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FRANCO ALBINI *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 165-169)

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tutt’altro che difficile. In ogni sua opera, dalla prima all’ul- tima nessuna esclusa, e indipendentemente dalla scala di- mensionale, il rigore e l’attenzione nei riguardi del dettaglio costruttivo, sempre sono presenti in modo raffinato e com- pleto. Sarà proprio la ricerca insistente e puntigliosa nello scomporre ogni elemento architettonico nei suoi compo- nenti elementari per poi recuperarli e ricomporli attraverso una finissima composizione complessiva, ricerca costante e coerente lungo tutto il suo iter progettuale, a fare di lui un maestro. il suo “tavolo scrittoio con piano di legno rivesti- to in panno”, può essere un esempio del come l’esaspera- zione nello studio dell’assemblaggio più appropriato di elementi costruttivi semplici ed elementari può concorrere alla definizione di un oggetto d’uso “bellissimo”. Da un piedistallo d’ardesia troncoconico esce un elemento cilin- drico in ferro verniciato che va a sorreggere, tramite tre ferri a “T” a esso saldati il piano di scrittura, in legno a due livelli, rivestito in panno. La combinazione sapiente di questi elementi semplici, di questi “concetti primitivi”, riesce a generare un oggetto poeticissimo, unico e irripeti- bile. Sul piano della maggiore scala il discorso, seppure in termini diversi, può riproporsi in maniera analoga. la rigo- rosa coerenza, nell’approfondimento e nello sviluppo dei dettagli costruttivi e degli infissi appartiene allo stesso modo di procedere. Intendo descrivere un infisso relativo a una particolare chiusura del piano terreno, dell’edificio per gli uffici assicurativi dell’Ina che Albini progettò per Parma nel ’52. Lo ripropongo non per il fatto che, come sostengo- no taluni, tale edificio sia stato il generatore di una scuola di architetti dell’emilia nord occidentale, poichè è incon- testabile che se tale scuola ci fu, come ci fu, aveva certa- mente fondatori autoctoni. Addirittura si potrebbe dire che la sensibilità di Albini seppe recepire il discorso della nuo- va architettura emiliana al punto da concepire un manufat- to architettonico che fosse perfettamente inserito in una realtà culturale che, dopo essersi già delineata, cominciava a consolidarsi. Questa del resto era la tesi che Franco con- divideva e che ebbe modo di parteciparmi in più d’una occasione nei giorni di vacanza estiva che trascorreva, as- sieme alla mia famiglia, nell’alto appennino emiliano negli ultimi anni della sua attività. Un dettaglio particolare ed estremamente ricco di questo edificio viene proposto proprio per il fatto che fu attraverso i suoi dettagli costruttivi che

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Albini fece scuola, non in realtà minuscole, perché non è vero e perché vorrebbe dire sminuirlo, ma a tutta una ge- nerazione di architetti che capirono come, alla realizzazio- ne di un’opera architettonica, condizione necessaria e sufficiente fosse l’elaborazione accurata e dettagliata dei particolari costruttivi. il disegno riprodotto mostra l’ecce- zionale capacità di sintesi tipicamente propria di Albini. In una tavola di mezzo metro quadrato prendono corpo, in ogni loro forma, le vetrine del piano terreno dell’edificio di via cavour. dall’inserimento di esse nella struttura in sca- la :50 sino agli sviluppi esecutivi al vero dove egli com- bina, in un gioco magistrale, gli elementi di “ferro finestra” alle parti in legno e dove la soluzione di oscuramento della parte alta dei negozi, ottenuta tramite l’adozione di antoni ribaltabili di cui studiò ogni possibilità di movimento, de- nunciano e dimostrano come tale modo di operare costituì veramente un esempio impareggiabile per chi dell’architet- tura aveva una visione chiara e precisa (forse l’unica anco- ra possibile): quella cioè che essa si attua tramite edifici costruiti nello spazio fisico e non solo disegnati. C’è chi ha scritto che analizzando l’opera di diversi architetti “è pos- sibile leggere in filigrana quel che accade nel più generale contesto dell’architettura” cosa che invece non accade per Albini che, “in oltre quarant’anni di attività è rimasto im- perturbabilmente eguale a sé stesso”. Infatti “non è questio- ne di qualità ma semplicemente di diversi modi di essere”. Penso che un giudizio di questo tipo possa essere condivi- sibile solo in parte, perché preso così potrebbe dare, del- l’opera di Albini, una visione riduttiva. È quel “rimasto imperturbabilmente eguale a sé stesso” che mi pare ingiusto, o meglio va bene solo se si riferisce al suo stile di vita che tale veramente fu, ma solo a quello. Attraverso la lettura delle sue realizzazioni appaiono evidenti le necessarie mu- tazioni e gli indispensabili adeguamenti che intese confe- rire alla propria architettura che sempre è stata impregnata del luogo, della sua storia remota e presente, delle sue tra- dizioni e dei suoi comportamenti. non si deve dimenticare che Albini era un grande conoscitore del mondo e un gran- de conoscitore di uomini, e la sua sensibilità sapeva sempre avvertire anche le motivazioni più recondite e nascoste delle società. In tal senso la sua architettura consente vera- mente di “leggere in filigrana” e forse addirittura di antici- pare fatti ed eventi o manifestazioni artistiche da cui non

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può essere dissociata perché ad essi profondamente legata nel senso che ha contribuito a generarli nella misura in cui, essa stessa architettura, da tali eventi può essere stata pro- dotta. Si pensi al rapporto “architettura-tecnologia” (per usare un pessimo termine della critica ufficiale) presente nella cultura architettonica italiana attraverso l’opera esclu- siva di due maestri di formazione diversissima: Franco Albini e Leonardo Savioli ancora non sufficientemente messi a confronto sotto questo profilo. Pur partendo entram- bi da motivazioni diverse e perseguendo altrettanto diverse finalità, impostano un modo nuovo di “vedere” e di “fare” in architettura che, è indubbio, presenta qualche affinità. Così come entrambi possono considerarsi i capiscuola di un folto gruppo di architetti “alla moda” non solo italiani. Se su Savioli parleremo in seguito, di Albini basterà citare quattro opere che testimoniano l’impegno suo e di Franca Helg in questo “genere” compositivo. la nuova sede della Rinascente di Roma (’57-’61), la “linea 1” della metropo- litana milanese (’62-’63), le nuove terme di Salsomaggiore (’67-’70) e gli uffici Snam di S.Donato milanese (’70-’72) che meriterebbero di essere analizzate diffusamente in un’ottica del tutto particolare. Ulteriore conferma della profonda sua sensibilità nei riguardi dell’architettura e delle sue trasformazioni deriva dall’esame di “Casa Corini” a Parma degli anni ’70. Piante, sezioni, volumetrie e impa- ginato delle facciate, se denunciano da un lato i legami inequivocabili con il “movimento moderno”, dall’altro pare avvertano e percepiscano le nuove tensioni che cominciano a permeare il mondo dell’architettura. casa corini può essere assunta, pur nella sua aristocratica castigatezza, a modello emblematico di una condizione progettuale “in bilico” tra passato prossimo e immediato futuro dai contor- ni ancora non sufficientemente delineati. Tale assunto si concretizza con la grande misura e con il grande equilibrio che sempre contraddistinsero l’architetto milanese e che contraddi-

note

* “Frames”, n. 0, gennaio marzo 986, pp. 5 e ss.

. g. samonà, Franco Albini e la cultura architettonica in Italia, Zodiac n. 3,

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tre diversi momenti d’architettura, una mostra e due progetti, tre forti “segni” che qualcosa di diverso sta acca- dendo nel contemporaneo panorama architettonico, si pongono con decisione alla ribalta e si propongono come tipici di una situazione in costante divenire. non pare nem- meno un caso che tali avvenimenti accadano proprio a new York, quella città d’oltreoceano che seppe concretizzare nell’immediato dopoguerra, esasperandola, l’ideologia più profonda del razionalismo europeo. Ci si intende riferire alla grande rassegna sull’opera completa di mies, organiz- zata a febbraio, per il centenario della sua nascita, dal Museum of Modern Art, e a due proposte progettuali: la reintegrazione del Whitney museum di Breuer a opera di graves e l’ampliamento del guggenheim museum di Wri- ght a opera della gwathmey siegel and associates. Questi tre episodi, questi tre momenti d’architettura, venuti alla luce quasi contestualmente, possono ritenersi ora, nel pe- riodo storico culturale attuale, dei riferimenti sicuri e certi per tentare di comprendere meglio il contemporaneo svi- luppo dell’ideologia architettonica e il suo non facile arti- colarsi così come si è venuto configurando da poco più d’un decennio. Alla fine degli anni ’60 e nei primi anni ’70, si assiste a una severa critica al “movimento moderno” sia sul piano pratico che su quello teoretico. se si escludono i presupposti teorici dovuti alla ricerca orientale e in parti- colare i rilevanti contributi dell’architettura giapponese, a mio parere non ancora posti nel giusto rilievo critico, ci si deve rivolgere all’esperienza architettonica americana che già con Khan aveva cercato di puntualizzare (e del resto ci riuscì) un modo nuovo, diverso dalle consuetudini “moder- ne”, di intervento sullo spazio fisico. È a opera di Venturi, Johnson, stern e moore, solo per citarne alcuni, che la

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