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PER IL TEATRO CARLO FELICE DI GENOVA *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 144-148)

Alberto Manfredini

ni) ma è sempre calata in una realtà politica, culturale ed economica da cui non può in alcun modo essere dissociata. si è criticato da più parti Zevi perchè ha trasceso il puro dibattito architettonico. Ma una critica in questo senso non può essere che il frutto di malafede o, nel migliore dei casi, il prodotto dell’ignoranza nei confronti della “architettura costruita” che non può essere svincolata strumentalmente dai complessi elementi che l’hanno prodotta. non può tra l’altro esistere una storia o una critica dell’architettura che prescinda da tali considerazioni. Si finirebbe inevitabilmente per fare dell’accademia sterile che non servirebbe a nulla e a nessuno. in questo senso il meeting genovese ha un altro pregio: quello di aver tentato di riportare il dibattito architettonico ai tempi “eroici” dell’architettura italiana del dopoguerra o addirittura di prima della guerra, in cui ogni problema, dal più minuscolo al più macroscopico, veniva di- battuto sino all’esasperazione. Tralasciando completamente il problema degli interventi moderni nei centri antichi, su cui troppo è stato scritto e su cui troppo poco è stato risolto, è giusto soffermarsi sui progetti di Gardella, Rossi e Reinhart da un lato e lasdun, dasso e Ponis dall’altro poichè pare che la polemica sussista, e non a torto, prevalentemente tra questi due gruppi (rispettivamente classificati al primo e al secondo posto). Verrebbe poi la tentazione di entrare nel merito delle singole progettazioni e nel valore intrinseco delle singole architetture. ma indugiare su queste argomen- tazioni significherebbe falsare il problema nei suoi termini reali. I due progetti infatti non si possono comparare, per- ché profondamente diversa è la matrice culturale che li ha prodotti. Il progetto vincitore è decisamente e forzatamente di tendenza. Non solo cede alla facile tentazione del “giù di scala” con l’adozione di una torre quadrangolare, per i servizi teatrali, che compromette decisamente l’armonia dei rapporti tra i volumi esistenti. Quel che è più grave, in nome di una “evocazione” del decoro delle facciate di una genova ideale, e in nome di una “conservazione” del carlo Felice come “monumento urbano”, si riduce a operare tra- mite una ricostruzione in stile dell’opera del Barabino, per di più castigandola con una gratuita quanto inutile lanterna conica. Si tratta di un atto di ricostruzione che vorrebbe essere filologico ma che filologico non è, perennemente in bilico tra “moda” e “falso storico”. Il progetto secondo classificato evita a ogni costo la moda e si colloca, nel pa-

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norama architettonico contemporaneo, nell’unica maniera possibile: quella di essere il prodotto di architetti sensibili e attenti al divenire del nostro tempo. Non ci si stancherà mai di ripetere che è proprio questa nuova sensibilità a definire, in termini positivi, il “post moderno” e non la presenza di stilemi di maniera o di falsi storici da rifiutare invece in blocco. Si tratta della naturale evoluzione del “movimento moderno” che prende coscienza della rivoluzione post in- dustriale dell’informatica e cessa di autorappresentarsi con l’architettura della civiltà delle macchine per manifestarsi attraverso l’architettura della civiltà dell’elettronica. Questa presa di coscienza è inevitabile e ineluttabile per chi, oggi, sia attento agli sviluppi della cultura e delle tecnologie. L’architettura del resto è sempre stata il prodotto di società ben delineate. In quanto manipolazione dello spazio fisico, volta al soddisfacimento di esigenze reali e storiche (o stori- cizzate nel senso di legate a un periodo storico ben preciso), sempre si è posta come la concretizzazione spaziale delle ideologie e delle tensioni, anche emotive, connesse con delle realtà consolidate. In certo senso schierarsi ora per il “movimento moderno” o per il “post moderno” significa porsi su posizioni antistoriche che ormai hanno pochi ri- ferimenti con la contemporaneità. D’altra parte non si può cancellare tout court un passato cui l’architettura di oggi deve sempre tanto, così come non si deve ricorrere alla “citazione” storica e formale o all’“evocazione” o alla “ri- costruzione” sovente gratuite. Si dovrebbe semmai cercare una maggiore attenzione e disponibilità per recepire quelle mutazioni, anche economiche ma soprattutto esistenziali, che ci investono in prima persona, per convincersi che “post moderno” è una condizione dell’essere. anzi è la condizio- ne dell’essere oggi. il progetto del carlo Felice di lasdun, dasso e Ponis si inserisce con decisione in questo discorso e in questo senso dovrebbe poter essere recepito e valutato come “architettura moderna”, nel senso di architettura della contemporaneità. Se il progetto “Rossi” si riduce a semplice oggetto architettonico, il progetto “secondo classificato” non solo si codifica come un raffinato episodio architetto- nico calibrato in ogni dettaglio, ma finisce per assurgere a vero e proprio “sistema urbano”. È la soluzione urbanistica di questo secondo progetto ad affascinare particolarmente. la ricerca attenta nell’individuazione di assi di percorrenza preferenziali; la ricucitura e l’enfatizzazione di percorsi

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pedonali privilegiati legati all’esistente galleria mazzini, ma soprattutto l’inserimento nella città antica di queste nuove situazioni, concorrono a fare scattare qualitativamente il progetto “lasdun” rispetto a ogni altro concorrente. Poiché il senso vero della storia o, che è lo stesso, la vera coscienza del progettista di oggi sta proprio nell’elaborare progetti che oltre a essere “memoria” della storia di una comunità civile, siano pure di “presagio” nei riguardi di un futuro dai contorni non sufficientemente delineati, si può affermare che il progetto lasdun, dasso e Ponis non solo inserisce volumetrie nuove nell’esistente, ma in più sa ricucire, in maniera esemplare, il nuovo all’antico, attingendo dalla storia quegli elementi che riescono a determinare quel “tessuto connettivo”, troppo sovente dimenticato, ma così indispensabile al contesto ambientale contemporaneo.

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tra il 0 e il  aprile del ’45 si spegneva a mauthausen giuseppe Pagano Pogatschnig. il quarantennale della sua scompaarsa non può essere sottaciuto anche se il tentativo di delineare la sua opera e la sua personalità di architetto comporta inevitabilmente di trascurare quegli elementi ti- pici e indispensabili per la comprensione completa della sua figura. Limitarsi al solo aspetto architettonico signifi- cherebbe, nel migliore dei casi, compiere un taglio critico riduttivo che sicuramente falserebbe i termini reali della sua opera e che altrettanto certamente non aiuterebbe, per chi già non la conoscesse, a meglio comprendere la com- plessa poliedricità di interessi e di intenti che ha contraddi- stinto non solo un indiscusso protagonista del “movimento moderno” italiano, ma un esponente, fra i più autorevoli, del “movimento moderno” nel suo complesso. “Pagano vuol visto non per sezioni o per compartimenti stagni, ma nel suo insieme di uomo politico, di azione, di cultura e di architetto” . Del resto su di lui è già stato scritto moltissimo 

e la sua opera di architetto, ma soprattutto di critico, è an- cora così profondamente radicata negli architetti di una certa generazione o di una certa scuola, che sarebbe diffi- cile aggiungere qualcosa di nuovo o di diverso. Vale forse la pena di puntualizzare alcune sue prese di posizione e alcuni tra i molteplici aspetti del suo instancabile e inces- sante “fare” che contribuirono a caratterizzare univocamen- te il contributo generoso e appassionato da lui tributato all’architettura italiana. non tanto per tentare di creare delle forzate e probabilmente antistoriche analogie tra la situazione culturale architettonica dell’italia a cavallo degli anni ’30 e ’44, e quella contemporanea (anche se, in termi- ni oggettivi, gli estremi del rapporto progettista-potere da un lato e avanguardia culturale-manierismo o moda dall’al-

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