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LA CITÉ DE REFUGE DI LE CORBUSIER *

Nel documento Questioni di Progettazione Architettonica (pagine 81-84)

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Alberto Manfredini

era in diretto contatto con ambienti francesi sia fascisti che sindacali, e, come egli era solito, il suo pensiero talvolta li rifletteva”. Viene pure tracciata, con altrettanto approfon- dimento, la storia dell’esercito della salvezza di William Booth e in particolare del ruolo che tale istituzione assunse nella Francia di quegli anni, ricercando continuamente quale fosse la concezione di comunità sociale condivisa da Le Corbusier e quale fosse quella condivisa dal suo cliente Albin Peyron, allora commissario per la Francia e per il Bel- gio della Armée du Salut. il ruolo della committenza viene esplorato a fondo, e il trinomio Le Corbusier-principessa di Polignac-esercito della salvezza viene riletto e reinter- pretato in modo da offrire al lettore i ruoli esatti assunti da ciascuno di essi per pervenire prima alla decisione di affidare l’incarico del progetto dell’opera a Le Corbusier e poi alla sua realizzazione attuata dopo la successiva elaborazione di quattro progetti intermedi e infine a tutta quella serie di revisioni, manipolazioni e varianti che si sono succedute sul manufatto originario alcune condivise dall’autore, altre detestate, sino al giugno del 1978 quando la Cité de Refuge ha assunto la configurazione definitiva che conosciamo ora. L’espletamento dell’incarico conferito a Le Corbusier e a Pierre Janneret dall’esercito della salvezza per una cité de Refuge significava la risoluzione di problemi connessi alla molteplicità di funzioni che si sarebbero dovute organizza- re all’interno dell’edificio al punto dal renderlo simile, si diceva allora, a una vera e propria città. Come tipo edilizio la Cité si fondava sui tipi degli istituti di beneficenza del XVIII e XIX secolo, come ospizi dei poveri, ostelli per marinai, ecc. malgrado tali modelli, i particolari requisiti di questo progetto, che combinava assieme spazi di lavoro, alloggi e servizi sociali, offrivano a Le Corbusier la sua prima occasione per definire in termini architettonici ciò che sarebbe dovuto divenire un modello per la sua unité

d’habitation dell’immediato dopoguerra. Oltre al fatto che

fu rielaborato completamente per cinque volte, a seconda del “perenne mutare delle esigenze del committente”, e ogni volta che Le Corbusier intendeva apportarvi delle idee compositive nuove tratte magari da edifici contemporanei che aveva studiato di recente (valga per tutti l’esempio del Narkomfin di Ginsburg a Mosca), questo progetto fu influenzato in larga misura anche da un’area difficile, che insisteva sul preesistente tessuto urbano parigino. Fu proprio

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anche per questo che Le Corbusier cercò di trasformare con grande sforzo una tipologia preesistente in un modello per modificare la morfologia urbana delle zone circostanti. Il problema principale che si offerse a Le Corbusier fu quello di distinguere e distribuire gli ospiti secondo vari criteri: età, sesso, necessità e capacità. Per comprendere il significato intimo dell’edificio, occorre avere presenti le idee chiave che ne avevano determinato la forma sin da principio. Un guscio chiuso quasi ermeticamente, con un curtain wall di vetri fissi sulla facciata sud del dormitorio principale alto dieci piani e il controllo artificiale dell’ambiente interno tramite la climatizzazione totale di ogni spazio abitativo. Fu proprio l’aspetto del condizionamento totale, unitamente a diverse altre norme regolamentari, a incrinare i rapporti tra professionista e committenza così come appare pure dal carteggio pubblicato in appendice tra Le Corbusier e la figlia del commissario Peyron. Non si deve dimenticare come Le Corbusier avesse trovato un sottofondo culturale comune per collaborare con l’esercito della Salvezza e servirne gli scopi, perché ne condivideva l’atteggiamento verso la necessità economica di un’ingegneria sociale. La rieducazione della società, come quella degli individui, sia in senso psicologico che in termini di utilità economica, si sarebbe meglio compiuta seguendo metodi tecnico-sanitari di controllo. dove il cliente e l’architetto si trovavano in disaccordo fu sulla capacità di persuasione delle tecnolo- gie. La reazione di Le Corbusier al malcontento delle donne che protestavano perché alla cité non si potevano aprire le finestre (“Noi abbiamo il diritto morale di ignorarle e di continuare la ricerca scientifica!”) lo mise in difficoltà nei confronti dell’esercito della salvezza. Tale aspetto assunse peraltro risvolti più profondi interessando pure il problema fondamentale della tecnocrazia e dei principi politici che avrebbero in futuro governato i rapporti tra l’uomo e le mac- chine. Anche per il fatto che intendeva sancire il principio che il progredire in Architettura (come del resto in ogni altro campo dell’attività dell’uomo) può avvenire solo grazie alla sperimentazione continua anche, se necessario, ignorando le regolamentazioni e le leggi al momento vigenti.

* Recensione a: B. B. taylor, La Cité de Refuge de Le Corbusier, in “Parametro”,

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nella temperie architettonica contemporanea in cui il dibattito disciplinare pare impostato sulla ricerca di nuove tendenze, e in un momento di profonda rimeditazione del passato, lontano e vicino, e di autocritica su talune espe- rienze che la cultura specifica ha ultimamente proposto, la recente inaugurazione della rassegna “Alfonso Rubbiani: i veri e i falsi storici”, proprio nella città di Bologna, non può lasciare indifferenti. Alcune considerazioni si rendono ne- cessarie sia a livello particolare ma soprattutto a livello ge- nerale nei risvolti che da oltre un decennio legano Bologna alla vicenda urbanistica in Emilia Romagna e, limitatamente ai centri storici, all’intero territorio nazionale. la mostra su Rubbiani è volutamente ambigua. Anche se Marco Dezzi Bardeschi (coordinatore e curatore della sezione Architet- tura) sottilmente puntualizza in tutti i suoi aspetti gli scopi precipui e gli obiettivi raggiunti, a suo dire, dalla manifesta- zione (come il fatto, condivisibile da tutti, che acquistando coscienza dei falsi storici rubbianeschi, la gente potrebbe finire per considerarli veri, come interventi perfettamente datati), tuttavia “I veri e i falsi storici” sono di lettura difficile per il grande pubblico cui queste manifestazioni vengono indirizzate e possono essere fonte di profondi equivoci. Non aiuta certo a “vedere più chiaro” nell’ambito del restauro e del recupero del patrimonio architettonico che mai, come in questi ultimi anni, è stato ed è tuttora alla ribalta così a Bologna come altrove. il proporre una rassegna sull’opera di un “architetto (?)” che contribuì a rendere Bologna “quale sarebbe se nel 1313 anziché nel 1879 l’avessero edificata”, equivale a sovvertire dei valori acquisiti e giustamente consolidati. Nel senso che si vorrebbe collocare Rubbiani là dove non potrà mai stare, ossia a un livello forse mag- giore di certi suoi contemporanei. Situazione fuorviante

ALFONSO RUBBIANI:

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