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Genesi, sviluppo e apprendimento delle lingue

l’origine del linguaggio e la diversità delle lingue

1.4 Genesi, sviluppo e apprendimento delle lingue

Ritornando al discorso sulla «logica poetica», dopo essersi soffermato sulla formazione delle tre tipologie del linguaggio e sulle loro combinazioni, Vico passa a trattare della genesi e dello sviluppo delle principali strutture linguistiche. Nel suo

11 Secondo Pagliaro, infatti, «i ‘famoli’ imparano la lingua, ma non la creano; trasformano, contraendo la frase eroica in un segno generico, così come assumono il nome proprio in nome di genere» (ibid).

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racconto, la «storia gentilesca» aveva avuto inizio con il terrore dell’uomo di fronte al tuono e al fulmine, cosicché i pochi giganti dispersi per i boschi «si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove» (377). Come il primo pensiero umano fu la divinità, così la prima parola ad essere pronunciata fu un’onomatopea con cui designarla:

In séguito del già detto, nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt'i pensieri umani della gentilità, incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l'onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da' latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da' greci fu detto Zéus; dal suono che dà il fuoco ove brucia, dagli orientali dovett'essere detto «Ur», onde venne «Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa origine dovett'a' greci venir detto uranós il cielo, ed a' latini il verbo «uro», «bruciare»; a' quali, dallo stesso fischio del fulmine, dovette venire «cel» […]. (447)

Oltre ad affermare l’origine onomatopeica del lessico, sulla base dell’osservazione del comportamento verbale dei fanciulli, il passo esemplifica la fantasiosità delle etimologie vichiane, che risultano ancor più sorprendenti se consideriamo il grado di consapevolezza della regolarità del mutamento fonetico a cui erano giunti gli eruditi a lui contemporanei, di cui abbiamo trattato nella prima parte di questo studio. Da questo punto di vista, come è stato sottolineato da tutti gli interpreti, Vico era indubbiamente un arretrato12. D’altra parte, non bisogna dimenticare che lo scopo dell’autore non era tanto quello di risalire alla forma originaria della parola, quanto quello di spiegare il modo e la causa della sua nascita13. A tal proposito, senza ricorrere a ulteriori esemplificazioni, basti qui

12 Valga per tutti il commento lapidario di Arnaldo Momigliano (1950: 93): «Very conversant with the linguistic, theological and juridical learning of his age, he was pratically untouched by the methods of Spanheim, Mabillon and Montfaucon». Secondo Coseriu (2010: 322-323), in Vico bisognerà fare attenzione a distinguere sempre il piano linguistico delle sue osservazioni, che si rivelano acritiche e arbitrarie, da quello delle osservazioni filosofiche sul linguaggio, dove invece l’autore dimostra tutta la sua originalità e la sua profondità.

13 A differenza degli eruditi contemporanei, animati da un rinnovato interesse storico-linguistico, Vico dimostra di avere un concetto antico, filosofico dell’etimologia, intesa come scoperta del ‘vero’ (étymos) senso delle parole (cfr. Zamboni 1976: 3).

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ricordare l’audace accostamento etimologico Ious-ius (398)14, per spiegare la nascita del diritto accanto a quella della religione, entrambe istituzioni fondanti delle comunità umane.

Lasciando da parte queste considerazioni, il passo si rivela molto interessante per un altro motivo. Le diverse onomatopee con cui viene designata la divinità nelle lingue considerate dall’autore costituiscono infatti un chiaro esempio del modo con cui Vico intendeva il rapporto fra l’unicità dell’idea e la diversità delle sue rappresentazioni linguistiche. L’epifania di Giove tonante, evento di per sé unitario, viene infatti rappresentata per «diversi aspetti», cioè con diverse focalizzazioni: i latini colgono il fragore del tuono, i greci il fischio del fulmine, gli orientali il suono del fuoco che da esso si sprigiona. Ognuno dei tre aspetti è sufficiente di per sé a designare la potenza della divinità, idea comune ai tre popoli, ma la totalità della sua manifestazione è ottenibile solo considerando l’insieme delle risposte verbali che l’evento ha causato. Se in Vico le diverse lingue sono solo un tramite verso l’unicità dell’idea, come sostiene Trabant, è d’altra parte vero che, se messe in rapporto fra di loro – come avviene nel passo in questione – esse dimostrano che la diversa focalizzazione di un evento produce delle risposte verbali distinte, integrabili ma non sovrapponibili. A ben vedere, quindi, la strada verso l’idea del relativismo linguistico humboldtiano appare in Vico già tracciata15.

Dopo aver parlato dell’onomatopea, Vico prosegue trattando della seconda struttura che, a suo modo di vedere, fece la comparsa nel processo di evoluzione linguistica, cioè l’interiezione:

Seguitarono a formarsi le voci umane con l'interiezioni, che sono voci articolate all'émpito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuori del verisimile che, da' primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima

14 L’accostamento, annota Battistini (Vico 1990: 1484), è già presente nell’Etymologicon linguae

latinae del Vossius (1662), opera di riferimento per Vico anche nel caso di molte altre etimologie

riportate nella Scienza Nuova.

15 Già Rosiello (1967: 82) sottolineava come la teoria del Weltbild della lingua avesse avuto origine nel pensiero illuminista, in particolar modo per opera di Condillac, con cui Vico – come per altro messo in luce dallo stesso linguista (60-79) – condivide molti assunti fondamentali riguardo alla genesi del linguaggio. Sul rapporto fra Humboldt e gli idéologues, continuatori del pensiero di Condillac, si rimanda al contributo di Aarsleff (1982: 335-355) che, com’è noto, nel suo volume non prende in considerazione Vico. Per una valutazione più propriamente filosofica del pensiero humboldtiano nei suoi rapporti con l’illuminismo e con l’idealismo cfr. Formigari (1990: 225-228).

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interiezione da quella di Giove, formata con la voce «pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «padre degli uomini e degli dèi», e quindi appresso che tutti gli dèi se ne dicessero «padri», e «madri» tutte le dèe; di che restaron a' latini le voci «Iupiter», «Diespiter», «Marspiter», «Iuno genitrix». (448)

Continuando a lavorare sul mito originario, Vico quindi riconduce alla meraviglia destata dal fulmine la produzione di un universale linguistico, cioè di quella che, assieme a ma, è effettivamente la prima sillaba con valore linguistico articolata dai bambini, e che per tale motivo ritorna in moltissime lingue nella parola che designa il «padre» (cfr. Jakobson 1971: 129-141). Il passo inoltre esemplifica il modo in cui Vico si rappresenta il processo che muove dalla «lingua muta» alla lingua articolata. Il suono pa! è inizialmente solo uno sfogo di una passione violenta, poi si convenzionalizza passando ad indicare l’autorità divina in modo indistinto, per poi assumere un’ulteriore funzione divenendo il suffisso utilizzato nella creazione dei nomi del pantheon in cui viene suddiviso il concetto di divinità.

Dopo le interiezioni appaiono i pronomi, anch’essi – rileva Vico – in gran parte monosillabici in tutte le lingue, i quali «servono per comunicare le nostre idee con altrui d’intorno a quelle cose che co’ nomi propi o noi non sappiamo appellare o altri non sappia intendere» (450)16.

Nel passaggio alla struttura successiva, le preposizioni, l’autore si allontana invece non solo dal principio della gradualità evolutiva, dal momento che le preposizioni sono legate alla sintassi, il livello più evoluto di una lingua, ma anche dalla coerenza del suo discorso, visto che attribuisce a esse «questa eterna proprietà: di andar innanzi a nomi che le domandano ed a’ verbi co’ quali vanno a comporsi» (451). Nomi e verbi, invece, nella sua ricostruzione appaiono successivamente, facendoci così comprendere come per Vico il tratto fondamentale che distingue le prime strutture sia in realtà la loro consistenza monosillabica (cfr. Salamone 1984: 33-35; Pennisi 1995: 185). Il medesimo criterio viene infatti applicato anche ai

16 Anche in questo caso Vico sembra aver colto nel segno nel comprendere i risvolti comunicativi di alcune necessità fondamentali dell’essere umano. Pensiamo ad esempio all’importanza per la vita comunitaria della deissi (cfr. Tomasello 2009: 15-18), che oltre a trovare un’immediata corrispondenza nel gesto ha anche dei riflessi di notevole importanza nella struttura pronominale di una lingua.

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verbi, dal momento che le loro prime insorgenze vengono identificate nel latino in alcuni imperativi monosillabici come es, sta, i, da, dic, fac (453).

Ma la spiegazione della nascita dei verbi contiene alcuni elementi di grande interesse, sia per la precisazione del modo in cui essi si oppongono ai nomi sia per le prove su cui poggiano le affermazioni vichiane:

Finalmente gli autori delle lingue si formarono i verbi, come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lasciano fermi vestigi; le particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, i quali portano l'innanzi e 'l dopo, che sono misurati dall'indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un'osservazione fisica che di molto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uomo onesto, tòcco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e sì è affatto dimenticato de' verbi. (ibid.)

I verbi quindi sono nati dopo i nomi perché contengono l’idea del movimento. Quest’idea comporta un grado di astrazione più elevato perché si accompagna alla consapevolezza della pluralità dei piani temporali, consapevolezza che a sua volta conduce – come nota acutamente Vico – a un superamento del concetto assolutizzante dell’hic et nunc, «difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi». Pur senza affermarlo direttamente, Vico ci lascia quindi intendere che i verbi devono essere nati assieme all’idea del tempo, idea che si è affacciata alla mente dell’uomo solo a un certo stadio del suo sviluppo cognitivo e culturale. Come prova della complessità del concetto del tempo, Vico adduce i casi dei bambini e degli afasici, entrambi impossibilitati a servirsi dei verbi17.

Alle persone affette da disturbi linguistici Vico aveva già dedicato una

degnità, affermando che «i mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli

scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare» (228), per dimostrare che il canto compare già nella fase non articolata del linguaggio. Ben diversa è invece la presenza dei bambini nella riflessione vichiana, presenza che emerge fin

17 L’osservazione vichiana sembra adombrare l’intuizione del rapporto esistente tra il «farsi e il disfarsi del linguaggio» (Jakobson 1972), processi neuropsicologici di ordine inverso che, se confrontati fra di loro, permettono di comprendere come le strutture più complesse siano le ultime ad essere acquisite e le prime ad essere perse, come dimostrano le attuali ricerche nel campo della neurolinguistica (cfr. Aglioti e Fabbro 2006).

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dal De ratione. I fanciulli costituiscono infatti un campo di osservazione privilegiato per lo studio della mente, per cui nella Scienza nuova essi diventano una chiave fondamentale per comprendere la condizione umana delle origini, «la fanciullezza del mondo» (679)18. Il rapporto fra ontogenesi e filogenesi, una struttura portante del pensiero vichiano, si dimostra particolarmente significativo proprio nel capitolo dedicato all’origine delle lingue. Avviandosi a concludere la parte relativa allo sviluppo delle strutture linguistiche, dopo aver osservato che i fanciulli, nonostante abbiano «mollissime le fibre dell’istromento da articolare le voci, le incominciano monosillabe», Vico deduce «che molto più si dee stimare de’ primi uomini delle genti, i quali l’avevano durissime, né avevano udito ancor voce umana» (454).

E ai fanciulli, in particolar modo alla loro fantasia e immaginazione, Vico forse pensava anche al momento di ribadire, a conclusione del capitolo, la sua visione storicistica, che dal campo del linguaggio si irradiava a tutte le articolazioni della vita civile:

Le quali cose tutte sembrano più ragionevoli di quello che Giulio Cesare Scaligero e Francesco Sanzio ne han detto a proposito della lingua latina. Come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d'Aristotile, coi cui princìpi ne hanno amendue ragionato! (455)

Con l’ironico riferimento all’‘irragionevolezza’ dei due grammatici19, Vico quindi suggella la sua visione del linguaggio, nella quale, richiamando la sintesi contenuta in un famoso saggio di De Mauro, «le lingue appaiono ormai come il veicolo d’una storicità complessa e differenziata che in esse non già si riflette, ma si

18 Coseriu (2010: 308) ha giustamente osservato che, «come suo padre, anche Vico ebbe otto figli; è possibile che il rapporto con loro abbia influenzato le sue concezioni sulla formazione della facoltà di giudizio e sull’acquisizione del sapere che sono molto diverse da quelle dei suoi più importanti contemporanei». Accurate informazioni sulla vita domestica dell’autore, in cui «lo strepito de’ suoi figlioli» accompagnava sempre gli studi (Vico 1990: 51), si possono trovare in Nicolini (1991). Guardando all’attenzione vichiana nei confronti delle «lingue mutole» – ossia patologie del linguaggio e lingue degli infanti – da una prospettiva antropologica, e avvalorando l’intuizione delle origini onomatopeiche e monosillabiche del linguaggio articolato, Pennisi (1995) si è chiesto se l’ancoraggio del processo evolutivo del linguaggio allo sviluppo dell’apparato fonatorio non debba portare ad annoverare Vico fra coloro che hanno intuito un problema, quello del rapporto mente/corpo, di importanza centrale nell’evoluzionismo linguistico contemporaneo. Per una presentazione critica delle teorie sull’evoluzione del linguaggio cfr. sempre Pennisi (2003).

19 Sulla polemica contro i due autori delle più importanti grammatiche latine del Cinquecento cfr. Visconti (1974).

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attua» (1968: 43). Sempre secondo De Mauro, oltre a porre il linguaggio al centro della riflessione filosofica, con il suo storicismo linguistico – dal momento che «la lingua non trasmette, ma condiziona l’esperienza» (ibid.) – Vico mette anche in luce l’importanza decisiva nella vita del singolo individuo dell’apprendimento delle lingue. Così, nella lettera all’Estevan del 1729, ritornando sul tema del metodo di studio cartesiano, il filosofo napoletano difende la tradizione dello studio del greco e del latino per il fatto che «le lingue sono, per dir così, il veicolo onde si stransfonde in chi le appara lo spirito delle nazioni» (1990: 334). E sul piano più propriamente cognitivo, in un passo della prima edizione della Scienza Nuova – segnalato sempre da De Mauro (ibid.) – afferma il principio dell’attività linguistica come ‘palestra mentale’:

Ma i fanciulli che nascono in nazione che è già fornita di favella, eglino di sette anni al più si ritruovano aver già apparato un gran vocabolario, che, al destarsi d’ogni idea volgare, il corron prestamente tutto e ritruovano subbito la voce convenuta per comunicarla con altri, e ad ogni voce udita destano l’idea che a quella voce è attaccata: talché, in formare ogni orazione, essi usano una certa sintesi geometrica, con la quale scorron tutti gli elementi delle loro lingua, raccolgono quelli che lor bisognano e a un tratto gli uniscono; onde ogni una lingua è una gran scuola di far destre e spedite le menti umane. (1990: 1002-1003).

Le strette relazioni individuate da Vico tra lingua, cultura e società da un lato, e tra lingua, esperienza e cognizione dall’altro portano quindi a ravvisare nel suo pensiero un modello alternativo alla concezione strumentale del linguaggio20, modello che vede nel plurilinguismo un effetto naturale del processo della creazione linguistica. Per quanto riguarda la sfera individuale, il paradigma vichiano enfatizza

20 Secondo Coseriu (2010: 324), «Vico è il primo filosofo che non tratta il linguaggio come uno strumento. […] Se Vico pone la questione del linguaggio in modo autonomo, cioè senza fare riferimento ad altro, è perché vede nel linguaggio un oggetto autonomo». Assegnando al modello vichiano un valore paradigmatico, Lo Piparo (2004) ha distinto all’interno del pensiero linguistico occidentale un «paradigma biblico», secondo il quale un linguaggio unico preesiste alle diverse lingue storiche, che quindi vengono concepite come semplici strumenti comunicativi o rappresentazioni inadeguate di un universo semantico preesistente, da un paradigma «aristotelico-vichiano», per il quale le lingue sono il risultato di una perenne costruzione messa in atto dal genere umano per creare significati inediti, cioè per superare la condizione di ‘afasia’ che riaffiora di fronte a ogni nuova esperienza. Secondo Lo Piparo, l’accostamento fra Vico e Aristotele è reso possibile dall’attenzione posta da entrambi al linguaggio come parte costitutiva della specifica psico-somaticità dell’essere umano. Sulla riconsiderazione in tal senso del pensiero linguistico di Aristotele cfr. Lo Piparo (2003).

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i risvolti cognitivi dell’apprendimento linguistico, dal momento che, come Di Pietro (1976b) ha ben messo a fuoco, secondo Vico acquisire una lingua significa instaurare una nuova relazione segnica con il mondo.

Nel pensiero del filosofo napoletano, quindi, l’opposizione alla filosofia cartesiana si traduceva in una visione positiva del plurilinguismo, considerato da un lato come un dato storico-antropologico e dall’altro come un antidoto al nazionalismo culturale di cui Bouhours si era fatto portavoce.