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Origine e sviluppo metaforico del linguaggio

l’origine del linguaggio e la diversità delle lingue

1.2 Origine e sviluppo metaforico del linguaggio

Nel primo capitolo del De antiquissima viene inoltre enunciato il più noto degli assiomi vichiani, cioè il principio secondo cui «“verum” et “factum” reciprocantur, seu, ut Scholarum vulgus loquitur, convertuntur» (63). Secondo il filosofo napoletano, quindi, il vero coincide con quello che gli uomini hanno fatto, principio che d’altra parte non scalfisce i fondamenti della concezione religiosa, dal momento che «in Deo – aggiunge subito dopo – esse primum verum, quia deus primus

3 Sul pensiero retorico di Vico si veda il fondamentale contributo di Battistini (1995).

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Factor» (ibid.). Conseguenza del principio del verum-factum è che gli uomini possono raggiungere una conoscenza certa solo di ciò che essi stessi hanno realizzato, come nel caso dell’aritmetica e della geometria5, mentre non possono conoscere veramente quanto creato da Dio, ma devono assumerlo come assolutamente vero perché da Lui rivelato (65-69).

Estendendo l’applicazione del principio del verum-factum al campo del «mondo civile», di lì a pochi anni Vico avrebbe aperto una nuova strada verso l’indagine della storia, superando l’idea di una «sapienza riposta» a favore di una

scienza nuova, per mezzo della quale sarebbe stato possibile raggiungere una

conoscenza dei principi delle istituzioni umane superiore a quella che l’uomo poteva ottenere nei confronti del mondo naturale, dal momento che esso non era stato da lui creato:

Ma, in tal densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio; che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. (Scienza Nuova 331)6

L’ortodossia della concezione vichiana era fatta salva dalla sua distinzione fra storia sacra e storia «gentilesca», la prima raccontata nella Bibbia e indiscutibilmente vera e la seconda iniziata dopo il diluvio universale, quando i discendenti di Sem, Cam e Iafet «rinunziarono alla vera religione del loro comun padre Noè» e si dispersero «divagando nella gran selva della terra» (369)7. Secondo

5 Come sottolineato da Di Cesare (1995: 11), Vico non condivide la tradizione di pensiero che da Cusano, attraverso Keplero e Galileo, giunge fino a Leibniz, dal momento che per il filosofo napoletano la matematica non è un’arte o una rappresentazione simbolica di origine divina.

6 Per il testo della versione definitiva della Scienza Nuova (1744) si segue l’edizione curata da Battistini (Vico 1990: 415-971), che si rifà all’edizione delle Opere pubblicata dall’editore Laterza a cura di Fausto Nicolini, al quale si deve l’inserimento del numero progressivo del capoverso con cui d’ora in poi verranno indicati i luoghi delle citazioni.

7 Sul rapporto fra l’ortodossia storica vichiana e la «riscoperta del tempo» che emerge nella cultura europea fra Seicento e Settecento cfr. il sempre affascinante saggio di Rossi (1979).

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la ricostruzione dell’autore l’abbandono della religione comportò la perdita delle istituzioni fondamentali, come la famiglia, cosicché gli uomini si ridussero a uno stato «bestiale e ferino», dal momento che le madri abbandonarono i figli e questi crebbero «senza udir voce umana nonché apprender uman costume» (ibid.). Questo inselvatichimento comportò anche la perdita della lingua di Adamo, l’onomateta, mentre la condizione ferina aumentò le forze fisiche degli uomini, che crebbero fino a diventare dei giganti.

Da questi «bestioni» prende le mosse il racconto di Vico che, com’è noto, con l’intento di tracciare «il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni» (7), suddivide la storia dell’umanità in tre epoche, degli dei, degli eroi e degli uomini, ad ognuna delle quali corrispondono modalità caratteristiche in cui si esplica la vita degli esseri umani. Ma per poter determinare i principi della vita civile nelle varie epoche, secondo Vico è necessario indagare «le modificazione della nostra mente umana». Ecco allora che nella seconda sezione del primo libro, intitolata Degli elementi, compare un lungo elenco di massime, chiamate degnità, che sviluppandosi una dall’altra e richiamandosi più volte nel testo costituiscono l’assiomatica della ricostruzione vichiana della storia ideale eterna8.

Limitando il nostro discorso ai principi che pertengono alla sfera del linguaggio, una delle più famose degnità afferma che «gli uomini prima sentono senz'avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (218). La prima conseguenza che Vico trae da questa affermazione è che «questa degnità è ‘l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinî» (219). Ci troviamo così in presenza di quella che lo stesso Vico considera la più importante «discoverta» della sua Scienza

nuova:

Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon

8 A proposito della struttura espositiva dell’opera Battistini ha parlato di dimensione anaforica, derivata sia dalla sua lunga elaborazione (la prima edizione è del 1725), che ha comportato uno sviluppo «per sedimentazione e accumulo», sia dalla concezione circolare del tempo (cfr. Vico 1990: 1471).

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poeti, i quali parlarono per caratteri poetici; la qual discoverta, ch'è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di quasi tutta la nostra vita letteraria, perocché tal natura poetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilite nature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pena ci è permesso d'intendere. Tali caratteri si truovano essere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, per lo più di sostanze animate o di dèi o d'eroi, formate dalla lor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti i particolari a ciascun genere appartenenti […]. (34)

Nell’affrontare il problema della nascita della lingua e della scrittura, che Vico riteneva essere sorte allo stesso tempo (33), si afferma quindi il concetto della natura poetica dei primi uomini, che a causa della «povertà di parlari e necessità di spiegarsi e di farsi intendere», come dirà subito dopo, con la loro fantasia si figurarono delle immagini fantastiche di dei o di eroi a cui ricondussero tutti i fenomeni naturali. Al diverso stadio di sviluppo dell’umanità e delle loro istituzioni, che caratterizza ognuna delle tre epoche individuate da Vico, corrispondono tre tipi di lingue:

Convenevolmente a tali tre sorte di natura e governi, si parlarono tre spezie di lingue, che compongono il vocabolario di questa Scienza: la prima, nel tempo delle famiglie, che gli uomini gentili si erano di fresco ricevuti all'umanità; la qual si truova essere stata una lingua muta per cenni o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee ch'essi volevan significare; – la seconda si parlò per imprese eroiche, o sia per simiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica, che si truova essersi parlata nel tempo che regnaron gli eroi; – la terza fu la lingua umana per voci convenute da' popoli, della quale sono signori assoluti i popoli, propia delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici. (32)

Schematizzando, la linea evolutiva del linguaggio proposta da Vico è la seguente: il primo tipo di lingua sarebbe stato costituito da gesti (e suoni), con un rapporto tra significante e significato di tipo naturale; il secondo stadio sarebbe stato invece contraddistinto da simboli, di carattere fortemente iconico («per imprese»); nella terza epoca, infine, avrebbe fatto la sua apparizione la lingua umana, basata su elementi fonici, le parole, di carattere convenzionale. Dalla ricostruzione vichiana emerge così il superamento della concezione del linguaggio di tipo

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convenzionalista, tipica dell’aristotelismo e fatta propria dal razionalismo. L’origine del linguaggio sarebbe infatti scaturita da una reazione corporea alle sollecitazioni ambientali, uno sfogo delle passioni che solo successivamente si sarebbe caricato di valore segnico.

Nel secondo libro, dedicato alla Sapienza poetica, cioè alla forma di conoscenza delle prime fasi dell’umanità, Vico ritorna sull’argomento:

Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch'elleno significassero a placito, perch'esse, per queste lor origini naturali, debbon aver significato naturalmente, lo che è facile osservare nella lingua volgar latina (la qual è più eroica della greca volgare, e perciò più robusta quanto quella è più dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per propietà naturali o per effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che danno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiam detto. (444)

La concezione convenzionalista del linguaggio è quindi riportata da Vico all’ignoranza dei «gramatici» in merito alle origini di una parte del lessico, che non trovando da parte loro una spiegazione, li portò a formulare la teoria, corroborata dalla tradizione aristotelica, del suo carattere arbitrario. Secondo il filosofo napoletano, invece, le lingue sono nate naturalmente quando l’uomo non possedeva ancora le facoltà razionali, che invece nel paradigma convenzionalista costituiscono un a priori. Per Vico l’inizio della significazione deve quindi essere riportato alle facoltà dei sensi e dell’immaginazione, che dando successivamente vita a processi di creazione metaforica hanno permesso alle lingue di svilupparsi. Le metafore, che formano la maggior parte del vocabolario, permettono infatti di comprendere come il lessico originario di una lingua sia legato alla sfera sensoriale e corporea dell’esistenza umana, come testimoniato dalla lingua latina che – a suo modo di vedere – si rivela più «eroica», cioè più arcaica, di quella greca.

Il principio della creazione metaforica viene ripreso ed approfondito in un altro passo fondamentale della Logica poetica, la seconda sezione del libro dedicato

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alla Sapienza poetica, sezione in cui troviamo il maggior numero di riferimenti al linguaggio:

Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi se ne dà questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzare le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini. (404)

Dopo aver affermato che i tropi fondamentali (sineddoche, metonimia, metafora)9 sono il corredo strumentale della logica poetica, cioè della significazione non razionale, Vico si sofferma sul più importante di essi, la metafora, ribadendo il principio dello sviluppo metaforico del linguaggio che corre in parallelo con quello delle menti e delle «filosofie» (cfr. Di Cesare 1988b). Per esemplificare il fatto «che’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e delle umane passioni» (405), Vico riporta un elenco di parole, come capo, fronte, spalle,

occhi, bocca ecc., in cui il significato metaforico astratto, del tipo «capo, per cima o

principio», muove da un significato concreto legato alla dimensione corporea (ibid.). Secondo Vico, questi esempi dimostrano la validità dell’assioma secondo cui «l’uomo ignorante si fa regola dell’universo» (ibid.), avvalorando in tal modo la concezione della metafora come strumento conoscitivo prerazionale.

Allargando il suo ragionamento al campo della metafisica, seguendo la consueta modalità di definire il suo pensiero in contrapposizione a quello proprio della visione razionalista, Vico giunge ad una famosa conclusione:

9 Vico riteneva che tutti i tropi potessero essere riportati a quattro figure retoriche fondamentali, cioè la sineddoche, la metonimia, la metafora e l’ironia. Quanto a quest’ultima, tuttavia, osservava che «l’ironia certamente non potè cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza di una riflessione che prende maschera di verità» (408).

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Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit

omnia», così questa metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con più di verità detto questo che quello,

perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col trasformandovisi, lo diventa. (ibid.)

In questa suggestiva formulazione possiamo quindi vedere come, secondo Vico, la conoscenza delle cose che prende vita nelle prime forme di linguaggio «nasce dal vivere in esse, e ciò, attraverso la creatività delle reazioni sensitive e fantastiche, porta l’uomo alla costruzione di sé e del suo mondo» (Pagliaro 1961: 307). Il passo ci permette così di comprendere quale sia il punto di arrivo del pensiero vichiano che, sviluppatosi lungo le coordinate della tradizione dell’ars

rhetorica – la sua professione –, attraverso la rivalutazione della componente

fantastica della mente umana sfocia in una concezione storicistica del linguaggio (De Mauro 1968).