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LA CRISI DELL’HABITAT CONTEMPORANEO *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 58-62)

Alberto Manfredini

rale, basato su una industrializzazione svincolata dai criteri ricorrenti di dipendenza dalla ubicazione delle fonti di appro- vigionamento delle risorse naturali, e fortemente differenziata a seconda delle caratterizzazioni intrinseche di ciascuna realtà nazionale. Dove il fenomeno dell’urbanizzazione è più recen- te (paesi del terzo mondo) e si è ancora in assenza quasi com- pleta di sviluppo industriale, lo sviluppo delle città avviene quasi sempre sugli schemi di crescita delle metropoli dell’ot- tocento industriale; vale a dire o in funzione del potenziamen- to delle funzioni direzionali, o a seguito del modello insedia- tivo dell’autocostruzione (favelas e barriadas del “quarto” mondo). Gli insediamenti umani, a qualsiasi “blocco” ap- partengano, sono oggi in una reale crisi di crescita dovuta prevalentemente alla diversità delle situazioni socio econo- miche e ambientali loro proprie. Tali problemi possono essere brutalmente schematizzati in un’eccessiva concen- trazione edilizia nei paesi industrializzati con il deteriora- mento dell’ambiente naturale, e dall’altro, per i paesi in via di sviluppo, in una forse eccessiva dispersione degli inse- diamenti. il tutto sottolineato dallo spreco di risorse e dalla incapacità oggettiva a colmare il divario esistente tra doman- da di beni sociali e possibilità di soddisfarla. In Italia i pro- blemi dell’habitat e del sistema insediativo in generale presentano numerose affinità con quelli di gran parte dei paesi industrializzati, anche se caratterizzati da diverse si- tuazioni dovute prevalentemente all’accelerata industria- lizzazione del dopoguerra (con la concentrazione del pro- cesso di urbanizzazione in un lasso di tempo assai più breve che in altri paesi industrializzati), e al sistema fisico- territoriale ed economico assai fragile caratterizzato da un dipolo (aree deboli e aree forti) assai enfatizzato sia a livel- lo nazionale (tra il nord e il sud del paese) che a livello locale (tra montagna pianura e ancora tra pianura e bassa pianura), il tutto unito all’oggettiva e relativa carenza di risorse. tuttavia l’italia appartiene da qualche tempo alla categoria dei paesi “più industrializzati del mondo” e que- sto è avvenuto in un periodo di tempo ristretto. in meno di vent’anni, tra la fine della seconda guerra mondiale e il cosiddetto “boom economico” degli anni ’60. Questa cre- scita, forse troppo rapida, ha determinato l’enfatizzazione, unita a un aggravamento quantitativo di certi fenomeni quali il degrado ambientale, la carenza di servizi ma soprat- tutto, ciò che è più deleterio, la creazione di certi feticci (il

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Questioni di progettazione architettonica

tema usato e abusato sull’uso, il riuso, la riconversione, ecc. dei centri storici, con le sterili polemiche a essi connessi è solo uno tra i moltissimi esempi). Condizioni economiche, politiche, sociali, ecc. hanno quasi ineluttabilmente privato le periferie delle città italiane di tutti quei requisiti che le connotavano e le qualificavano come parte di un tutto, come parte integrante di una città di cui avrebbero dovuto rap- presentare una corretta e qualificata espansione. Ma la fretta, talvolta la malafede, e troppo spesso l’ignoranza e l’incompetenza progettuale, hanno privato le città dei cen- tri di vita comune che sempre le hanno caratterizzate e che presto dovranno tornare a caratterizzarle: dalla piccola piazza della più modesta comunità montana ai luoghi di incontro di livello internazionale (piazza Colonna a Roma, la Galleria di Milano, Trafalgar Square a Londra, i cafés

boulevards della Parigi di ieri e il Beaubourg della Parigi

di oggi, ecc.). La conseguenza immediata è la presenza di centri antichi degradati, spopolati, privi di vita sociale cui vanno associate periferie amorfe, indifferenziate e ghettiz- zate (nel senso di separate fisicamente e socialmente dalla città dei cittadini). Ci si dovrebbe ora chiedere quale sia il diretto animatore della funzione urbana della “città” o di una sua parte (centro storico o estrema o immediata perife- ria). Sarà proprio grazie a questa individuazione, a questa ricerca strettamente interrelata alle realtà oggettive attuali, che probabilmente dovrebbe scaturire se non la tipologia alternativa almeno gli elementi informatori e caratterizzan- ti che possano contribuire a definirla compiutamente. La città di sempre, quella di ieri così come quella di oggi e di domani, è tale perché l’uomo, con tutti i suoi atti, le sue manifestazioni, le sue espressioni, vivendola, la rende tale. È dalla presenza contemporanea di più comunità che si attua, in termini sociali, fisici e architettonici, l’effetto città. E una comunità abita la città o un suo quartiere (e tanti quartieri fanno le città) solo se uno stimolo positivo la spinge a una sua permanenza. Sia esso economico (certa- mente lo è nel maggiore dei casi) o di altra natura, finché ci sarà lo stimolo, l’occasione a restare in un luogo, la città intesa come spazio fisico edificato vive e vivrà. E dire che una città vive vuol dire anche vederla percorsa continua- mente dalla gente che la abita. Quando la gente non vive più la città si hanno, nel migliore dei casi, le “città del si- lenzio”. Ma quante città del silenzio esistono oggi; ed esi-

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stono anche perché la lotta quotidiana per la vita (indipen- dentemente dal tipo di attività svolta) assume dei ritmi biologici tali per cui ne deriva una utilizzazione del tempo libero tutta particolare. Nelle strade, nei negozi, allo shop-

ping? Certamente no. Il più delle volte è la “casa” l’unica

occasione d’incontro con un “io” troppo sovente trascurato, l’unica garanzia di quella interiorità purtroppo perduta nella più parte dei casi. Così accade che la gente non viva più la città ma le case, che è poi un modo come un altro di vivere la città, anche se forse non il più giusto, perché di- mostrazione di incapacità a ritrovare sé stessi nel rapporto con gli altri. I centri sociali hanno perduto la loro capacità di aggregazione. “non trovi in giro più nessuno e quando lo incontri non sai che cosa dirgli. Quello dell’incapacità a comunicare è un dato importante. non più civic center ma

night con il volume quasi insostenibile e con gli effetti luce

e suono ipnotizzanti che eliminano ogni problema. È scon- tato che lì non si parla perché non si può. Dopo molti anni passati all’insegna della discussione e dell’impegno, il night pare oggi un’ottima soluzione. ma quale soluzione!”. ur- banisti, politici e architetti non sono solo la causa ma anche l’effetto di questo stato di cose. Hanno forse contribuito all’accentuazione di certi fattori negativi, entropici, ma sono poi stati essi stessi vittime della teoria e della prassi in cui, con buona o mala fede, avevano creduto. Cose superflue e scontate, in apparenza, ma si correrebbe il rischio di viver- le in modo ancor peggiore, queste banalità, un giorno neppur troppo lontano se non si farà di tutto per invertire al più presto la tendenza attuale che pare continuare a per- seguire obiettivi privi di contenuto e, ormai, anche di for-

note

* “Parametro”, n. 91, novembre 1980, pp. 55 e ss.

1. cfr. Habitat: conferenza delle Nazioni Unite sugli Insediamenti Umani, Van- couver, 979.

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Questioni di progettazione architettonica

Nell’emblematico stato in cui versa oggi la cultura architettonica (divisa tra l’esigenza necessaria di rompere inequivocabilmente con il proprio passato e tra la tentazione di estrapolare da esso quei princìpi permanenti e universali per impostare il proprio futuro), vale la pena di puntualizzare alcuni concetti che nell’ultimo decennio sono venuti alla ribalta, non tanto per il fatto di racchiudere in sé particolari novità quanto per l’interesse diffuso a ogni livello. Ci si riferisce ai concetti di “rinnovo”, “restauro”, “riabilita- zione”, “riconversione” e “riuso” dei quartieri urbani o extraurbani, di parti di essi o, assai più semplicemente, di un singolo manufatto architettonico. È dal progetto di re- cupero a funzioni residenziali dell’antico opificio Le Blan nel quartiere moulins a lilla, tipico di riuso di una pree- sistenza edilizia, che si cercherà di affrontare un discorso di carattere generale. il tema era quello di recuperare un fatiscente contenitore industriale (un vecchio opificio) per destinarlo a nuove funzioni (residenziali) o, quanto meno, a funzioni diverse da quelle per cui era stato concepito (i cicli produttivi dell’industria). Una tipica operazione che, nella logica operativa, urbanistica ed edilizia degli anni ’50 e ’60 si sarebbe potuta concretizzare attraverso una sostituzione, tramite demolizione, del vecchio edificio con uno nuovo. Il motivo per cui si è fatto ricorso a questo tipo di operazione progettuale è solamente riconducibile all’ormai canonico triplice ordine di fattori economico, culturale e sociale? La nostra epoca vive la cultura del passato in maniera forse esasperata ma talvolta anche giustificabile. Due guerre mondiali, l’esplosione demografica del XX secolo e una seconda rivoluzione industriale hanno sconvolto il nostro ambiente edificato e non, e il tutto si è prodotto in meno di tre generazioni. in più si deve ricordare come si sia vissuti da

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