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La diversità linguistica in Europa e in Italia

Giuseppe Baretti, Carlo Denina

3.2 Giuseppe Baretti

3.2.1 La diversità linguistica in Europa e in Italia

3.2.1 La diversità linguistica in Europa e in Italia

All’altezza del rientro temporaneo dall’Inghilterra si colloca la composizione delle

Lettere familiari (1762-63), resoconto in forma epistolare delle esperienze vissute

durante il viaggio di ritorno in patria passando attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia. Opera vivace, intessuta di spirito polemico e burlesco, che si discosta dagli anodini racconti dei viaggiatori aristocratici, le Lettere familiari contengono varie annotazioni sulla situazione linguistica dei paesi attraversati8.

Nella lettera da Falmouth del 23 agosto 1760, accingendosi a lasciare l’Inghilterra, Baretti si sofferma sulla vitalità delle lingue celtiche parlate in Gran Bretagna, ed osserva che in Cornovaglia fino a non molto tempo prima si parlava la «lingua cambra», lingua rimasta vitale solo nel Galles e nelle zone periferiche della

7 Sull’Account e sui suoi rapporti con la letteratura odeporica del Settecento si rimanda alla monografia di Bracchi (1998). Una traduzione in italiano corredata da un utile commento è stata curata da Matteo Ubezio (Baretti 2003). Per un quadro d’insieme sulla letteratura di viaggio in Italia si rimanda al volume curato da Clerici (2009) e al più recente contributo di Ricorda (2012).

8 Sul Baretti odeporico, oltre alla monografia di Bracchi (1998), si vedano i saggi di Anglani (1993; 1997), Guagnini (1993), Pagliero (2010: 39-59).

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Scozia. Alla lingua parlata in Scozia l’autore associa poi l’irlandese, lagnandosi per il fatto di non aver trovato nessuno che gli chiarisse «se la lingua irlandese e la cambra sieno originalmente e nelle lor prime sostanze la stessa cosa o no» (1839a: 28). Ma la curiosità linguistica di Baretti non si ferma qui. Subito dopo osserva che anche «in quella parte di Francia nominata Brettagna si parla dal popolo comunemente, non mica la lingua francese, ma un dialetto della prefata lingua cambra» (ibid.), accennando ai motivi storici che giustificano la presenza della lingua celtica in quel territorio.

Mentre la «lingua cambra» era parlata in tutta l’Inghilterra al tempo della conquista di Giulio Cesare, nell’intera Spagna – osserva Baretti – prima della romanizzazione si parlava la «lingua càntabra», che oggi è ancora parlata in «Biscaglia, Guipuscoa e in parte della Navarra», ossia nel territorio che per noi corrisponde al dominio del basco. A coloro che rivendicavano un’origine fenicia sia per il gaelico sia per il basco, Baretti tuttavia oppone la ‘prova del dizionario’: dal confronto fra il dizionario basco del Padre Larramendi e un dizionario non meglio specificato del gaelico9, l’autore infatti conclude che «non ho trovata in que’ due dizionari neppur una parola che avesse la minima somiglianza o la più insensibile analogia con un’altra parola dell’opposta lingua» (30).

L’attenzione alle lingue regionali della Gran Bretagna, della Francia e della Spagna funge da premessa alle osservazioni sulla diffusione dell’inglese, da cui prende le mosse una famosa comparazione con la situazione linguistica italiana:

In questo luogo di Falmouth, e in quel poco di questa provincia che ho attraversato, ho già parlato con molte persone, e quantunque lontano da Londra quasi trecento miglia, pure intendo benissimo tutto quello che questa gente dice, perché la lingua inglese non ha tanti dialetti quanti ne ha l’italiana; o per me’ dire, i dialetti della lingua inglese non variano tanto nella pronuncia quanto i nostri d’Italia. E questo avviene perché noi Italiani abbiamo poco commercio nazione con nazione, e stiamo volentieri tranquilli tutta la vita nostra in quel distretto in cui la Provvidenza ne ha fatti nascere; e gl’Inglesi all’incontro vanno e vengono incessantemente su e giù pel regno loro, quando possono; e ogni nativo dell’isola, se lo può

9 Per il basco si tratta del Diccionario trilingue del castellano, bascuense, y latin (1745) del gesuita Manuel Larramendi, mentre per quanto riguarda il gaelico con ogni probabilità Baretti si era servito dell’Antiquae linguae britannicae, nunc vulgo dictae cambro-britannicae, dictionarium

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fare, corre almeno una volta in vita sua a veder Londra; e moltissimi d’una provincia parlano assai sovente con moltissimi d’un'altra provincia; e la gente civile e ricca di tutto il regno si studia di parlare il principale elegante dialetto di Londra; e quattro o cinque mila nobili e doviziosi vengono una volta l’anno alla metropoli dalle vicine o lontane parti del regno, e seminano, dirò così, lungo la via la loro esatta pronuncia, che poi si va allargando intorno alle loro villereccie dimore; e da tutte queste e da molt’altre cagioni diriva questo effetto, che infinitamente minore è la differenza tra il linguaggio di Londra e quello di Falmouth, che non è, verbigrazia, la differenza tra il linguaggio d’Alessandria e quel di Novi, quantunque, come dissi, da Falmouth a Londra v’abbiano quasi trecento miglia, e da Alessandria a Novi non ve n’abbiano che dodici o quattordici. Questa molta uniformità, o vogliam dire poca differenza, s’estende in Inghilterra più là del parlare, ché molto uniforme o poco dissimile è il modo di vivere degli abitanti tutti di questo gran regno. (30-31)

Come già notato da De Mauro (1991: 16), in Baretti è chiara la comprensione del rapporto tra situazione linguistica e situazione economica, politica e culturale. La differenziazione dialettale della Penisola viene così rincondotta dallo scrittore piemontese al «poco commercio nazione con nazione»10, ossia alla mancanza di quel «moto complessivo delle menti» che Ascoli più di un secolo dopo avrebbe additato come una delle cause fondamentali della scarsa diffusione dell’italiano.

Per altro verso, se la conoscenza diretta della diffusione dell’inglese nelle varie regioni dell’isola britannica forniva nuovi strumenti per valutare la condizione dell’italiano, la stessa cosa non si può dire per quanto riguarda l’esame dei caratteri peculiari della situazione linguistica della Penisola. I dialetti italiani non erano e non sono infatti varietà della lingua letteraria assimilabili alle varietà diatopiche dell’inglese, come invece risulta dalla comparazione di Baretti, quanto piuttosto varietà romanze indipendenti di carattere regionale, la cui relazione sociolinguistica con l’italiano era ed è molto più affine a quella intercorrente tra le varietà del gaelico e l’inglese. Nella visione dello scrittore piemontese prevale quindi l’opinione tradizionale, risalente al dibattito rinascimentale, che viene affermata con convinzione nel trentesimo capitolo dell’Account, dedicato a una breve presentazione dei dialetti. Dopo aver sottolineato le gravi difficoltà di

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intercomprensione fra i parlanti provenienti da regioni diverse della Penisola, Baretti infatti afferma:

And yet all our various dialects are nothing else but inflections and modifications of the same language; nor are there many words in our dialects which cannot be derived from the Tuscan; nay, those few are considered in each respective place as mere transitory cant. (1768, II: 184)

Sostanzialmente diversa appare quindi la concezione di Baretti in merito al plurilinguismo italiano rispetto a quella di autori come Bettinelli, Carli e Parini, anche se va sottolineato il fatto che nell’Account il suo approccio alla questione si mantiene su un livello descrittivo, funzionale alla presentazione a un lettore straniero di una situazione linguistica peculiare. Nell’opera il carattere composito della situazione culturale italiana viene infatti sottolineato ripetutamente e presentato come una condizione specifica, difficile da comprendere da parte degli stranieri provenienti da paesi molto più omogenei come l’Inghilterra.

Il misconoscimento dell’identità storica dei dialetti italiani non dava per altro adito a uno svilimento né della loro funzione comunicativa né della tradizione letteraria vantata da alcuni di essi, in particolar modo nel caso del milanese, che Baretti aveva avuto modo di apprezzare attraverso le opere di Balestrieri, suo sodale durante il primo soggiorno a Milano. Come si può leggere nella presentazione critica del Discorso intorno alla nostra lingua, compreso nella

Prefazione a tutte l’opere di Niccolò Machiavelli (1772), oltre a sottolineare la

valenza comunicativa dei dialetti nella vita quotidiana, Baretti ne riconosce anche la dignità letteraria, seppur all’interno di una rigida gerarchia di generi:

Mi sia solamente lasciato soggiugnere che fu insolenza del Machiavelli, e insolenza procedente da una ignoranza soverchio stizzosa, quella di strapazzare sulla fine di questo suo Discorso tutti i dialetti d’Italia alla rinfusa, e di dare particolarmente al lombardo lo strano e oltraggioso titolo di «bestemmie di Lombardia». Se invece di correre a disprezzare i vari parlari della nostra penisola, egli si fosse un po’ sconciato ad esaminarne i diversi caratteri, io m’assicuro che si sarebbe facilmente convinto del loro essere egualmente buoni, ciascuno quanto il suo fiorentino, ad esprimere le faccende e le occorenze comuni delli uomini. È vero che nessuno d’essi, eccettuandone gli altri dialetti di Toscana e quel di Roma, è atto a

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sviluppare in iscritto concetti sublimi e poetici: contuttociò non ve n’ha pur uno che non abbia le sue grazie e che non sia buono quanto il fiorentino a esprimere in rima cose piacevoli e atte a far ridere le brigate; e moltissimi componimenti in versi vi sono in ciascuno d’essi, da far faccia a’ più be’ tratti del Pulci, del Berni e di qualsiasi altro umorista fiorentino. (1911: 196-197)