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Il napoletano illustre e la lingua «chiantuta e massiccia»

Gian Rinaldo Carli, Giuseppe Parini, Ferdinando Galiani

4.4 Ferdinando Galiani

4.4.1 Il napoletano illustre e la lingua «chiantuta e massiccia»

Una difesa del dialetto, ma con argomenti ben diversi, venne condotta in quei medesimi anni dall’abate Ferdinando Galiani (1728-1787), originario di Chieti, ma

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trasferitori a Napoli in tenera età33. Coniugando la formazione umanistica con gli studi di matematica, scienze, diritto ed economia, Galiani riversò fin da giovane la sua vasta ed aggiornata cultura in numerose opere, molte delle quali inedite, su temi che spaziavano dall’antichità all’analisi dei problemi del suo tempo, soprattutto quelli economici, come nel caso del trattato Della moneta (1751), considerato il suo capolavoro. Trasferitosi nel 1759, con l’incarico di Segretario d’Ambasciata, a Parigi, dove risiedette per un decennio, Galiani conobbe i maggiori intellettuali del momento e si fece apprezzare nei salotti della capitale francese per la verve comunicativa e per la brillante intelligenza, tanto da essere soprannominato «Arlecchino» e «Machiavellino». Sempre a Parigi compose i Dialogues sur le

commerce des bleds, che lasciò in forma manoscritta a Diderot prima del rientro a

Napoli. L’opera venne pubblicata in forma anonima nel 1770, e fece scalpore per la ferma contrarietà all’idea della libertà di commercio, sostenuta dai fisiocratici, e per lo stile accattivante, attirando da un lato dure critiche e dall’altro ampi consensi, come quelli espressi da Voltaire e Diderot.

Dopo il suo definitivo ritorno a Napoli Galiani si mantenne in contatto con gli amici parigini attraverso una fitta corrispondenza e coltivò molteplici interessi culturali. In questo frangente si colloca anche la pubblicazione del trattato Del

dialetto napoletano (1779), su cui ora ci soffermeremo34. Il volume comprende un profilo grammaticale – il primo consegnato alle stampe riguardante un dialetto italiano –, un excursus storico-linguistico accompagnato dai riferimenti alle prime attestazioni del napoletano, e un catalogo degli scrittori che hanno utilizzato il dialetto dal Seicento in poi, con estesi giudizi critici. Nella prefazione all’opera, dopo aver affermato che grazie all’avvento dei Borboni «in molte parti è già non solo riacquistata ma sorpassata la nostra felicità» – che invece l’autore aveva giudicato perduta durante il Viceregno spagnolo e austriaco (1502-1734) –, Galiani osserva:

33 Per un quadro generale sul Galiani si vedano il saggio di Catucci (1986) e l’ampio profilo di De Majo (1998), a cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche, in particolare per quanto riguarda gli studi fondamentali del Nicolini.

34 Il trattato, pubblicato adespota e attribuito nella prefazione a quattro immaginari «Accademici Amici della Patria», dietro a cui i più riconobberro subito il Galiani, ebbe una seconda edizione postuma nel 1789, nella quale vennero introdotte le modifiche preparate dall’autore prima della morte. Sulle vicende editoriali dell’opera e sulle reazioni da essa scatenate al suo apparire cfr. la

Nota ai testi contenuta nell’edizione critica curata da Enrico Malato (Galiani 1970: 331-348),

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Solo pare che, in tanto progresso, resti indietro e resti irreparabilmente negletto ed incapace più di ristoro e di fortuna il nostro volgar dialetto napoletano: quello stesso dialetto pugliese che, primogenito tra gli italiani, nato ad esser quello della maggior corte d’Italia, destinato ad esser l’organo de’ pensieri de’ più vivaci ingegni, sarebbe certamente ora la lingua generale d’Italia se quella felice Campania e quell’Apulia che lo produssero e l’allevarono si fossero sostenute quali prime, e non qual infime e le più derelitte delle provincie italiane. (1970: 8)

Nel passo viene esposto il principio da cui muove la linea argomentativa dell’intero trattato, ossia la convinzione – maturata da una lettura ‘patriottica’ del

De vulgari eloquentia – che il dialetto napoletano, accostato al pugliese, coincida

con l’idioma in cui si è espressa nel Duecento la poesia siciliana, idioma considerato da Dante «il più onorevole» di tutti i dialetti italiani, in rapporto al volgare illustre oggetto della sua ricerca. Per dare ragione della condizione di ‘nobile decaduto’ in cui versa il napoletano, oltre a chiamare in causa la marginalizzazione storica del Viceregno, nel profilo storico-linguistico si adduce anche il motivo della «destrezza» e della «soverchieria» degli scrittori toscani e degli Accademici della Crusca:

Non è dispreggio adunque del nostro dialetto se non ha l’onor di lingua generale, giacché siffatto onore neppure al toscano compete. Suo dispreggio in oggi è lo scostarsi molto dall’italiano comune: il che non è avvenuto già perché il nostro pugliese da tempi di Dante in qua siesi molto alterato, ma è avvenuto perché agli scrittori toscani, che ci superarono nello zelo di scriver in volgare, ed indi ai signori Accademici della Crusca, è piaciuto risecare dalla lingua comune moltissime voci e moltissime inflessioni di pronunzia che ai tempi di Dante erano usate e da’ nostri e da’ Toscani (che incontransi in quegli stessi scrittori, padri della lingua, da essi scelti per legislatori), e lasciarvi soltanto quelle parole e quelle inflessioni che s’accostavano al dialetto toscano. Con questa destrezza e, se ci è lecito il dirlo, con un poco di sovercheria, avvenne che gl’idiotismi delle toscane provincie divennero la lingua, e il nostro se ne trovò distante assai e sbandito. (59)

Nella visione del Galiani, la distanza che separa il dialetto napoletano dall’italiano comune è quindi il risultato della scaltra operazione puristica condotta

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dall’Accademia della Crusca, mentre le strutture che lo caratterizzano testimoniano la sua maggior prossimità al latino rispetto a quanto accada per il toscano. In merito alla pronuncia, l’autore infatti osserva:

Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi che le parole napoletane chisto e

chillo si scostano meno dalle latine iste e ille che non se ne scostano le

toscane «questi» e «quegli»? Dunque indubitatamente ha dovuto prima dirsi chisto, chillo (che, secondo l’ortografia di tre o quattro secoli fa, trovasi scritto quisto, quillo), e poi, cresciuta l’alterazione, si è venuto a dir «questi», «quegli». Chi non vede che il nostro verbo napoletano dicere non ha mutazione dal latino come lo ha il toscano «dire»? Chi negherà che le nostri voci patre, matre, frate, sore, nepote, consobrino suonano assai più il latino che non le toscane «padre», «madre», «fratello», «sorella», «nipote», «cugino»? (64)

Quanto poi al lessico, la prova che il napoletano fosse «come il meno corrotto, così il più antico de’ dialetti» (66) sarebbe venuta dal Vocabolario delle

parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, pubblicato

postumo nella Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana (1789), opera curata dal Porcelli in cui venne inserita anche la seconda edizione del trattato (cfr. Malato 1970: 340). Sempre a prova dell’antichità del suo dialetto, Galiani inserisce nel trattato un catalogo contenente un centinaio di parole, utilizzate – stando alla sua affermazione – «da que’ scrittori d’ogni provincia d’Italia che sono stati canonizzati per testi della lingua generale, e che, pian piano e destramente espulse da’ Toscani (che miravano a convertir il loro dialetto in lingua generale), sono restate soltanto tra noi» (Galiani 1970: 66)35.

Il fine di questa ricostruzione storica «a disegno» (Gensini 1993: 160), nella quale il dialetto napoletano veniva a configurarsi come un parente povero della lingua comune, viene dichiarato con estrema chiarezza nella prefazione, e fa il paio con l’ottimismo espresso dall’autore nei confronti dei cambiamenti indotti dall’avvento dei Borboni. Si chiede infatti Galiani:

35 Ben lungi dal rappresentare un repertorio lessicale italiano, il catalogo in realtà era stato estrapolato, tranne poche voci, dall’indice di parole non comprese nel dizionario della Crusca riportato in un’edizione del 1745 delle Lettere di fra’ Guittone d’Arezzo (cfr. Galiani 1970: 66, n. 51).

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Chi sa che un giorno il nostro dialetto non abbia a inalzarsi alla più inaspettata fortuna: difendersi in esso le cause, pronunciarvisi i decreti, promulgarvisi le leggi, scriversi gli annali e farsi infine tutto quello che al patriotico zelo de’ Veneziani sul loro niente più armonioso dialetto è riuscito di fare? (9)

La speranza di Galiani sembra quindi essere quella che il napoletano possa guadagnare una dignità e un’ufficialità pari a quelle raggiunte dal veneziano. Il riferimento alla lingua giuridica in uso nella Serenissima, dove il veneziano della tradizione cancelleresca si era mantenuto a livello lessicale, ma all’interno di un tessuto linguistico ormai ampiamente toscanizzato (cfr. Tomasin 2010: 91-92), fa luce sull’identità linguistica del dialetto sostenuto dall’autore. La lingua partenopea a cui pensava l’abate era infatti una sorta di ‘napoletano illustre’, che non si poneva affatto in rapporto all’italiano in termini antagonistici. Trattando dell’ortografia del napoletano, il Galiani infatti precisa:

Generalmente in tutti i casi dubbi seguiremo l’ortografia che più s’accosta alla comune italiana. Conviene che ogni figlio si faccia pregio di mostrar rispetto ed attaccamento alla madre comune e, ben lungi dall’inalzar lo stendardo della ribellione e della discordia tra ‘l napoletano e l’italiano, noi crediamo non potersi far meglio quanto il cercare di raddolcire il nostro dialetto, d’italianizzarlo quanto più si può e di renderlo simile a quello che i nostri ultimi re, gli Aragonesi, non sdegnarono usare nelle loro lettere e diplomi e nella legislazione36. (45-46)

Il napoletano illustre celebrato da Galiani, quindi, non è altro che il dialetto italianizzato, quanto a dire una sorta di varietà regionale della lingua comune, che ci possiamo rappresentare come sociolinguisticamente non dissimile dal livello intermedio compreso da Parini nel suo modello del repertorio linguistico milanese. Il confronto fra le due situazioni permette inoltre di comprendere più a fondo i valori che Galiani assegnava alle singole varietà presenti nello spazio linguistico napoletano. Per l’abate, il dialetto toscanizzato rappresentava la forma comunicativa

36 Come avverte Malato (Galiani 1970: 101 n. 210), nel periodo aragonese il volgare si diffuse negli atti pubblici a scapito del latino e del catalano. De Blasi (2012: 51-53) sottolinea tuttavia la distanza fra il napoletano parlato e il volgare utilizzato nei documenti ufficiali del periodo, dove sono presenti numerosi latinismi per garantire chiarezza e comprensibilità degli atti.

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di riferimento della società medio-alta, storicamente contrapposta al ceto plebeo, che invece parlava il puro dialetto, la lingua bassa, «chiantuta e massiccia» che ritroviamo nei grandi autori della letteratura dialettale riflessa del Seicento (cfr. De Blasi 2012: 75-86), autori che – nella visione del Galiani – con le loro opere sanciscono invece la drammatica decadenza del napoletano:

Da questo tempo in poi cadde il dialetto nostro nell’obblio dell’abiezione e, quel che fu peggio assai, trovossi confinato alla sola oscena scurrilità. Invano si cercherebbero adunque dalla metà del decimosesto secolo fino al presente componimenti né in prosa né in verso di soggetto o serio o almeno indifferente, scritti nel dialetto napoletano. Tutti non l’hanno riguardato che come unicamente atto a promuovere il riso colle buffonesche e bassissime lepidezze. Eccoci adunque all’epoca della maggiore alterazione del nostro dialetto, avvenuta ne’ principi del decimosettimo secolo. Alterazione tale e tanta, che tutti finora l’hanno confusa colla nascenza di esso e degli scrittori suoi, credendosi generalmente essere stati i più antichi scrittori del volgare napoletano Giambattista Basile e Giulio Cesare Cortese. (128-129)