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Prima della Grande Guerra, quando la diffusione dello «shell shock» raggiunge dimensioni tali da rendere inaggirabile il dibattito sulle cause del disagio mentale nei militari, la questione viene concettualizzata, quasi esclusivamente, all’interno di un ordine discorsivo che fa riferimento al controllo della “devianza”. L’aspetto terapeutico del fenomeno è subordinato a quello delle politiche di individuazione e di controllo della follia, senza che si possano apprezzare significative differenze interpretative tra la condizione del disagio mentale e la criminalità. I casi citati di Salvatore Misdea e di Pietro Radice sollecitano, con urgenza, nelle autorità militari il problema di garantire la sicurezza all’interno delle caserme. Come detto, soprattutto a seguito del «caso Misdea» ottiene sempre più credito la categoria di «epilessia», utilizzata da Lombroso per spiegare lo scoppio improvviso e violento del militare259. Follia morale ed epilessia si saldano così in una chiave di lettura posta all’incrocio fra discorso psichiatrico e teorie come l’atavismo e la degenerazione di derivazione antropologico criminale. Il risultato è da una parte la psichiatrizzazione sempre più marcata della criminalità260, dall’altra l’affermazione della necessità

255 Cfr. G. C. Ferrari, L’eugenica, in «Rivista di psicologia», 8, 1912, p. 437. 256 Cfr. R. Villa, Il deviante e i suoi segni…cit., p. 182.

257 Ivi, p. 184.

258 Cfr. D. Frigessi, Cesare Lombroso… cit., pp. 214-222.

259 Cfr. C. Lombroso, L. Bianchi, Misdea e la nuova scuola penale, ed. Bocca, Torino 1884. Il volume, scritto in occasione della strage

con Leonardo Bianchi, oltre a essere una difesa delle tesi dell’antropologia criminale, punta al riconoscimento del valore della perizia criminologica in simili processi.

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di un metodo in grado «di poter scoprire simili patologie»261 e dunque impedire il ripetersi di simili stragi. Per le autorità militari la priorità diventa quella di migliorare i filtri durante le visite di leva e l’opera di monitoraggio in caserma per individuare potenziali delinquenti e alienati.

A seguito della strage compiuta da Misdea, nel 1884, l’esercito irrigidisce dunque le politiche disciplinari nei confronti di anomali, epilettici e simulatori presenti nella comunità militare e ciò, tra l’altro, si palesa nelle sei condanne a morte emesse tra il 1884 e il 1890 a carico di soldati262. Le sentenze generarono diverse discussioni nell’opinione pubblica, in particolare sul differente regime giuridico cui erano sottoposti i soldati. Come valutare militari come Misdea263 identificati nei termini di folli morali o epilettici? La condanna a morte, tra l’altro non comminata più nei processi civili, doveva essere inflitta anche nei loro confronti? Sullo sfondo di queste discussioni lo spirito di codici militari, come quello del 1869, che erano stati pensati per «un esercito che doveva far fronte a fenomeni potenzialmente destabilizzanti come la renitenza e la diserzione […]»264. Sempre nella direzione di una necessaria opera di gestione e disciplinamento dei coscritti, il codice del 1869, attribuiva «particolare gravità a quei reati che rischiavano di minare la convivenza tra gli uomini

come le insubordinazioni, le disobbedienze e l’abuso d’autorità»265. Fu però soprattutto a partire

dai tardi anni Settanta «che il mai del tutto sopito dibattito sulla giustizia marziale riprese vigore»266. La schermaglia dialettica non riguardava più solo specialisti, avvocati e militari, ma investiva la società nel suo insieme, più sensibile alle istanze problematiche che agitavano alcuni nodi irrisolti, come appunto la separazione tra esercito e società civile, l’imputabilità del reo folle, l’incidenza della vita di caserma nell’emergere del disagio mentale. Elementi diversi che però riguardavano tutti «quei soggetti fisiologicamente predisposti al male che il diritto militare – in ritardo rispetto al progresso della scienza medica più che rispetto a quella penalistica – si ostinava a punire, mantenendoli però nell’organico delle forze armate»267.

Tra gli effetti di tali discussioni bisogna registrare, a partire dalla metà degli anni ottanta, la decisione del «Ministero della guerra […] di non pubblicare più i dati sulla criminalità militare»268. Se questa presa di posizione si iscrive in un processo che vede la comunità militare chiudersi sempre più su se stessa, d’altra parte ciò ha l’effetto di rendere ancora più problematico il monitoraggio e l’analisi empirica del fenomeno. Parallelamente prende sempre più corpo l’idea che sia proprio l’ambiente militare ad essere patogeno e che la disciplina, lungi dal rappresentare un fattore positivo in relazione alla “costruzione” dell’italiano, sia un elemento perturbatore della psiche e, dunque, in grado di scatenare reazioni violente. Sono questi alcuni degli argomenti affrontati in un importante studio pubblicato nel 1886: L’esercito e la sua criminalità, di Augusto Setti269. L’autore non era uno sconosciuto ricercatore alle prime armi, ma un magistrato consigliere della Corte di cassazione di Torino che, per diverso tempo, aveva operato nei tribunali militari270. La sua opinione perciò era autorevole e basata sulla conoscenza di molta documentazione processuale relativa a casi che avevano riguardato soldati. Le lenti utilizzate nel suo studio sono quella della scuola positiva in cui si riconosce. Egli ritiene la criminalità nell’esercito la conseguenza di cause organiche, sociali

261 Ivi, p. 181. 262 Ibidem.

263 Cfr. M. Rovinello, Una giustizia senza storia? I codici penali militari nell’Italia liberale, in «Le carte e la storia», 2, 2012, pp. 59-78,

p. 69.

264 Ivi, p. 65. 265 Ibidem. 266 Ivi, p. 67. 267 Ivi, p. 70.

268 Cfr. S. Montaldo, L'antropologia criminale e l'esercito italiano (1884-1920)…cit., p. 181. 269 Cfr. A. Setti, L’esercito e la sua criminalità, Brigola, Milano 1886.

270 Cfr. M. Cioccarelli, L’abbandono minorile in Italia fra assistenza pubblica tra Otto e Novecento, in A. Carera, M. Taccolini, R. Canetta

(a cura di), Temi e questioni di storia economica e sociale in età moderna e contemporanea. Studi in onore di Sergio Zaninelli, Vita e Pensiero, Milano 1999, p.427, pp. 425-444.

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e antropologiche che, aggravate dalle condizioni proprie della vita in caserma, determinano gli impulsi criminali dei soldati. Anche alla luce di ciò si rende necessaria un’opera di filtraggio adeguata, che metta i medici militari nelle condizioni di liberare l’esercito da quei soggetti che, naturalmente degenerati, sono dei veri e propri criminali271. Per questo gli stessi medici dovevano essere formati allo studio e alla valutazione delle misurazioni antropometriche, ritenute criteri oggettivi e certi, per individuare preventivamente durante le visite di leva i criminali e i degenerati272.

Letture come quella di Setti risentono evidentemente degli influssi di Lombroso e della elaborazione della sua antropologia criminale, eppure – come sottolineato da Silvano Montaldo in un contributo sul tema273 –, il rapporto tra il medico veronese e il crimine nell’esercito è meno lineare e più articolato di quanto a posteriori si potrebbe ritenere. Infatti, dopo l’esperienza come soldato nell’esercito post-unitario, «Lombroso scrisse il suo unico studio sul crimine nell’esercito»274, in occasione del citato «caso Misdea». Il marcato antimilitarismo275, la vicinanza «agli ideali del socialismo umanitario»276 e la convinzione che la pulsione al conflitto fosse una traccia dell’atavismo, sono tutti elementi che contraddistinsero l’approfondirsi della diffidenza di Lombroso verso l’esercito stesso. Inoltre, soprattutto con il trascorrere degli anni, si convinse sempre di più della natura degenerogena della caserma e, più in generale, dell’ambiente militare. Proprio per questo si convinse sempre più della necessità dell’antropologia criminale come tassonomia per individuare i potenziali delinquenti e impedire lo scatenamento della follia, come quella di Misdea. Da una parte dunque un antimilitarismo sempre più marcato, dall’altra l’individuazione dell’esercito come campo d’applicazione per la sua antropologia criminale. Il risultato di questa dialettica senza sintesi è la marcata ambiguità di Lombroso verso il tema e, parallelamente, il generarsi di un’attenzione sempre più evidente per le sue teorie, e per la rielaborazione di esse in direzione della medicina sociale277, negli alienisti militari e nei medici dell’esercito. Questa rielaborazione del “lombrosianesimo”, che si muove in direzione dell’eugenica negativa, si giova dell’azione clinica e teorica di medici e studiosi influenzati dalle dottrine di Lombroso, ma che non necessariamente sono stati suoi pedissequi allievi. Tra questi Pietro Brancaleone-Ribaudo, autore di Lo studio antropologico del militare delinquente, un’opera in cui l’autore, a seguito dell’analisi antropometrica e morfologica di diversi militari internati, sottolinea il carattere degenerativo e legato a predisposizione della delinquenza osservata278. Da qui la conclusione che riconosceva all’antropologia criminale il ruolo di mezzo necessario per individuare il criminale nato e allontanarlo dall’esercito. Del 1896 è invece Il marinaio epilettico e la delinquenza

militare279, del medico capo della Regia Marina Leonardo Cognetti de Martiis. Nello studio anche

l’ufficiale sosteneva la necessità di organizzare strutture adeguate per filtrare efficacemente i marinai in entrata e tenere così lontano il morbo della follia dalla marina280. Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Scarano, ufficiale medico, che, a differenza di altri autori, considerava l’esercito un fattore rigenerativo per la costruzione identitaria del singolo e della nazione, ma proprio per questo – al pari degli altri – riteneva fondamentale individuare ed espellere degenerati e delinquenti dalle caserme.

271 Cfr. A. Setti, L’esercito e la sua criminalità…cit., p. 17.

272 Cfr. B. Farolfi, Antropometria militare e antropologia della devianza (1876-1908), in F. Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia,

Annali 7, Malattia e medicina, Einaudi, Torino 1984, pp.1183-1190, pp. 1181-1222.

273 Cfr. S. Montaldo, L'antropologia criminale e l'esercito italiano (1884-1920)…cit., pp. 177-181 e 196. 274 Ivi, p.177.

275 Cfr. R. Girardi, Né pazzi né sognatori. Il pacifismo democratico italiano tra Otto e Novecento, Pacini editore, Pisa 2016, pp.26-30 e

245-274.

276 Cfr. S. Montaldo, L'antropologia criminale e l'esercito italiano (1884-1920)…cit., p. 177. 277 Cfr. P. Consiglio, La medicina sociale nell’esercito…cit.

278 Cfr. P. Brancaleone –Ribaudo, Lo studio antropologico del militare delinquente, Tip. A. Fiore, Palermo 1893, p. 53. 279 Cfr. L. Cognetti de Martiis Il marinaio epilettico e la delinquenza militare, Bocca, Torino 1896.

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Pur nelle differenze, dunque, questi lavori concordano nel fare riferimento ai mezzi messi a disposizione dall’antropologia criminale per riconoscere criminali e anormali. E in tale ottica vennero accolti con sempre maggiore convinzione dai medici militari che, soprattutto dopo Adua, sono chiamati a “curare” il “corpo malato della nazione”281. Il fine è quello «di trasformare il cittadino in soldato e prepararlo alla guerra, all’interno della caserma»282. Per raggiungere questo obiettivo bisogna poter lavorare con soggetti duttili, flessibili e, soprattutto, “normali”. È dunque l’incontro tra fattori culturali, elaborazioni scientifiche e contingenze politiche, a determinare la piega dell’alienismo militare italiano verso la medicina sociale e l’affermarsi di istanze bio- profilattiche sempre più marcate. Non è un caso che Placido Consiglio, figura paradigmatica di questo alienismo, cominci a far parlare di sé proprio a cavallo tra Otto e Novecento, quando maggiori sono le discussioni relative a una necessaria rigenerazione della nazione. In particolare, è almeno dal V Congresso internazionale di psicologia del 1905, che Consiglio avvia il proprio percorso di elaborazione teorica della medicina sociale. E tali istanze sono ormai pienamente diffuse negli anni che precedono la Grande Guerra, quando pochi dubbi sussistono sull’importanza sociale dell’«indagine delle anomalie costitutive e delle manifestazioni morbose – episodiche od immanenti – di ciascuna forma di vita collettiva»283. Da qui la necessità di una «medicina sociale, che è essenzialmente igiene […] e che oggi trionfa e si sviluppa rigogliosa per l’impulso fecondo, e rinnovatore della scuola positiva italiana di antropologia e sociologia criminale»284.

Il proposito dell’ufficiale medico di estendere il campo d’azione della medicina sociale, tanto da farne un più generale «rinnovamento nei metodi pedagogici, seriazioni di attività e di rendimenti, selezionamenti opportuni onde adattare ai singoli gruppi metodi educativi differenti e modi diversi di istruzione»285, mostra la piega raggiunta, prima della Grande Guerra, dall’ordine discorsivo sviluppatosi dall’incontro tra le teorie lombrosiane (nella lenta rielaborazione di cui si è detto), il darwinismo sociale e le politiche di igiene militare. In questa congiuntura è ormai chiaro che l’opera di controllo dell’alienismo militare riveste un’importanza fondamentale rispetto al processo attraverso cui si costruisce una nazione libera dalle sue presunte tare psicobiologiche286. Eppure questa realtà, abbastanza evidente nei discorsi dei medici alienisti già negli anni della guerra in Libia, si scontra con la realtà dell’assenza di un adeguato servizio medico-psichiatrico dell’esercito287 e con il fatto – a suo tempo già notato da Pietro Grilli – che «i medici militari non hanno manicomi»288. Per poter valutare dunque l’effetto concreto dei saperi e dei concetti, elaborati in un paio di decenni su studi e riviste scientifiche, sul piano delle pratiche e delle reali politiche di trattamento del disagio mentale nei militari, bisogna assumere il punto di vista delle singole realtà manicomiali.

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