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IL CENTRO DIREzIONALE DI GENOVA *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 127-131)

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Alberto Manfredini

lo stesso periodo. non si può ignorare come questo inter- vento veda la luce quando nell’ormai totalità dei centri storici qualsiasi intervento sul tessuto urbano si attui trami- te operazioni di styling nel migliore dei casi, e, nel peggio- re, attraverso la ricostruzione in stile, contrabbandata per restauro, secondo l’adozione di una metodologia progettua- le derivata da una sterile e amorfa, quanto inutile, analisi tipologica sulla scia della moda configurata nell’ormai stereotipata allegoria della “via bolognese”. Nel piano di “madre di dio” ogni processo di cosmesi è stato voluta- mente rifiutato, conseguendo definitivamente il superamen- to di quegli atteggiamenti rinunciatari e nostalgici, arrogan- ti e ignoranti a un tempo, presuntuosamente e pretestuosa- mente offensivi, dunque reazionari, che vorrebbero antide- mocraticamente negare all’architetto di oggi e alla sua committenza la libertà di misurarsi e confrontarsi con chi, nel tempo, li ha preceduti. ma soprattutto negando il dirit- to alla critica inevitabilmente connesso con ogni manipo- lazione dello spazio fisico e a cui nessun progettista inten- de sottrarsi. non solo il dialogo con le preesistenze archi- tettoniche è attuato e risolto magistralmente: sia con quelle più antiche (la bramantesca S.Maria in Carignano di Ga- leazzo Alessi), che con le contemporanee (la parte del centro direzionale di Albini e Helg, e la sistemazione a verde con la ricostruzione dei lavatoi del Barabino di Igna- zio Gardella), e con le meno recenti (la torre di Marcello Piacentini). Ma è il rapporto con le preesistenze urbanisti- che, ossia il rapporto sottile tra il comparto di “madre di Dio” e il resto della città di Genova ad affascinare partico- larmente. Ci si è infatti serviti di questo comparto, incredi- bilmente degradato e fatiscente, per riequilibrare il contra- sto semantico, fisico e spaziale, tra la città antica e i suoi accrescimenti della fine del XIX e degli inizi del XX seco- lo, tramite la progettazione di un vero e proprio tessuto connettivo disarticolato in una parte meccanizzata, di col- legamento tra la circonvallazione del porto e il centro, e in una pedonale, del tutto indipendente, di prolungamento e proseguimento, oltre via XX Settembre, del percorso pedo- nale connesso con il sistema terziario di Piccapietra. da piazza Dante il percorso pedonale principale lambisce il grattacielo di Piacentini, venendo risucchiato dal cono d’ombra alla base degli edifici di Albini e Dasso per poi disarticolarsi, nel complesso di dasso, in una serie sugge-

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stiva di percorsi su diversi livelli, ad andamento prevalen- temente parallelo a via Fieschi, ma a questa strettamente legata così come al verde delimitato dalle vecchie mura (creando in tal senso oltre alla serie di percorsi principali, un complesso secondario ad anelli pedonali a essa intima- mente cuciti). Dopo avere inglobato un edificio di vetro che contesta volutamente e involontariamente a un tempo (si tratta di un recupero edilizio), lo schema compositivo delle masse e dei volumi, e che si pone come cerniera tra l’inter- vento realizzato e il completamento in fase di realizzazione oltre il ponte di carignano, i percorsi si disarticolano nuo- vamente per giungere quasi sino al corso Saffi “unendo” in tal modo il porto a Piccapietra e innescando quella vita di relazione tanto necessaria per la codificazione di quel- l’“effetto città” così indispensabile per ricucire delle parti del cuore di genova ancora estranee le une alle altre, e per garantire la riappropriazione, in quel comparto, delle fun- zioni civiche e di quelle pubbliche. Se la progettazione e l’invenzione del percorso è stata importante, la scelta pro- gettuale dei tipi architettonici, il rigore compositivo e il dettaglio ineccepibile hanno contribuito a rendere la con- dizione oltreché necessaria, sufficiente. In questa operazio- ne Dasso, conscio che la qualità del prodotto architettonico non dipende in modo alcuno dalla quantità ma è in stretto rapporto soltanto con un valore di relazione, la proporzione, mai una volta sola cede all’edonismo di una forma “giù di scala”, riuscendo sempre a ricondurre alla “scala umana” le grandi masse che inevitabilmente si trova a dover mani- polare. In questo senso riesce perfettamente a conseguire un equilibrio architettonico “classico”, tramite la misura- zione dello spazio a opera di una rigida griglia modulare all’interno della quale riesce a far assumere a ogni elemen- to compositivo una forte caratterizzazione spaziale in rela- zione al suo valore prospettico, al suo ruolo sintattico, ma soprattutto in relazione alla sua posizione nel contesto. È proprio da questo classico modo di operare all’interno dello spazio fisico che scaturisce la “concinnitas di tutti i membri, nell’unità di cui fanno parte, fondata su una legge precisa, in modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio”. Se a un’analisi spicciola o superficiale il progetto di Dasso parrebbe ancora legato al “movimento moderno” in generale o, in particolare al neoempirismo inglese, a un approfondimento successivo,

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la sua attività si manifesta attraverso un’altra dimensione. La nuova sensibilità urbanistica con l’integrazione al resto della città, unita alla diversa sensibilità progettuale che sa recuperare alla giusta misura pure episodi “monumentali”, attraverso un rigido controllo della spazialità prospettica, sottolineano, seppure non violentemente, non tanto il rifiu- to di una continuità, quanto un tentativo felice per porsi come “alternativa qualitativa” a un passato troppo sovente frainteso. Questa opera ha pertanto un duplice merito: pri- ma di tutto mostrare come alla qualità di un’architettura contemporanea si possa pervenire senza ricorrere agli “ar- chi” e alle “colonne”, e poi il non volersi assolutamente porre (a differenza di chi avrebbe voluto imporre dogmati- camente metodi urbanistici a torto ritenuti esportabili a realtà tra loro diverse, con interventi frammentari, che perdono completamente di vista l’immagine complessiva della città) come modello, come invece è stato per altre esperienze regionali italiane, tanto costose e ambigue, quanto pubblicizzate, ma come esperienza in divenire per chi la voglia recepire senza fraintendimenti.

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non si può ignorare la recentissima scomparsa di Richard Buckminster Fuller né tantomeno può essere sot- taciuto il suo contributo all’architettura e, in particolare, alla industrializzazione dell’edilizia. certamente assieme a Konrad Wachsmann e in certo senso anche a Robert Le Ricolais ha contribuito in maniera univoca e determinante a quella Wendepunkt im Bauen che ha determinato un salto qualitativo nel “divenire” dell’architettura moderna. se con il secondo ha in comune oltre alla grande modestia la voca- zione per la ricerca strutturale e l’amore per le scienze umane, è con il primo che può essere più facilmente rapportato. Pur partendo da considerazioni analoghe di base, pervengono entrambi a soluzioni tecnologico-architettoniche formalmente e sostanzialmente diverse anche e soprattutto sotto il profilo del controllo e della misurabilità della qualità dello spazio fisico. Per entrambi il problema dell’industrializzazione edilizia è prima di tutto problema di metodo e di controllo rigoroso della quantità attraverso l’alto livello qualitativo dei componenti. lo studio accurato dei giunti, delle diverse possibilità di connessione piana e spaziale degli elementi, hanno avuto un peso rilevante nello sviluppo delle tecnolo- gie costruttive e nella storia dell’architettura, e costituiscono tuttora il supporto indispensabile per chi voglia affrontare i temi dell’industrializzazione partendo da presupposti seri anziché pretestuosi. se in questo contesto Wachsmann ha operato cercando di definire un’architettura che tendesse a identificarsi con lo spazio fisico per essere essa stessa spazio (nei suoi progetti e nelle sue realizzazioni non ha alcun senso cercare di discernere tra spazio esterno e spazio interno), in Fuller la sensibilità spaziale è senz’altro molto più affinata. In ogni sua opera (dalla Dymaxion House alle celeberrime cupole geodetiche) la gerarchia spaziale è assai

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