina» (109)18, tuttavia si poteva osservare come essa si fosse mantenuta in alcune aree, in primo luogo «il Friuli e la Cargna, dove tutto il popolo delle Città, dei Borghi e della Campagna parla un linguaggio totalmente diverso dai Paesi confinanti di Venezia, e dell’Istria» (107). L’autore afferma di essersi reso conto dell’affinità esistente tra il romanzo-provenzale e il friulano durante il suo soggiorno giovanile in Friuli (cfr. Apih 1977), e aggiunge di aver rinnovato quest’impressione grazie alla consultazione di un vocabolario inviatogli dal conte Girolamo de Renaldis e dal padre Angelo Maria
17 A sostegno di questa interpretazione Carli cita, oltre alla Dissertazione XXXIII di Muratori, Charles Sorel, autore di De la connoissance de bons livres (1672), ed Henri Estienne, che nei Deux
dialogues du nouveau langage François italianizé (1578) aveva stigmatizzato l’influenza
dell’italiano sul francese nel periodo rinascimentale (su quest’ultimo cfr. Tomasin 2011: 69-71).
18 A testimonianza del fatto che l’italiano aveva mantenuto più di tutte le altre lingue romanze «l’indole ed il carattere della latina», Carli riporta il testo di un sonetto del gesuita P. Tornielli che poteva essere considerato sia latino sia italiano (ibid.: 110).
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Cortenovis19. Per provare tale affinità, dopo aver riportato alcune voci del suddetto vocabolario, Carli trascrive il passo dei Giuramenti di Strasburgo contenente il giuramento del Re Ludovico – che evidentemente considera un testo redatto in lingua provenzale – affiancando la traduzione in friulano (1790, IV: 108). Successivamente, afferma che «un parlare quasi consimile si ritrova esteso nel Vallese, e nell’Engadina, e si chiama romanzo», riferendosi evidentemente al romando (francoprovenzale) e al romancio, di cui dà un saggio riportando il primo versetto della Sacra Biblia tradütta in lingua Romanscha d’Ingadina bassa (1743), al quale fa seguire la traduzione in friulano.
Le affinità individuate da Carli ribadivano quindi l’idea della somiglianza esistente tra il friulano e il romancio – all’interno di un quadro più ampio comprendente il provenzale e il francoprovenzale – già intravista da Fontanini e riproposta da Bettinelli, somiglianza che, pur in assenza di precise analisi linguistiche, finì col diventare un dato corrente degli studi dialettologici20. Grazie anche al successo editoriale delle Antichità italiane, opera che evidentemente permise la diffusione dell’idea, essa infatti venne prima ripresa da Fernow e poi approfondita con metodi ben più raffinati dall’Ascoli21.
19 Del vocabolario citato dal Carli non si hanno ulteriori notizie (cfr. Cescutti 2008: 34-35).
20 Fra i riferimenti del Carli, oltre a Fontanini, Francescato (1978: 263-265) cita il grigionese Joseph von Planta (1744-1827), bibliotecario del British Museum e autore di An Account of the Romansh
Language (1776). Nella sua memoria sulla lingua romancia, Planta aveva sostenuto, sulla base di
una – presunta – comune mescolanza di elementi celtici e latini, l’affinità fra la lingua dei Grigioni (suddivisa in vari dialetti, fra i quali l’autore nomina il ladino parlato in Engadina) e quella romanza, lingua di cui, come affermato da Fontanini, si potevano trovare delle tracce anche in Provenza e nel Friuli. Se non che il Carli, solitamente esplicito nei riferimenti ad altri autori, non cita mai il Planta, il quale, del resto, aveva pubblicato il suo saggio a Londra in lingua inglese. L’unico elemento certo che pone in relazione i due scritti è quindi la comune ripresa delle idee di Fontanini, considerato da Planta come un’autorità. A tal proposito, è interessante notare che, oltre alle ambiguità presenti in alcuni passi del trattato dell’Arcivescovo di Ancira in merito al concetto di lingua romanza, Planta sembra riproporre, con molta maggiore consapevolezza, l’aspetto della conservatività come tratto caratterizzante il romancio, oggetto del suo discorso, tratto che quindi la lingua dei Grigioni verrebbe a condividere con l’antico provenzale e il friulano.
21 Sulla storia degli studi sulle lingue del ‘gruppo ladino’ cfr. Haiman e Benincà (1992: 19-27). Per quanto riguarda Fernow, è importante sottolineare il fatto che nei suoi Römische Studien il linguista svizzero si rifà al Carli – citato esplicitamente assieme a Maffei, Muratori, Affò e Tiraboschi (1808, III: 231) – anche per il concetto della derivazione del latino dai dialetti antichi (233), e ne ripropone gli esempi addotti a prova della somiglianza del provenzale col friulano e col romancio (253-254). Ascoli invece si limita a citare il Carli come «il primo scrittore che toccasse della prossima affinità del friulano col ladino de’ Grigioni» (1873: 475).
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