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Il progetto di riforma linguistico-culturale

il progetto linguistico-culturale e la sintesi storico-linguistica

3.1 Il progetto di riforma linguistico-culturale

All’interno della vastissima produzione muratoriana si possono tuttavia individuare alcuni momenti in cui la riflessione sul linguaggio occupa uno spazio privilegiato. La prima opera che va ricordata in tal senso è il famoso trattato Della

perfetta poesia italiana, già ultimato nel 1703, ma pubblicato solo nel 1706.

L’opera costituisce il momento forse più alto della polemica contro le critiche mosse da Bouhours alla tradizione poetica italiana, polemica capeggiata dall’Orsi, che però aveva steso le sue Considerazioni riprendendo molte idee muratoriane (Sorella 1981: 33). Alla base della composizione del trattato Della perfetta poesia troviamo infatti la difesa di Carlo Maria Maggi, poeta censurato dal Bouhours, frequentato da Muratori durante il suo soggiorno milanese, a cui l’erudito modenese aveva dedicato dopo la sua morte una commossa biografia (1700), additandolo a modello di una nuova poetica, fondata sul vero e capace perciò di superare le involuzioni barocche3.

Dopo aver argomentato contro il razionalismo estetico dei francesi, difendendo l’utilizzo del linguaggio metaforico come espressione degli affetti, che aveva caratterizzato la poesia italiana dal Petrarca al Tasso, Muratori affronta negli ultimi tre capitoli del suo trattato il problema linguistico, dal momento che, come afferma nell’introduzione al capitolo VIII del terzo libro, «alla perfezione della poesia concorre non poco, e suol essere di sommo ornamento il buon uso delle lingue» (1957: 111). Pur ragionando del linguaggio poetico, Muratori ha così modo di esporre analisi e giudizi sulla lingua italiana che vanno ben oltre le tematiche

2 Dopo l’apparizione dei saggi pionieristici di Monteverdi (1948) e Timpanaro (1969), delle idee linguistiche di Muratori si sono occupati Sorella (1981), Marazzini (1988a) e, a più riprese, Marri (1981; 1984; 1988; 1994). Sulla posizione di Muratori all’interno della storia del pensiero linguistico italiano si vedano i capitoli a lui dedicati in particolare da Vitale (1955; 1978), Puppo (1957), Marazzini (1989; 1993; 1999) e Gensini (1987; 1993).

3 Il giudizio apologetico verrà poi rivisto da Muratori, che recepì la critica di ‘eccessivo intellettualismo’ mossa da Maffei alla produzione poetica del Maggi (cfr. Isella 1984: 26-33).

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puramente letterarie, rivelando il suo afflato di intellettuale impegnato in una riforma epocale della cultura.

Dopo aver precisato che, sulla scorta di Dante e di coloro che sostenevano la tesi trissiniana dell’italiano comune, «tuttoché il volgar Linguaggio d’ogni Città d’Italia nomar si possa Italiano, pure propriamente per Linguaggio Italiano s’intende quel Gramaticale, che da i Letterati s’adopera, ed è comune a tutti gl’Italiani studiosi » (1770, II: 84)4, e dopo aver conseguentemente sostenuto l’importanza dello «studio della Gramatica, e de’ più purgati autori, non solamente per fuggire il biasimo di parlare, e scriver male; ma per ottener la gloria di scrivere, e parlar bene la Lingua nostra» (ibid.), Muratori riporta una trafila di ‘errori’ in cui incorrono i non toscani (ma non solo) quando vogliono servirsi della «lingua comune». A proposito della pronuncia, basandosi evidentemente sull’esperienza dell’italiano parlato in area settentrionale, l’autore confessa che

reca noja qualche Lombardo, che sul pergamo non sa pronunziare il C, dicendo in vece di certo, perciò, nocivo, pace; zerto, perziò, nozivo, paze; o chi poi pronunzia per C quei vocaboli, che s’han da pronunziare per CH, come Ciesa, Ciostro, Occi, Riciede, Ciave, in vece di Chiesa, Chiostro,

Occhi, Richiede, Chiave; ovvero pronunzia Ghiaccio, Ghiande, come se

fossero scritti Giaccio, Giande; o legge Trono, e simili, che hanno l’O largo, come se l’avessero stretto; ovver Costo, e simili, che hanno l’O stretto, come se l’avessero largo; o pronunzia Andàvamo, Portàvate, e simili persone plurali de’ verbi colla penultima breve, il che fanno molte Città d’Italia, in vece di pronunziarle colla penultima lunga, siccome fanno i migliori5; o pur legge le parole Rifiuto, Vita, Cosa, Andremo, Reca, Temo,

4 Il passo riportato e quelli successivi, in cui l’autore si sofferma sull’uso e sull’insegnamento della lingua italiana, non inclusi nelle antologie di Puppo (1957) e Falco-Forti (1964), vengono citati dall’edizione della Perfetta poesia contenente le annotazioni critiche di Anton Maria Salvini, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1723. Non sarà superfluo precisare che ogni qualvolta l’erudito modenese usa la locuzione lingua italiana oppure linguaggio comune d’Italia, il Salvini lo riprende ribadendo che con lingua italiana si deve intendere quella toscana, diventata comune d’Italia perché di essa «comunemente si sono serviti finora, e si servono gl’italiani» (Muratori 1770, II: 84, nota 2).

5 Nelle sue annotazioni critiche Salvini, a proposito dell’arretramento dell’accento nella pronuncia di

andavamo e portavate, dopo aver affermato la regolarità dell’esito etimologico da ibāmus (!) e portābatis ed aver chiamato in causa, a sostegno della regola ricordata da Muratori, l’autorità di

Dante, Inf. XX, 130, osserva che in realtà, per quanto riguarda la prima voce, l’uso, «che è il padrone, e’l maestro del favellare», ha fatto prevalere tra i toscani la pronuncia proparossitona. Il letterato fiorentino si trova così costretto ad ammettere che «So che s’avrebbe a dire Andavàmo, ma dico Andàvamo. E il simile fanno molte Città d’Italia, seguendo in questo il buon uso Toscano, che così pronunzia, Andàvamo, e non Andavàmo, che è di un suono vasto, o spiacente; e mosse per avventura da quella stessa ragione del miglior suono, che muover dovette i Toscani a mutare contro la regola, e a fare questo solecismo di pronunzia» (85-86, nota 5). In tal modo, senza rendersene

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Numi, Parentela, Querela, e simili, come se fossero scritti così: Rifiutto, Vitta, Cosa, Andremmo, Recca, Temmo, Nummi, Parentella, Querella, e

altri si fatti errori di pronunziazione. (85-87)

Muratori cita in seguito alcune forme verbali da evitarsi, come amarò,

amavo, amaressimo, usate nella lingua scritta al posto di amerò, amava e ameremmo, ma deve poi aggiungere «quantunque l’uso del primo abbia l’autorità

de’ senesi; l’altro paja tollerabile, perché fa schivar talora gli equivochi; e il terzo non si aborrisca da qualche letterato» (88)6. Anche la norma doveva quindi essere confrontata con l’uso, e ciò portava all’inevitabile ammissibilità di forme alternative.

Di fronte all’occorrenza di alcune deviazioni sintattiche, relative al sistema pronominale, Muratori appare però meno indulgente:

Molto men si vuol perdonare a chi parlando nel caso Dativo d’una femmina le dà l’articolo del maschio, come sarebbe il dire parlandosi di Roma:

Cesare gli tolse la libertà, in vece di dire le tolse. O parlando nel Dativo del

più, scrivere: Annibale sconfisse i Romani, e gli apportò infiniti danni, dovendosi dire: e loro apportò infiniti danni. O pure usare in caso Nominativo Lui, Lei, Loro, che solamente sono casi obliqui. (ibid.)

In questo caso, tuttavia, l’uso si sarebbe vendicato, facendo diventare normali, almeno nella lingua parlata, le forme che nel brano vengono considerate

conto, Salvini portava quindi un argomento a favore della tesi dell’italiano comune e della sua non coincidenza con il dialetto toscano.

6 Anche in questo caso sono molto interessanti le annotazioni di Salvini. Rispetto ad amarò, il letterato fiorentino ricorda che la forma si trova correntemente nel Varchi, a suo modo di vedere per la consapevolezza che l’autore aveva della formazione perifrastica da amare ho. A tal proposito, ricordiamo che fu Castelvetro il primo a proporre tale spiegazione della formazione del futuro, sostenendo, proprio contro l’opinione del Varchi, la non casualità di alcune modificazioni fonetiche nel passaggio dal latino all’italiano (cfr. Marazzini 1989: 36). Quanto invece alla voce della prima persona singolare dell’imperfetto amava, da preferirsi ad amavo, la cui uscita in -o si era diffusa nel fiorentino alla fine del Trecento per analogia con quella del presente e sarebbe poi prevalsa nella norma a partire da Manzoni (cfr. D’Achille 2003: 94; Wiberg 2011), Salvini ricorda che la forma in -a era ancora viva nel dialetto di Borgo San Sepolcro ed era normale nel toscano del Trecento, su cui «son fabricate le buone Gramatiche» (Muratori 1770, II: 87-88, nota 3). Sull’alternanza delle due uscite negli scrittori del Settecento si rimanda comunque al quadro disegnato da Patota (1987: 101-104). Infine, a proposito dell’uso di amaressimo per ameremmo, esso viene attribuito da Salvini alla confusione fra i tempi verbali in cui incorrevano i parlanti, anche fiorentini. L’unico modo per salvaguardare la «sì necessaria perfezione di nostra lingua» era quindi il ricorso alla lingua degli scrittori del Trecento (ibid.).

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devianti7. Al di là delle valutazioni dei singoli fenomeni – a cui va aggiunta l’ancor valida riprovazione di coloro che non usano gli articoli lo e gli davanti a parola che comincia per s seguita da consonante, e quindi dicono il scettro, i scrittori ecc. (ibid.) – è importante sottolineare l’attenzione di Muratori per l’uso della lingua.

Passando al lessico, l’autore biasima il ricorso ai forestierismi e ai dialettismi, per poi ampliare il raggio delle sue considerazioni all’importanza di quella che noi oggi chiameremmo educazione linguistica:

Alle orecchie degl’intendenti reca pur gran fastidio l’udir talora, che ne’ pubblici ragionamenti si adoperi qualunque parola, o frase vien sulla lingua del dicitore, punto non badando egli, se queste sieno Italiane, o pur pellegrine. E chiamo pellegrine tutte quelle, che dal consentimento de’ Letterati più riguardevoli non sono approvate, o per dir così canonizzate; siano esse o Greche, o Latine, o Franzesi, o Spagnuole, o pure ancor prese da i varj Dialetti della Lingua Italiana. Il vero Linguaggio d’Italia ha le sue locuzioni e i suoi vocaboli. Gran viltà, gran pigrizia è abbandonar le sue ricchezze, per usar le straniere. E suole per l’ordinario un tal difetto solamente osservarsi in chi pone tutto il suo studio nell’apprendere le Lingue forestiere, senza molto curarsi di saper la propria. Non si biasima già, anzi si reputa degno di gran lode, chi può posseder molti linguaggi; ma siccome senza disonore si può non imparare gli stranieri, così non si può senza vituperio ignorare il proprio. Quelli ci son d’ornamento; ma questo è a noi necessario. Laonde, mi sia lecito dire, che via maggior profitto si recherebbe al pubblico da chi ha cura in Italia di ammaestrar nelle Lettere la gioventù, se nell’insegnar la Lingua Latina si volesse, o sapesse nel medesimo tempo insegnar l’Italiana. Il lodevolissimo sì, ma troppo zelo d’instruire i giovani nel Linguaggio Latino giunge a segno di non permettere loro l’esercizio dell’Italiano, e di lasciarli uscir dalle pubbliche Scuole ignorantissimi della lor favella natia. Da ciò nasce un gravissimo danno, ed è, che poscia crescendo ne’ giovani l’età, e dandosi eglino allo studio delle Scienze, più non soffre loro il cuore di ritornare alla Gramatica, e di abbassarsi ad apprendere la Lingua. Proprio degli anni teneri è un sì fatto studio; e perciò dovrebbe con quel della Lingua Latina congiungersi l’altro dell’Italiana. Così appunto costumavano i Romani, facendo insegnare in un medesimo tempo a i lor figliuoli la Greca, e la Latina, come Quintiliano nel cap. 2 lib. 1 ed altri Autori fanno fede. E perché mai non può servarsi anche oggidì nelle pubbliche Scuole la stessa usanza? Insegnisi pure il Latino linguaggio, ma non si trascuri l’Italiano; affinché i

7 Sull’accoglimento nella norma di lui, lei, loro come soggetti cfr. il fondamentale studio di D’Achille (1990: 313-341)

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giovani per divenire dotti in una Lingua straniera, e morta, non sieno sempre barbari, e stranieri nella propria, e viva loro favella8. (89-90)

Dopo le note minuziose del grammatico, il brano ci offre quindi uno squarcio sull’ampiezza di vedute con cui Muratori si poneva di fronte ai fatti linguistici. Bisognerà chiarire, innanzitutto, che la netta ostilità nei confronti delle «parole pellegrine» si spiega con il motivo contingente della composizione della

Perfetta poesia, cioè la difesa della tradizione linguistico-letteraria italiana. Come

vedremo nelle due dissertazioni dedicate alla storia della lingua, al momento di considerare le mutazioni del latino indotte dal contatto con le lingue dei barbari, questo ‘patriottismo linguistico’ passerà in secondo piano di fronte all’evidenza dei fatti storici.

La cosa più importante da rilevare nel passo è in ogni modo la finalità delle osservazioni muratoriane. Nella visione riformatrice di Muratori, l’insegnamento dell’italiano accanto al latino riveste infatti un’importanza fondamentale per assicurare il «pubblico profitto». Per intendere la portata della proposta muratoriana, bisogna ricordare che fino alla metà del Settecento non solo nei collegi dei gesuiti, ma anche nelle scuole pubbliche, laddove esistevano, l’alfabetizzazione era incentrata sul latino, e trovava come unico strumento didattico il salterio, ad un tempo sillabario e libro di lettura, finalizzato alla memorizzare ed alla recitazione collettiva di testi di carattere religioso, più che all’apprendimento della lettura e della scrittura. Solo nella seconda metà del Settecento, sotto la spinta della cultura illuminista e della nuova attenzione posta all’istruzione pubblica, si diffonde l’abecedario, in cui viene fatto spazio all’apprendimento della lettura in italiano, oltre che in latino (Del Negro 1984)9. La proposta didattica di Muratori era quindi molto in anticipo sui tempi, e fa il paio con la raccomandazione di utilizzare l’italiano «in qualunque materia, e in trattar quasi tutte le scienze» (1964: 166).

8 La conclusione riprende alla lettera un passo di un’orazione del Varchi, citata in precedenza da Muratori, in cui il letterato del Cinquecento, molto significativamente, consigliava agli stessi fiorentini di dedicarsi allo studio della loro lingua, per il fatto che «gli strani, i quali siccome in maggiore stima la tengono, e assai più conto ne fanno di noi medesimi, così vi spendono intorno molto più tempo e fatica, non pure la scrivono meglio, ma ancora (vagliami il vero) più correttamente la favellano, che noi stessi non facciamo» (Muratori 1957: 114).

9 Sulla situazione dell’educazione scolastica nell’Italia del Settecento cfr. anche Matarrese (1993: 21-40), De Blasi (1993: 397-403), Genovesi (2010: 13-27).

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Nonostante sia stata giustamente sottolineata la modernità degli appelli muratoriani a favore dell’insegnamento dell’italiano (cfr. Sorella 1981: 42-43), è tuttavia interessante notare come il passo citato riveli una propensione a un tipo di apprendimento che noi oggi definiremmo ‘bilingue’. Per Muratori, infatti, non si trattava solo di inserire lo studio del volgare moderno accanto al tradizionale latino, quanto piuttosto di integrare le tradizioni culturali e gli usi comunicativi delle due lingue.

Se nella situazione italiana della prima metà del Settecento l’idea dell’apprendimento precoce delle due lingue «al medesimo tempo» è sicuramente degna di nota, non si può tuttavia passare sotto silenzio la criticità del concetto di

lingua italiana intesa come lingua «propria», così come sostenuto da Muratori. Essa

era infatti tale solo per i letterati, e il suo uso era comunque per lo più limitato all’attività intellettuale. In fondo, pur tirando l’acqua al suo mulino, aveva ben ragione il Salvini ad osservare che «ognuno parla il suo proprio Dialetto, e questo

parlare Italiano è più ideale e fattizio per avventura, che reale e sussistente»

(Muratori 1770, II: 75). La lingua della comunicazione quotidiana era infatti il dialetto locale, al quale Muratori, almeno all’altezza della Perfetta poesia, non presta molta attenzione. In un’importante lettera del 1 agosto 1704, ringraziando il Salvini per le osservazioni sulla bozza del suo trattato, l’erudito modenese, ribadendo le sue posizioni, si lasciava andare ad alcune interessanti considerazioni sul rapporto fra italiano e dialetto:

Se avrò detto che il buon toscano è quello che s’accosta al migliore italiano, mi corregerò; ma credo d’aver detto che il dialetto toscano è quello che s’accosta più degli altri dialetti d’Italia alla vera lingua italiana, cioè a quella lingua grammaticale che s’usa per tutta l’Italia ed è la vera lingua secondo Dante; mentre niuno ordinariamente scrive, se non per ridere, nel suo puro dialetto, e ciò viene ancora nel toscano, quantunque il migliore di tutti gli altri dialetti. Altro in ciò era l’uso de’ Greci. Scrivevano nel dialetto loro particolare, o pure mischiavano alla lingua commune qualche cosa del dialetto loro: il che noi non facciamo nel primo modo, o facendo nel secondo non proviamo che il dialetto puro sia la vera lingua italiana. (1964: 1818)

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Con la consueta chiarezza, Muratori distingue quindi i concetti di lingua comune e di dialetto in uso nella tradizione italiana da quelli propri della Grecia antica. Nella concezione muratoriana, erede di quella umanistico-rinascimentale, analizzata magistralmente da Alinei (1984), all’antica relazione di reciprocità fra koinè e dialetto si sostituiva l’idea di un rapporto gerarchico, che riduceva il dialetto a un ruolo accessorio, essendo concepito, in sostanza, come una varietà locale della lingua comune. Per intendere le conseguenze di quest’idea all’interno del progetto di riforma culturale di Muratori è utile ritornare alla biografia del Maggi, poeta che oggi viene ricordato soprattutto come capostipite della letteratura dialettale lombarda (Isella 1984; Stussi 1993: 35-36), autore di liriche e di commedie in milanese. Dopo aver affermato, a proposito di queste ultime, «che superano in qualche guisa le più rinomate eziandio degli antichi», Muratori infatti così esprime le sue riserve sulla loro pubblicabilità:

Ma allo stesso tempo mi condolgo col rimanente della nostra Italia, a cui è stato tolto l’uso, e l’intelligenza di questi nobilissimi parti, perché gli manca il necessario mezzo della Favella Milanese. È questo un di que’ tesori, le cui vene preziose non possono minutamente scoprirsi, che da ben pratici della Contrada. Questa considerazione finora non mi ha permesso il determinare, se deggiano pur pubblicarsi queste Operette, pesando io troppo il pericolo, a cui s’esporrebbono, di non parere così riguardevoli agli stranieri, come giustamente da’ nostri si stimano. Il tempo, e il consiglio de’ più saggi amici decideran questo dubbio10. (1757: 55-56)

Certamente, l’argomento dell’incomprensione da parte di coloro che non erano «ben pratici della Contrada» appare di per sé non del tutto convincente, dal momento che almeno per un parlante dell’Italia settentrionale il milanese doveva risultare più comprensibile dello stesso toscano. Inutile dire che, per prossimità areale, la comprensione doveva essere ancor più immediata per un modenese come Muratori. In ogni modo, al di là di queste osservazioni, le opere del Maggi avrebbero visto la luce a Milano, per i tipi di Malatesta, per cui tale problema non avrebbe dovuto assumere il «peso» che Muratori gli attribuisce. Anche la

10 Nella sua edizione delle Rime del Maggi, stampata da Malatesta in quattro tomi (1700), Muratori incluse solamente testi in italiano. Le Commedie e le rime milanesi del Maggi vennero invece pubblicate a più riprese a Milano, sempre da Malatesta, e a Venezia fra il 1701 e il 1711 (cfr. Isella 1994: xxvii).

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considerazione di Isella che, sottolineando il presunto rammarico di Muratori, attribuisce quella che appare come una vera e propria scelta editoriale alla «fine del soggiorno a Milano e l’affrettato rientro a Modena» (1964: 6), non sembra cogliere nel segno, soprattutto nel caso di un autore così prolifico come il nostro. Le riserve manifestate nel passo dovevano quindi far capo a un altro ordine di considerazioni. Evidentemente, la dimensione municipale del dialetto e il suo vincolo con la tradizione comica andavano a collidere con l’idea più generale del pubblico profitto, idea che stava alla base del sostegno muratoriano alla lingua comune11. Attorno alla lingua comune bisognava invece serrare le fila, e reagire agli attacchi di Bouhours, dal momento che, non dimentichiamolo, per denigrare la tradizione italiana il letterato francese aveva chiamato in causa proprio la poesia del Maggi. Quando si trattava di affilare le armi per difendere il prestigio della cultura italiana, il dialetto non poteva quindi essere d’aiuto.

L’idea muratoriana dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole si associava inoltre a una nuova concezione della cultura, considerata in rapporto al progresso della società, e non solo come un’attività erudita o, peggio ancora, come uno sterile esercizio retorico. A tal proposito non vanno infatti dimenticate le critiche mosse dal letterato modenese nei confronti delle Accademie, critiche contenute nei Primi

disegni della Repubblica letteraria d’Italia, apparsi a Napoli nel 1703 sotto lo

pseudonimo di Lamindo Pritanio. Muovendo dalla considerazione che nelle Accademie ci si dedica per lo più a far «versi e poi versi», nel trattato Muratori afferma vigorosamente che «le brameremmo non solamente dilettevoli alle orecchie, ma utili ancora agli ingegni, sì di chi parla, come di chi ascolta» (1964: 179). Subordinando la loro azione al criterio della pubblica utilità, nella riforma proposta da Lamindo Pritanio le numerosissime Accademie sparse in tutta Italia avrebbero dovuto collegarsi fra di loro, formando