Introduzione
Come abbiamo visto, la « svolta filologica» aveva portato gli eruditi della prima metà del Settecento a riscoprire la complessità della storia linguistica italiana, nei confronti della quale nel corso del secolo maturano atteggiamenti differenziati. Da un lato la linea di pensiero che riconosce nel plurilinguismo italiano un tratto fondante della storia culturale della Penisola, linea che muovendo dal trattato di Fontanini viene avvalorata nella seconda metà del secolo da Bettinelli e da Carli, alle cui teorizzazioni si può accostare la difesa del dialetto municipale da parte di Parini e, con i dovuti distinguo, di Galiani, dall’altro la posizione di coloro che invece pongono in primo piano, seppur con prospettive storico-linguistiche diverse, l’origine, lo sviluppo e l’affermazione della lingua comune, come Maffei e Muratori. Al di là delle posizioni che contraddistinguono i due orientamenti, rimane fuori discussione il valore riconosciuto all’italiano come lingua comune della comunicazione colta, lingua che nel giro di pochi decenni soppianta il latino nel suo ruolo di strumento principe della tradizione culturale, divenendo simbolo di sempre più chiare rivendicazioni politiche.
Accanto all’approccio storico-linguistico, nel Settecento si sviluppa e con esso s’intreccia una visione filosofica del linguaggio, che diventa prevalente nella seconda parte del secolo per poi rapportarsi, tra fine Settecento e inizi Ottocento, alla diffusione di una modalità comparativa con cui approfondire criticamente storia e caratteri distintivi di lingue, letterature e situazioni socioculturali. In termini generali, come ben rilevato già da Vitale (1955: 66):
Di fatto, l’atteggiamento filosofico del secolo fece sì che al problema delle origini storiche delle lingue determinate, e a quello dei loro mescolamenti e delle loro modificazioni, si sostituisse il problema della origine naturale del
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linguaggio in rapporto al pensiero e in rapporto alle cose di cui esso era considerato segno espressivo; una considerazione filosofica, cioè, dei problemi linguistici1.
Per meglio intendere l’origine e le peculiarità della visione filosofica del linguaggio nel pensiero linguistico italiano del Settecento, è necessario ritornare alla polemica Orsi-Bouhours, entrando più nel dettaglio delle idee del gesuita francese2. Nel terzo dialogo degli Entretiens d’Ariste e d’Eugène, dedicato alla lingua francese, dopo aver affermato che «les langues n’ont esté inventée que pour exprimer les conceptions de nostre esprit; et que chaque langue est un art particulier de rendre ces conceptions sensibles, de les faire voir, et de les peindre» (1671: 68), Bouhours contrappone il genio della lingua francese, «la plus simple e la plus naïve du monde» (ibid.), a quello dello spagnolo e dell’italiano. Mentre la lingua iberica viene criticata per la mancanza di misura nel rappresentare i concetti, a causa dell’abuso di iperboli e di metafore, dell’italiano viene invece sottolineata la tendenza ad abbellirli, cosicché secondo Bouhours «toutes ces expressions Italiennes si fleuries, et si brillantes, sont comme ces visages fardez qui ont beaucoup d’eclat, et qui n’ont rien de naturel» (71). Rispetto alle consorelle, quindi, solo la lingua francese possiede il pregio di non alterare la verità, e anche considerando le altre lingue, greco e latino compreso, «il n’y a qu’elle à mon gré – aggiunge l’autore – qui sçache bien peindre d’aprés nature, et qui exprime les choses précisément comme elles sont» (72).
Fra i vari aspetti delle lingue peninsulari che il gesuita francese considerava opposti all’ideale di semplicità e naturalezza, particolare rilievo assumevano l’abuso di metafore ardite e l’abitudine all’inversione sintattica. In un contesto culturale dominato dal razionalismo cartesiano e dal logicismo portorealista, l’accusa di eccesso di retoricità nei confronti dello spagnolo e dell’italiano metteva così in
1 Alla correttezza dell’affermazione generale nulla toglie il fatto che, subito dopo, l’autore precisi che tale considerazione filosofica «si limitava a meditare sui principi generali e immutabili della lingua, cioè a sollecitare la grammatica generale» (ibid. 66-67). Il saggio di Vitale seguiva infatti di pochi anni quello di Nencioni (1950), che aveva riaperto l’interesse scientifico nei confronti del pensiero linguistico preascoliano, indicandone in Cesarotti il precursore. Era invece ancora di là da venire la rivalutazione del pensiero linguistico vichiano, che avrebbe trovato nel saggio di Pagliaro (1961) un raro esempio di profondità critica.
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discussione la capacità delle due lingue di assolvere al loro compito fondamentale, cioè l’espressione del pensiero, considerato come una facoltà indipendente dal linguaggio. Secondo Bouhours il ricorso alle metafore doveva perciò essere limitato all’indispensabile, o a quei casi in cui le parole metaforiche erano diventate comuni grazie all’uso, considerato il vero regolatore del linguaggio (73). Per quanto riguarda l’ordine delle parole, l’autore riteneva che il francese fosse la sola lingua a seguire l’ordine sintattico naturale (soggetto-predicato-complemento), esprimendo in tal modo i pensieri nella loro articolazione logica. Le inversioni sintattiche, così frequenti sia nelle lingue classiche sia nelle lingue romanze peninsulari, producevano invece disordine, disarmonia e oscurità (81-83). La naturalezza del francese era poi immediatamente evidente nella pronuncia. Secondo Bouhours, infatti:
De toutes les prononciations, la nostre est la plus naturelle, et la plus unie. Les Chinois, et presque tous les peuples de l’Asie chantent; les Allemans rallent; les Espagnols déclament; les Italiens soûpirent; les Anglois sifflent. Il n’y a proprement que les François qui parlent. (83)
Mentre lo spagnolo e l’italiano, dopo i fasti ottenuti nel passato, si trovavano ormai in una fase di decadenza, il francese, che si era affrancato più tardi dalla barbarie dell’epoca medievale, sotto il regno di Luigi XIV aveva raggiunto una perfezione pari a quella del latino ai tempi d’Augusto (98). Dal momento che, secondo la concezione naturalistica seguita da Bouhours, «les langues ont leur naissance, leur progrés, leur perfection, et mesme leur décadence, comme les Empires» (151), si poneva allora il problema del mantenimento del grado di perfezione a cui il francese era giunto. Secondo il gesuita francese, a mettere al riparo la lingua di Francia dalla corruzione causata da agenti esterni contribuivano due fattori straordinari: il prestigio internazionale, che spingeva moltissime persone ad apprendere il francese, e la solidità della monarchia (173-174). Quanto poi ai cambiamenti a cui naturalmente sono soggette le lingue, Bouhours era convinto che «ils n’altereront point le fonds de la langue. Il y aura toûjours la mesme naïveté, la mesme clarté, le mesme ordre, et le mesme tour dans le stile» (175).
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Queste quindi le idee che stanno alla base del partito preso dai due interlocutori agli inizi del dialogo sulla lingua francese, quando Ariste ed Eugène espongono le possibili soluzioni al problema comunicativo posto dalla varietà delle lingue, problema che i due vivevano con una certa urgenza, dal momento che le loro discussioni si tenevano in una città costiera delle Fiandre. Di fronte all’avversione manifestata da Eugène per la soluzione del plurilinguismo, e al conseguente rifiuto di apprendere il fiammingo, l’amico così risponde:
Au-moins vous seriez bienaise, dit Ariste, que toutes les langues fussent reduites à une seule, et que tous les peuples s’entendissent comme nous nous entendons, et comme ils s’entendoient autrefois. Je n’en serois pas fasché, repliqua Eugene, pourveû que nostre langue fust cette langue universelle, et que toute la terre parlast François. Vous avez raison de prendre ce parti là, repondit Ariste, car parlant aussi bien que vous faites, vous perdriez trop, si l’on ne parloit plus qu’Allemand ou bas Breton. (54-55)
L’etnocentrismo del gesuita parigino, facendo leva sul successo delle concezioni razionaliste e sulla forza politica della monarchia sfociava così nell’ideologia della lingua universale, ideologia che sarebbe stata ripresa un secolo dopo da Rivarol con la proposta del francese come lingua parlata comune d’Europa, «autentico pendant operativo» (Gensini 1993: 63) di quella ‘lingua perfetta’ che vari autori europei fra Seicento e Settecento avevano tentato di realizzare (cfr. Pellerey 1990; Eco 1993). In Italia invece, come Gensini giustamente sottolinea, e come avremo modo di vedere a proposito delle teorizzazioni leopardiane, la tematica della lingua universale non avrebbe avuto molta fortuna.
Ritornando al dibattito degli inizi del Settecento, come già ricordato nella prima parte di questo studio, in Italia l’Orsi fu il primo a rispondere alle accuse del Bouhours, dando la stura a una lunga serie di interventi da parte di numerosi intellettuali italiani, che presero posizione soprattutto sugli aspetti letterari della polemica, tematizzati dal gesuita francese nella Manière de bien penser dans les
ouvrages d’esprit (1691). Nell’ambito più propriamente linguistico, dalle Considerazioni dell’Orsi e da altri interventi emergeva un’idea della retorica, e in
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di scarto dal piano naturale dell’espressione, impostosi all’interno della tradizione aristotelica3, concetto condiviso da Bouhours, come appare con chiarezza nella sua valutazione delle espressioni fiorite dell’italiano, giudicate negativamente perché sembravano dei «visages fardez».
La nuova visione della metafora affondava le sue radici nelle teorizzazioni di epoca barocca4. Nel Cannocchiale aristotelico (1654), il più noto trattato italiano di poetica del Seicento, Emanuele Tesauro (1592-1675) aveva dato una definizione della metafora che faceva trasparire alcuni importanti elementi di novità:
La metafora [è] il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto. Ingegnosissimo veramente, però che, se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti, questo apunto è l’officio della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per consequente ell’è fra le figure la più acuta: però che l’altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabolo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti. (Tesauro 1978: 67)
Come si può ben vedere, pur riferendosi ad Aristotele (il nostro autore) nel considerare la metafora come un parto dell’ingegno, Tesauro si allontana dalla concezione tradizionale nel momento in cui rende dinamico l’ordine dei termini implicati: i concetti e le parole. Nella sua definizione, infatti, la metafora non rappresenta più un semplice processo di sostituzione lessicale, ma diviene uno strumento che consente di penetrare all’interno delle «più astruse nozioni». Anche
3 Con tradizione aristotelica si vuole naturalmente intendere l’interpretazione, sviluppatasi fin dall’antichità, del pensiero dello stagirita, che nella sua teoria della metafora aveva sottolineato l’effetto conoscitivo della figura, derivante dalla sua iconicità, ossia dal «mettere sotto gli occhi» il significato veicolato (cfr. Gensini 1993: 5-9). Nella tradizione retorica s’impose invece il carattere sostitutivo della metafora, con funzione esornativa, come possiamo vedere, ad esempio, nella definizione del manuale del Lausberg (1972: 127): «La metaphora è la sostituzione di un verbum
proprium (‘guerriero’) con una parola il cui significato inteso proprie è in rapporto di somiglianza
con il significato proprie della parola sostituita (‘leone’)».
4 Sull’argomento, ampiamente dibattuto, abbiamo tenuto presente in particolare Conte (1972), Di Cesare (1988a), Gensini (1993: 24-40) e Lorusso (2005).
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se le teorizzazioni del Tesauro rimangono nell’ambito dell’estetica tradizionale, dove l’arte è ‘comunicare’ e ‘fare’ (Conte 1972: 168), nella sua concezione la metafora viene ad assumere una funzione conoscitiva, non più solo esornativa, dimostrando «l’attitudine relazionale e analogizzante dell’ingegno» (Gensini 1993: 37).
Come nel corso del Seicento il concetto di metafora è soggetto a un’importante revisione, così inevitabilmente avviene anche per quanto riguarda l’ingegno, il ‘motore’ della creazione metaforica. Un posto di rilievo in tal senso occupano le teorizzazioni del letterato bolognese Matteo Pellegrini (1595-1652). Ponendosi il problema di distinguere tra acutezze ben adoperate e acutezze viziose – espressione deteriore, a suo modo di vedere, del concettismo barocco –, nel suo trattato Delle acutezze (1639) Pellegrini chiarisce la natura della facoltà che presiede alla loro creazione:
Insomma l’artificio ha luogo solamente, o principalmente, non già nel trovar cose belle; ma nel farle; e l’oggetto del plausibile a nostro proposto non s’appartiene all’intelletto; che solo cerca la verità, e scienza delle cose: ma sì bene all’ingegno, il qual tanto nell’operare, quanto nel compiacersi, ha per oggetto, non tanto il Vero, quanto il Bello. (1639: 39)
Nella concezione dell’autore l’ingegno viene quindi considerato come una facoltà che dà luogo a una forma di conoscenza complementare a quella raggiunta per mezzo dell’intelletto, e non opera mettendo in luce aspetti della realtà, ma piuttosto li crea. L’azione dell’ingegno – che trova nella metafora la sua più fulgida realizzazione – attiva così le potenzialità gnoseologiche del linguaggio, che si esplicano nella sfera del ‘bello’. Come osservato da Gensini (1993: 27), «siamo agli inizi di quella essenziale direttiva del pensiero europeo che condurrà, nel Settecento, a teorizzare il fondamento estetico, sensibile e immaginativo, dell’attività conoscitiva».
Riguardo agli aspetti più strettamente linguistici, la visione della metafora presente nei trattati di Tesauro e di Pellegrini forniva utili argomenti per controbattere alle critiche di Bouhours sulla retoricità e sull’affettazione della lingua italiana, e anche per revocare in dubbio il mito della naturalezza del francese. Se i
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giudizi negativi sul barocchismo dei poeti della Penisola, come abbiamo visto, trovarono accoglienza fra gli eruditi italiani della prima metà del Settecento, il razionalismo linguistico del gesuita parigino dimostrava invece di cogliere solo in superficie la natura e le valenze del linguaggio, mettendo a nudo il nazionalismo d’oltralpe e la consustanziale avversione al plurilinguismo.