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EDIFICIO PER UFFICI A BERGAMO *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 173-177)

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Alberto Manfredini

che concordarne, anche se fu tra i massimi esponenti del razionalismo storico italiano, fu certamente schivo sia nel- l’autopubblicizzarsi che nel farsi pubblicizzare. È un po’ la sensibilità ligure, caratteristica tipica di Dasso, che ha l’ari- stocratica coscienza e l’anglosassone riservatezza del pro- prio implicito valore. la seconda considerazione connessa con l’esame del progetto, riguarda il problema del recupe- ro edilizio che del resto ha già in altre occasioni visto dasso uscirne egregiamente. non si può non ripensare al recupero e al riuso di un edificio esistente, nel cuore del suo intervento direzionale del centro dei liguri  a genova,

misurato e calibrato in un difficile chiasmo complessivo e tale da riuscire perfettamente nello scopo prefissato. Quel- lo di costituire una “cerniera” vera e propria tra l’interven- to terziario già realizzato, a monte del ponte di Carignano, e quello a valle, in corso di realizzazione, che rappresenta per Dasso una difficile sfida a sé stesso. Nel senso che gli sarà senza dubbio difficile riuscire a riproporre, senza ripe- tersi e autocitarsi, un’organizzazione spaziale equilibrata e armonica come quella già realizzata. Negli uffici Cattaneo di Bergamo il discorso è ovviamente diverso. È diverso perché a Genova, nel centro dei liguri, si è di fronte a un vero e proprio sistema urbano esemplarmente integrato alla città, con un forte peso e un altrettanto deciso impatto su una realtà metropolitana. A Bergamo si è di fronte a un oggetto architettonico che giustamente prescinde da una preesistenza territoriale, una zona industriale, scialba e caotica, attributo ricorrente nel contesto periferico italiano. Cionondimeno, fatte le opportune differenze di scala e di impegno progettuale, si deve riconoscere come il tema non fosse dei più facili. Si trattava di prevedere un nuovo corpo per gli uffici all’interno di un lotto su cui preesistevano i magazzeni generali della società caratterizzati da una tipo- logia insignificante e irrilevante. Preoccupazione del pro- gettista, o meglio attenzione progettuale primaria, è proprio stata quella della ricerca di una integrazione nei confronti dell’esistente in modo da poter raggiungere una omogenei- tà complessiva. La progettazione del nuovo corpo per gli uffici e la riorganizzazione distributiva complessiva dei magazzeni esistenti si è articolata perseguendo questo sco- po. La scala circolare in calcestruzzo (percorso verticale privilegiato all’interno di tale organismo ed elemento di forte caratterizzazione architettonica all’esterno), l’interes-

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sante corte interna, la particolare soluzione conferita ai fronti di tale corte taluni terrazzati, la chiara organizzazio- ne distributiva e la rigorosa geometria dei prospetti appaio- no in tutta la loro evidenza. alcuni elementi, quali l’uso particolare di superfici in calcestruzzo a vista opportuna- mente trattato e di ampie superfici vetrate, che potrebbero in prima approssimazione anche parere troppe, consentono di affrontare il terzo aspetto legato alla presentazione di questo progetto. Ci si potrebbe ragionevolmente porre la domanda di quale contesto culturale si sia servito l’autore per formulare tale progetto, o ci si potrebbe chiedere quale collocazione potrebbe avere la sua opera nell’ambito del- l’architettura contemporanea. Per offrire una risposta ragio- nevole si dovrebbe partire da lontano. Si dovrebbe fare prima la storia e poi la cronaca dell’architettura moderna, e non solo di quella italiana. Ci si dovrebbe poi soffermare sulla severa critica, sia sul piano pratico che su quello teo- retico, al “movimento moderno” della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70 e si dovrebbero ricordare, tra gli altri, Blake e Jencks. Così come si dovrebbe rammentare la di- fesa a oltranza dell’architettura moderna a opera prevalen- te di Zevi. Ciò non è possibile; possibile è invece tentare di rilevare, evidenziandole, le diverse istanze e le variegate motivazioni che erano alla base delle architetture del “mo- vimento moderno” e quelle che sono ora alla base delle architetture del cosiddetto “neomoderno”, basandosi sulla convinzione che si deve pure essere certi, anche se a dispet- to di molti critici, che il “moderno” che oggi pare ripropor- si in realtà non cedette mai. Un esempio in tal senso: l’opera dei New York Five. Il “moderno” di oggi presenta molte affinità con il “moderno” di ieri. Anzi, lo si può in- terpretare come la naturale evoluzione di quel “movimento moderno” da cui si discosta necessariamente sotto il profi- lo storico e ideologico. Questa differenza è più che natura- le ed evidente che ci sia. La civiltà delle macchine che aveva costituito una delle certezze del moderno aveva ce- duto alla civiltà dell’elettronica ma soprattutto era ed è andata completamente estinguendosi la grande forza mo- rale e rivoluzionaria dell’architettura moderna perché erano venuti meno i presupposti che l’avevano prodotta. ma il “moderno” ha continuato e continua a essere il riferimento principale della cultura architettonica contemporanea perché si è sempre adeguato alle diverse condizioni storiche. se il

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moderno di ieri aveva delle giustificazioni profonde, so- stanziali ed etiche, ed era stimolato a operare alla radice delle cose, il moderno di oggi, pur partendo da motivazio- ni analoghe, richiede giustificazioni più semplici ed epider- miche perché si rivolge più alla superficie dei problemi ed è per vocazione stimolato a operare più sul piano degli aspetti formali. Di qui il ritorno e la riproposizione di gran- di superfici vetrate, di finestre a nastro del tutto particolari e di tutti quegli elementi tipici del “movimento moderno”, a seguito però di motivazioni diverse. l’ultima opera di dasso è sicuramente moderna, secondo quest’ultima acce- zione. in tal senso non so sino a che punto si possa condi- videre la convinzione del progettista che dice, a proposito di questo progetto, di essersi voluto rifare “al primo razio- nalismo usando tutti gli stilemi possibili per uscirne”. Quest’ultima sua realizzazione, esemplare e “morale” come tutta la sua opera, può sollecitare nel riportare l’attenzione sui problemi più autentici dell’architettura, in un momento in cui troppo sovente paiono essere disattesi e fraintesi.

note

* “l’architettura: cronache e storia”, n. 3, marzo 987, pp. 78 e ss. 1. cfr.: “L’Architettura: cronache e storia”, n. 334-335, pp. 570 e ss.

Questioni di progettazione architettonica

Il concorso per il nuovo centro direzionale di Tokyo vinto da Kenzo Tange and Associates e pubblicato su “The Japan Architect” del giugno ’86 è stato recentemente definito come “un brillante lavoro professionale che non fa avanzare di un passo la riflessione architettonica” . si deve riconoscere

come sia estremamente difficile tentare di offrire, sempre e comunque, al dibattito architettonico contemporaneo, spunti efficaci per una sua migliore definizione. Al di là della com- plessità dei temi specifici e oltre le complicazioni connesse con l’impatto spesso esistente tra la nuova struttura di pre- visione e il sistema ambientale che la dovrà ricevere, si può ritenere come, in mancanza di certezze vere o quanto meno di valide alternative, potrebbe essere più opportuno e pru- dente, anche ai fini di un’architettura meglio “rispondente”, nell’accezione usata di recente da Peter Blundell Jones , alle

tematiche della nostra epoca, ripercorrere strade già speri- mentate, anche con tutti i rischi e i limiti che scelte di questo tipo necessariamente comportano. Possedere certezze vere, se non per il futuro almeno per il presente dell’architettura, è sicuramente non facile come difficile è possedere valide alternative nei confronti di un prodotto architettonico che si è tentati di ritenere, per certi aspetti, obsoleto. Ma cos’è che rende obsoleto un metodo compositivo o che consente con sicurezza di decretare la maggiore o minore rispondenza di un’architettura alla propria epoca e al contesto specifico o meglio ancora quali sono gli elementi che consentono di privilegiare, e non solo sotto il profilo critico, certe archi- tetture piuttosto di altre? Ma soprattutto come pretendere che un’architettura debba sempre porsi come punto di rife- rimento? È vero che si parla di decadenza dell’architettura, ma è altrettanto vero che da forse troppo tempo gli editoriali delle più importanti riviste del disciplinare dal dopoguerra

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