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2. Scipione Maffei e la teoria classicistica sull’origine dell’italiano

2.2 Le idee storico-linguistiche

Passando ora ad esaminare le idee storico-linguistiche espresse da Maffei nella

Verona illustrata, bisogna partire dalle argomentazioni con cui il letterato veronese

minimizza l’apporto delle popolazioni germaniche all’origine e allo sviluppo della lingua italiana (1732: 585-589). A suo modo di vedere, i barbari, giunti in Italia a varie ondate, in realtà erano di numero inferiore a quanto comunemente si credeva. Come testimoniato da Tacito, questa considerazione valeva anche per i Longobardi, considerati dai sostenitori della tesi avversa come i maggiori responsabili della corruzione della lingua latina. A causa della loro esiguità i Longobardi non avrebbero quindi potuto ripopolare l’Italia, e poi non avevano occupato nemmeno l’intera Penisola. Pertanto «né si spense la nazione Italica per la venuta de’ Barbari, né lasciò come prima di propagarsi, […] né tutti a quel tempo in Italia si trasformarono gl’instituti, né tutte per essi avvennero quelle mutazioni da tempi Romani che nacquero» (589-590).

Pertanto, secondo Maffei non furono gli italici ad assimilarsi ai Longobardi nella religione, nelle arti, negli usi e nei costumi, casomai avvenne l’inverso, e per intendere le modificazioni culturali che si erano prodotte nel corso del medioevo bisognava risalire alquanto più indietro, cioè alla storia romana (589-597).

Nel caso poi della modificazione del latino e della nascita della lingue romanze, si doveva partire addirittura dalla situazione linguistica preromana:

Mirabil cosa è, come l’affetto a Roma facesse affatto disperdere l’antiche e primitive lingue non solamente in Italia, ma nella Francia, e nella Spagna, abbracciata da per tutto la Latina, benché nel popolo variamente corrotta, secondo il genio, e la pronunzia de’ paesi, e delle lingue che vi erano avanti; onde quelle che vi si vennero formando, si chiamaron prima Romanze, o Romane rustiche. (597-598)

Come sottolineato da Timpanaro (1969: 246-247), nel passo è presente una chiara formulazione del concetto di ‘sostrato’, che Maffei aveva già abbozzato nell’opuscolo Dell’antica condizion di Verona (1719), «libriccino […] da

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considerarsi incunabolo dell’opera maggiore» (Arato 2002: 105)11.In quello scritto, affrontando il problema dell’origine delle differenze fra i dialetti parlati sulle due sponde del Mincio, da un lato il galloitalico (diremmo noi) parlato a Brescia, Bergamo e Cremona, e dall’altro il veneto di Verona, Vicenza e Padova, Maffei aveva infatti affermato:

Io credo altresì d’avere scoperto, come i sì vari nostri dialetti procedettero singolarmente dalla diversa maniera di pronunziare, e di parlare popolarmente il Latino, la qual diversità nacque dal genio delle lingue, che avanti la latina correvano, vestigio delle quali restò pur sempre. Nelle antiche Lapide Bresciane nomi s’incontrano spesso, che par venissero da straniero linguaggio, e che sembrano altresì col moderno favellar del paese mostrare certa attinenza: Bersimes, Madiconis, Vescassoni, Endubronis, e altri tali, che ne’ marmi de’ paesi di qua non ci si presentano. (1719: 44-45)12

Maffei aveva quindi messo a fuoco le continuità piuttosto che le fratture della storia linguistica italiana (Marazzini 1993: 288), e aveva proiettato in un passato lontano l’origine della differenziazione osservabile nel presente. Anche l’importantissima scoperta dell’influsso del sostrato preromano era quindi una conseguenza della sua visione classicistica della storia. Quanto al territorio di Verona, è noto che Maffei riteneva che fosse stato colonizzato originariamente dal raffinato popolo degli etruschi (cfr. Bandelli 1998: 9), essendo d’altra parte certo che «Galli qui non fermassero il piede» (1719: 43).

Lo schema della ricerca delle origini antiche della storia locale funzionava anche per spiegare la presenza nel veronese della «lingua Teutonizzante, che vive ancora in alcuni villaggi delle montagne nostre superiori, disgiunti per tanto intervallo da’ tedeschi, e gli abitanti de’ quali per certa antica popolar voce son detti Cimbri» (71). Secondo Maffei l’origine dei cosiddetti «Cimbri» era dovuta alla permanenza in quei luoghi dei discendenti della popolazione sconfitta da Caio

11 Per una storia del concetto di sostrato, così come si è venuto a determinare nel contesto italiano, si veda il saggio di Timpanaro dedicato ai rapporti fra il pensiero linguistico di Cattaneo e quello dell’Ascoli (1969: 229-357); per un’analisi critica della storia e dell’utilizzo del concetto nell’ambito delle scienze linguistiche cfr. Silvestri (1977).

12 Interessante qui è anche notare l’accenno di Maffei all’esistenza di un latino popolare e la familiarità dell’autore con le fonti epigrafiche. Aspetti, entrambi, che lo ponevano in naturale sintonia con i metodi e con le idee di Cittadini.

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Mario ai Campi Raudii (101 a.C.), mentre noi oggi sappiamo che la lingua germanica parlata sull’Altopiano di Asiago e sulle colline veronesi è dovuta allo stanziamento, avvenuto fra il XII e il XIII secolo, di popolazioni parlanti un dialetto bavarese (cfr. Toso 2008: 145)13.

Le argomentazioni linguistiche addotte da Maffei per sminuire il ruolo esercitato dalla lingua dei barbari nella formazione dell’italiano vengono introdotte da alcune considerazioni idiomatologiche, relative al diverso aspetto fonetico che, come ognuno poteva notare, differenziava l’italiano dal tedesco. Osserva infatti Maffei:

Or posto che lingua alemana usassero le genti venute in Italia, a chiunque pensa la lingua italiana dal lor parlare, e dalla pronunzia loro esser nata, potrebbe chiedersi, se Alemani udisse mai, che tra essi ragionassero. Probabil per certo è, che ciò non gli avvenisse; poiché riflettendovi, avrebbe facilmente conosciuto, come niuna parte potè aver nella nostra una lingua così diversa di genio, così lontana di voci, così contraria d’accenti, e di suoni. La lingua Latina era un onesto temperamento di vocali, e di consonanti, prevalendo alquanto queste: l’Alemana, e l’Italica si posson computare per le due estremità opposte: l’una per la quantità delle consonanti, l’altra per la quantità delle vocali: quella quasi tutte le parole termina in consonante, e spesso con più d’una, usando d’addossarle; questa le termina quasi tutte in vocali, e nelle sue voci per lo più non minor numero di vocali mette, che di consonanti, e qualche volta anche maggiore. Come mai dunque potrebbe l’una avere avuto parte nella formazion dell’altra? Egli è chiarissimo, che se la corruzion della Latina fosse nata dal mischiarvisi la lingua de’ barbari, e dall’uso delle lor pronunzie, molte vocali si sarebber tronche, e molte consonanti accresciute, con che la robustezza sarebbe degenerata in asprezza; quando tutto all’incontro, avvenne la corruzione principalmente, per troncar le consonanti, onde la favella si rese tutta dolce, come a molti pare, o degenerò in molle, come pare ad altri. (599-600)

Nel caratterizzare il tedesco come lingua consonantica vs l’italiano come lingua vocalica Maffei ricorre al concetto di ‘genio della lingua’, inteso come insieme di tratti caratteristici di un idioma, concetto emerso nel Seicento in ambito portorealista ed utilizzato nel Settecento, fra gli altri, da Gravina e Muratori nel

13 Sia le considerazioni sulle differenze fra il galloitalico e il veneto, in particolare per quanto riguarda la contrapposizione storica, linguistica e culturale fra Brescia e Verona, sia quelle relative ai «cimbri» vengono riproposte nella Verona illustrata (1732: 20-27; 113-117).

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contesto del dibattito innescato da Bouhours sulle diverse identità del francese e dell’italiano14.

Si dava così un’ulteriore prova dell’indipendenza della storia dell’italiano dai presunti contatti con altre popolazioni, indipendenza osservabile anche a livello dei prestiti lessicali, limitati, secondo Maffei, a «una ventina di vocaboli», e si preparava l’enunciazione della tesi seguita dall’autore:

Ma da che dunque, diranno, provenne la trasformazione della lingua Latina nella volgare? Provenne dall’abbandonar del tutto nel favellare la latina nobile, gramaticale, e corretta, e dal porre in uso generalmente la plebea, scorretta, e mal pronunziata. Quinci quasi ogni parola alterandosi, e diversi modi prendendo, nuova lingua venne in progresso di tempo a formarsi. Né si creda che da’ barbari recata fosse così fatta scorrezione, e falsa pronunzia; sì perché abbiam già veduto, come del tutto opposto se ne sarebbe per essi indotto il cambiamento; e sì perché molto prima de’ barbari era già tutto questo in Italia. (601)

Riproponendo le idee di Cittadini, Maffei fa quindi risalire l’origine dell’italiano alla variazione diastratica del latino presente già nell’antichità, incrinando il fronte di coloro che nel Settecento si allinearono alla tesi della ‘frattura’15.

Ma il debito nei confronti di Cittadini, oltre all’idea di fondo, traspare anche dal modo in cui l’erudito veronese concepisce il mutamento linguistico. Maffei ricorre infatti al termine alterazione per dar conto delle modificazioni del latino avvenute già in epoca romana, utilizzando la stessa denominazione di cui si era servito Cittadini per illustrare la sua tesi. Rifacendosi a Castelvetro che, riguardo al problema posto dal Bembo se il volgare moderno fosse esistito già nell’antichità, aveva distinto gli aspetti ‘sostanziali’, cioè il «corpo naturale delle voci», che accomunavano l’italiano al latino volgare, da quelli ‘accidentali’, ossia «fini,

14 Sulla storia del concetto di ‘genio della lingua’ e sulla sua evoluzione semantica nel corso del Settecento, avvenuta in ambito filosofico a partire dalle teorizzazioni di Condillac, cfr. Rosiello (1965).

15 In realtà, la tesi sostenuta da Maffei aveva già trovato agli inizi del Settecento un precorritore in Gian Vincenzo Gravina, che aveva rielaborato le idee del Bruni, a lui note attraverso la confutazione di Filelfo, in base al concetto dantesco di lingua naturale vs artificiale (cfr. Marazzini 1989: 95-98). Le osservazioni di Gravina sull’origine dell’italiano, contenute nella Ragion poetica (1708), si possono leggere nell’antologia curata da Puppo (1957: 159-178).

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maniere, sessi, casi immobili e simili passioni di voci» che invece li diversificavano (Castelvetro 1988: 614), Cittadini aveva fatto proprio il concetto aristotelico di

alteratio in contrapposizione a quello di corruptio, caro ai seguaci della tesi della

‘frattura’. In tal modo il letterato senese, con una definizione teorica più precisa, aveva concettualizzato il mutamento linguistico che dal latino volgare aveva portato alla nascita dell’italiano come un processo che aveva riguardato solo gli ‘accidenti’, mentre, per quanto riguarda gli aspetti ‘sostanziali’, egli riteneva che «la lingua latina antica del vulgo s’è conservata fra noi» (Cittadini 1601: 2)16.

Quando Maffei, riferendosi all’italiano, parla della «nuova lingua [che] venne in progresso di tempo a formarsi», dobbiamo quindi pensare che non intenda riferirsi ad essa come a un’entità in tutto e per tutto distinta dalla lingua matrice, ma piuttosto come a una sua ‘sostanziale’ continuazione, una sorta di ‘nuova versione’ della lingua antica. A conclusione della lunga sequela di esempi addotti a sostegno della sua tesi, con un evidente riferimento alle cause del mutamento linguistico individuate da Dante nel De vulgari eloquentia, e fatte proprie, come abbiamo visto, da Cittadini, Maffei infatti afferma che «tutta da capo a piedi è Latina la lingua nostra, né stupir ci dobbiamo, che cambiasse tanto, essendo questa un’inevitabil conseguenza dell’umana instabilità, e delle vicende de’ tempi» (1732: 616).

Nella prospettiva storico-linguistica seguita da Maffei, inoltre, la visione della sostanziale continuità fra la lingua antica e quella moderna si accordava perfettamente con l’idea seicentesca di ‘genio della lingua’, a cui, come abbiamo visto, il letterato veronese ricorre per caratterizzare la diversa identità fonetica che contrappone l’italiano al tedesco. Al momento di definire la lingua parlata dalle popolazioni che invasero l’Italia alla fine dell’antichità, le due concezioni, cioè quella di identità sostanziale assicurata dal processo diacronico di ‘alterazione linguistica’ e quella di ‘genio della lingua’, inteso come insieme di caratteristiche

16 Un’efficace sintesi del dibattito critico sul rapporto fra le idee di Cittadini e quelle di Castelvetro si può trovare in Pistolesi (2000a: 239-241), a cui si deve anche lo spoglio delle postille che Cittadini era solito annotare in margine ai testi che consultava sulla ‘questione della lingua’. «Nelle postille ai testi che affrontano questo tema – osserva Pistolesi – Cittadini sottolinea costantemente il carattere alternativo della propria tesi rispetto a quella tradizionale della corruzione dovuta ai barbari. Per esempio, nelle postille al Cesano del Tolomei, ogni volta che s’imbatte nella parola ‘corruttione’, chiosa: ‘non corruttione, ma alteratione: vedi nostre Regole della lingua volgare’; sull’influenza esercitata dai barbari sulla lingua scrive: ‘se l’havessero corrotta in tutto non ci sarebbe rimasta partiale alcuna sostanzia di essa. Ma noi intendiamo tutti i vocaboli latini [ ] per accidenti alterati’» (241).

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distintive di un idioma, vengono utilizzate in modo intercambiabile. Osserva infatti Maffei a proposito della lingua parlata dai barbari:

Tal lingua in sostanza fu la Tedesca; e benché in così lungo volger di secoli, e in tanta estension di paesi gran variazioni, e alterazioni patisse anch’essa, con tutto ciò né mutò d’indole, né di genio; anzi oltre al nome di Teutoni e di Germani, che son pur meri Tedeschi, com’anco di Marcomani, e simili, e così il nome di Longobardi, e di Goti, quasi tutte le voci, addotte per buona sorte nel libro di Tacito come allora di quel linguaggio, nell’istesso significato son pur de’ Tedeschi al bel giorno d’oggi (herthum – erde, mannum – man, aestit – estland, glesum – gleissen). (598)