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Proprio questi ritardi, ma anche le contraddizioni strutturali del sistema, vennero alla luce con evidenza dopo i primi mesi di guerra, quando «negli ospedaletti da campo presso le prime linee, in particolare dopo azioni lunghe e sanguinose, affluirono a migliaia soldati attoniti, confusi,

281 Cfr. P. Chimienti, Piero, Dopo Adua. La Camera, l’esercito ed il paese, Roma, Elzeveriana, 1896. 282 Ibidem.

283 Cfr. P. Consiglio, La medicina sociale nell’esercito, Tipografia Enrico Voghera, Roma 1914, p. 3 [estratto dal «Giornale di medicina

militare», maggio 1914].

284 Ivi, p. 4. 285 Ivi, pp. 5-6.

286 Cfr. F. Scarpato, A. Scartabellati, Il discorso eugenico della psichiatria italiana dagli inutili alla vita ad una dannosa sottoumanità?

Un’ipotesi di ricerca, in Archivio Trentino, 2, 2003, p. 79.

287 Cfr. G. Funaioli, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito, in Rivista sperimentale di freniatria, 38, 1911, pp.

337-368, p. 338.

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paralizzati, che avevano perduto l’uso della parola, dell’udito, o che avevano smarrito la

memoria»289. I dati che riguardano l’Italia non sono definitivi e, molto probabilmente, peccano per

difetto individuando 40000 ricoverati a causa di patologie nervose. La contabilità nei centri di prima assistenza non era precisa, spesso le diagnosi erano sommarie e sovente omettevano i riferimenti ai disturbi mentali. Per quanto riguarda le politiche di trattamento, nonostante l’ambito psichiatrico non fosse immobile – nel 1907 viene fondata la «Società italiana di neurologia» –, il paradigma lombrosiano mantiene tutto il suo peso e in tale ottica vengono affrontati i primi casi di nevrosi traumatiche evidenziati dai soldati. Fu subito chiaro che le dimensioni del fenomeno non potevano essere fronteggiate senza un adeguato servizio di coordinamento tra «zona di guerra e ospedali nelle retrovie dove i medici dovevano rapidamente classificare secondo la genesi, lo sviluppo e l’esito sindromi nuove e difficilmente riconducibili all’interno dei tradizionali schemi interpretativi»290.

Tra le maggiori acquisizioni della storiografia che si è interrogata sul tema c’è quella della brutalità e dell’inefficienza terapeutica attraverso cui vennero “curati” gli “scemi di guerra”291. Ciò, anche alla luce di quanto fin qui detto, non deve sorprendere; infatti, se l’interpretazione più classista e ideologica risulta oggi inadeguata e deve essere aggiornata, anche alla luce di un “potere psichiatrico”292 che non può più essere identificato nei termini di un Leviatano che persegue i folli come il mostro biblico fa con gli alteri e i superbi, ciò non ridimensiona la sofferenza prodotta su masse di uomini trattate alla stregua di criminali. Le istanze disciplinari descritte, il ruolo della medicina sociale soprattutto dopo Adua, contribuirono dunque a segnare – come detto – il volto della psichiatria militare e ciò divenne ancora più marcato con lo scoppio della guerra: «Le applicazioni della psicologia criminale interessano nel modo più diretto, tra tutti gli ambienti collettivi, quello militare»293. In tal senso, contrariamente a quanto sostenuto da Gibelli, la guerra russo-giapponese294 non aveva attirato più di tanto l’attenzione degli psichiatri militari per il tema delle nevrosi belliche, argomento fagocitato dalle discussioni sulla delinquenza militare e dai suoi rapporti con la follia. Come scrive il neuropsichiatra ferrarese Gaetano Boschi dopo la guerra:

«C’era l’esperienza delle altre guerre, più o meno recenti: la guerra anglo-boera, quella russo- giapponese, le guerre balcaniche, la guerra italo-turca. I mezzi guerreschi, le proporzioni del conflitto, il numero dei malati e dei feriti erano stati in queste guerre infinitamente inferiori a quelli che la nuova guerra avrebbe rappresentato. E lo studio da parte di quei medici e gli insegnamenti da loro esposti erano stati scarsi. Cominciava a farsi l’esperienza clinica sul teatro della Grande guerra, quella combattuta non più contro i selvaggi o tra popoli mezzo selvaggi, ma bensì tra popoli civili coi mezzi raffinati e imponenti, dalla civiltà escogitati e costruiti. Bisognava dunque che i medici si accontentassero, si istruissero, un po’ per nozioni un po’ per congetture, su questa speciale clinica della guerra moderna»295.

Più che altro l’esito del conflitto russo-giapponese era servito per analizzare, sulla base di consolidati stereotipi di matrice razzista, le ragioni della vittoria, le cause della sconfitta e sviluppare

289 Cfr. B. Bianchi, Psichiatria e guerra, in S. Audoin Rouzeau e A. Becker, La Prima Guerra Mondiale, ed.it. a cura di A. Gibelli, Einaudi,

Torino 2014, p. 323.

290 Ibidem.

291 Solo per avere un quadro di insieme vedi il classico: B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., pp. 84 e segg. 292 Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974)…cit.

293 Cfr. G. Funaioli, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito…cit., p. 339.

294 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale…cit., pp. 22 e segg. Per le risonanze

sulla psichiatria internazionale vedi: P. Wanke, Russian/Soviet Military Psychiatry, 1904-1945, Frank Cass, London and New York 2005, pp. 17-29.

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ulteriormente la questione del “tramonto della civiltà” secondo quell’ottica palingenetica296 portata avanti da larghi settori della società. Parzialmente diversa la situazione del conflitto libico che, affrontato inizialmente sul fronte psichiatrico senza particolare interesse, sollecitò

progressivamente una maggiore attenzione e un certo dibattito, anche scientifico297 che, però, non

produsse effetti sensibili, né quei miglioramenti organizzativi da tempo richiesti. Retrospettivamente, una volta scoppiata la Grande Guerra, l’esperienza in Libia servì invece come termine di paragone per le prime, incerte, analisi comparative tra le rispettive forme nevrotiche e i differenti teatri bellici. E’ il caso delle valutazioni effettuate da Placido Consiglio nel 1916:

«Naturalmente, data questa diffusa predisposizione nevrotica, in guerra dovranno aumentare le manifestazioni morbose, del sistema nerveo e della psiche, poiché non agiscono soltanto, e ingranditi, i comuni fattori di perturbamento organico od ambientale, o relativi al servizio militare, come nel tempo di pace, ma altri ancora specifici allo stato di guerra; fattori di naturale evidenza, e di complessa natura e di origine molteplice, i quali sono per una certa parte diversi, e per altro verso di differente efficacia a seconda che si tratti di guerra coloniale o di guerra continentale. Nelle guerre coloniali, oltre alle cause morali disciplinari ed autotossiche da fatica, alle nostalgiche agli stati psicomotivi speciali a quelle guerriglie, è da mettere in rilievo il maggior danno dell’alcool e dell’iperalimentazione carnea, la maggior facilità dei disturbi gastro-intestinali con relative tossiemie depressive, e la probabile azione vasoparetica cerebrale che secondo Gedeken pare abbiano i raggi attinici solari in quei paesi, agevolanti così le détentes nervose e le défaillances psichiche.

Nelle guerre continentali, invece, soprattutto prevale – oltre alla composizione diversa delle truppe combattenti – (enorme numero di riservisti), il modo così speciale del guerreggiare odierno: se le grandi battaglie d’oggidì agiscono a guisa dei grandi cataclismi cosmici come scriveva l’Jacoby in occasione della campagna di Manciuria, l’efficacia perturbativa di tali grandi cataclismi è oggidì ringrandita e molteplicemente variata, sicchè si può parlare di psicosi da mine, di psicosi da trincee, di psicosi da aereoplani o da gas asfissianti, di psicosi da scoppio di granate od obusiti ecc.»298.

Questi primi tentativi di comprendere il fenomeno delle nevrosi belliche avvengono in un contesto che, soprattutto nei primi mesi di conflitto, è stravolto dai numerosi ricoveri per «le forme di psicopatie, o di crisi psico-motorie»299 dei militari. Il canone d’orientamento applicato dai medici prevede che risultino sospette tutte quelle che «non hanno un substrato organico, seriamente valutabile»300, da qui l’ampio utilizzo di categorie antropo-criminologiche, quali «diserzione», «insubordinazione», «degenerazione», per tutta una gamma di patologie di difficile ed equivoca identificazione ritenute «manifestazione di una diversità che solo l’occhio dello specialista poteva individuare e definire»301. La psichiatria, d’altra parte, accolse questa situazione come un’occasione per garantirsi quel prestigio e quella funzione sociale a lungo cercata; in questo senso il più o meno convinto interventismo dei singoli alienisti deve essere contestualizzato alla luce di una situazione

296 È il caso di Placido Consiglio, per cui vedi: Le anomalie del carattere dei militari in guerra, in RSF, 1918, p. 132.

297 Cfr. L. Daneo, Sulla psico-patologia dell’emozione durante la guerra, Tip. Ditta Lazzari, Siena 1913; G. D’Abundo, Turbe neuro-

psichiche consecutive alle commozioni della Guerra Italo.Turca. Nota Clinica, Tip. C. Galatola, Catania 1912; A. Gorrieri, Contributo alla studio delle turbe neuro psichiche dovute alle emozioni durante la Guerra Italo-Turca, Tip. Ditta Lazzari, Siena 1913; P. Consiglio, Nevrosi e psicosi in guerra. Nota I, Tip. E. Voghera, Roma 1913; P. Consiglio, Nevrosi e psicosi in guerra. Nota II, Tip. E. Voghera, Roma

1915.

298 Cfr. P. Consiglio, Psicosi, nevrosi e Criminalità nei militari in guerra, in «Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina

legale», 37, 1916, p. 261.

299 Cfr. G. Funaioli, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito…cit., p. 346. 300 Ibidem.

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che fece intravedere a molti di loro la possibilità di ritagliarsi un ruolo diverso da quello di semplici garanti dell’ordine manicomiale. E sempre in tale ottica deve essere letto l’entusiasmo di riviste come i «Quaderni di psichiatria» che invita senza troppi giri di parole la “classe alienistica” italiana a servire il bene supremo del Paese:

«Noi pensiamo che la classe alienistica italiana sia pronta a tutti quei sagrifizii di persona, di comodità e di interessi, che il bene supremo del Paese oggi reclama da tutti i suoi figli. Noi sappiamo già del fervore patriottico con cui molti dei nostri colleghi hanno risposto al richiamo sotto le armi; parecchi di essi prestano di già l’opera loro assidua, sapiente, fraterna, anche vicino alla linea di combattimento, e non specializzata, ma medico-chirurgica in genere. Vada ad essi tutti il nostro più caloroso plauso; vada il nostro saluto augurale: potrà la Psichiatria Italiana segnare per loro merito nei suoi fasti una nuova e sublime pagina di gloria!»302.

Si trattava di ritagliarsi un posto come “sapere” al servizio della Nazione, dei suoi interessi e delle sue necessità. Al fondo l’obiettivo era lo sdoganamento dall’identificazione della psichiatria come scienza dei manicomi, un ruolo che agli alienisti stava sempre più stretto e che rischiava di minare sul nascere ogni ambizione professionale. Affermato ciò risulta più comprensibile, poiché situata appunto in un orizzonte specifico, la posizione di quegli alienisti, come appunto Placido Consiglio, che auspicano che la profilassi bio-psicologica possa essere estesa dall’ambito militare alla società tutta:

«Ma la profilassi deve maggiormente esercitarsi nel campo delle malattie morali, ed in ogni forma di infermità, sino anche ad investire le estreme variazioni fisiologiche della personalità umana, che dalla reazione ad una forma particolare di vita consociata trarrebbero ragione di perturbamento e di deviazione»303.

Il risultato di queste tensioni ideologiche, di questi bisogni corporativi, di queste dialettiche politiche, fu un dibattito contrassegnato dall’innesto del problema delle nevrosi belliche nel troncone delle istanze eugeniche volte alla liberazione dell’ordine sociale dai difetti psico-biologici. Il teatro principale di questo scambio di opinioni, di letture divergenti, di orientamenti diversi, furono le riviste scientifiche, dove la “nevrosi traumatica da guerra”, interpretata perlopiù come forma di isteria maschile, venne inquadrata nei termini di una inedita configurazione patologica, in grado di tenere insieme l’aspetto degenerativo legato alla predisposizione individuale e quello traumatico legato agli effetti del conflitto. Da questo solco teorico prese forma, soprattutto al termine della guerra, una spiegazione della diffusione epidemica dello shell shock meno riduttiva e generica di quelle di inizio conflitto e, quindi, per certi versi più convincente:

«Il fattore predisposizione ha certamente valore… - scrive Ferdinando Cazzamalli – ma in realtà la guerra colla coorte dei suoi agenti patogeni fisici, esteriorizza un’influenza assai grande nevropsicopatogena, alla quale soggiacciono pure in notevole misura soggetti a piena integrità fiosiopsichica, immuni da tare ereditarie e da precedenti morbosi…Nella guerra sono contenute cause traumatiche, dotate di così intenso potere neuro-psicopatogeno da turbare, sia transitoriamente, l’equilibrio nervoso del soldato

anche se costituzionalmente non predisposto»304.

302 Cfr. Psichiatria e guerra, in “Quaderni di psichiatria”, n. 9-10, settembre-ottobre 1915, vol. II, p. 397.

303 Cfr. P. Consiglio, Studi di psichiatria militare, parte IV, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, vol. 41, a. LII, 1915, p. 36.

304 Cfr. F. Cazzamalli, La guerra come avvenimento storico degenerogeno, in «Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina

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Ad essere messo in questione non è tanto la predisposizione, ma il suo uso strumentale, quello che permise ad esempio al Clerici, ancora nel 1905, sulla «Rivista di Psicologia», di negare la correlazione tra guerra e manifestazioni morbose305. La rielaborazione del paradigma, oltre che sotto il peso degli eventi, è legato ad un più generale processo di comprensione del fenomeno che, a-posteriori, cerca di spiegare qualcosa di inatteso che, per molti versi, ha scompaginato la diagnostica clinica e l’ermeneutica medica fissata nella tradizione. Tutto ciò avviene lentamente, senza scossoni, nei termini di successivi e progressivi aggiustamenti di categorie mai messe realmente in questione. Si rafforza così l’idea della guerra come avvenimento in grado di portare a compimento le istanze rigenerative presenti nella stirpe, di fare selezione tra i forti e i deboli. Scrive ad esempio Giacomo Pighini:

«La grande scuola della guerra palestra dei forti, esaltatrice delle più tenaci energie della stirpe, vaglia i valori umani, e ne smaschera le deficienze. Per ciò che riguarda la costituzione psichica, svela negli uni – e sono i più, per la buona ventura dei nostri alti istinti – la saldezza dello spirito e il vigore dell’animo; in altri svela la manchevolezza organica e sveglia la malattia mentale; in altri ancora – e sono per fortuna i meno – svela la manchevolezza del carattere, e indice spesso della dolorosa piaga della simulazione di pazzia»306.

In questo orizzonte i morti, i mutilati, le vite che dalla guerra non si sarebbero più riprese, rappresentano gli scarti che una metafisica e teleologica “ragione dei tempi” ha provveduto a eliminare dal consesso umano. Diversamente i sopravvissuti, e quanti erano riusciti in qualche modo a sfuggire alla furia della guerra, rappresentavano il nucleo della razza rigenerata, quella che, attraverso successive riproduzioni, avrebbe consentito all’Italia di guadagnare il proprio posto tra le potenze industriali e coloniali. Dunque, anche attraverso la configurazione inedita dello shell shock nei termini di patologia degenerativa, si compie quel processo che punta alla costruzione del cittadino ideale e che verrà sviluppato con maggiore consapevolezza ideologica durante il fascismo. Giungeva così a pieno sviluppo quell’istanza – che abbiamo definito lombrosiana – presente già alla fine dell’Ottocento nella psichiatria italiana e che, alla fine del conflitto, tiene insieme diversi ordini discorsivi: quello medico, quello legale, quello antropologico-criminale, quello biopolitico e quello eugenico. E’ in questa configurazione che, pur senza scadere nei teleologismi, deve essere individuata la radice più prossima di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco con le politiche di salvaguardia della razza e di difesa sociale.

All’inizio del conflitto questa realtà non è però ancora prefigurata con chiarezza. E i primi tentativi di comprensione del fenomeno possono essere descritti come un incerto e claudicante empirismo diagnostico che, attraverso il confronto con la situazione degli altri Paesi e per mezzo di una incerta e sommaria contabilità diagnostica, prova a spiegare e a rendere conto della diffusione su larga scala del fenomeno:

«Si è visto, tanto in Francia, quanto in Germania, che al principio delle ostilità scoppiavano specialmente delle psicosi alcoliche e delle psicosi acute da emozione per l’improvviso reclutamento in soggetti predisposti; talvolta si rivelavano demenze precoci latenti. Più tardi apparvero casi di psicosi confusionali, per esaurimento, per emozione sul campo di battaglia, per shock o commozione cerebrale indotta dal cosiddetto “vento degli obici”. In ultimo, prolungandosi la guerra, soprattutto dopo il periodo delle trincee, si svolgono forme piuttosto

305 Cfr. A. Clerici, Disturbi psichici dei combattenti, in «Rivista di Psicologia», 1915, pp. 113-114.

306 Cfr. G. Pighini, Il servizio neuro-psichiatrico nella zona di guerra, in «Annali del Manicomio provinciale di Perugia», 1915, fasc, 1-2-

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croniche, psicosi maniaco-depressive, confusioni allucinatorie, deliri di persecuzione, senza contare le paralisi generali, ecc.»307

Interventi come questo sono indice della scarsa consapevolezza clinico-sociale con cui il sistema- Italia affrontò la situazione. Si fa riferimento alle psicosi alcoliche e a quelle emotive, ma non si contestualizzano le ragioni dell’insorgenza, né si problematizza adeguatamente il nesso tra guerra e follia. Manca un sistema integrato di assistenza psichiatrica e, soprattutto nei primi periodi, il fenomeno viene sottovalutato nella convinzione che i manicomi sarebbero stati in grado di gestire i casi più problematici. Così il 1915 trascorre fondamentalmente alla luce di due istanze che abbiamo visto contraddistinguere le politiche di trattamento della follia nei decenni precedenti: individuare e punire i simulatori, trattandoli secondo il paradigma antropologico-criminale, e rispedire al fronte con rapidità i soldati alienati che potevano essere dislocati in funzioni e compiti ausiliari. Ma le polemiche non tardarono a dilaniare il fronte medico, soprattutto perché evidenti si dimostrarono le inefficienze del servizio psichiatrico. Il presidente dell’Associazione fra i Medici dei Manicomi Italiani, Antonio Brugia, già ad Ottobre del 1915 prese di mira Augusto Tamburini, presidente della Società Italiana di Freniatria, e consulente generale dell’esercito per il coordinamento delle politiche di trattamento. Brugia polemizzava per la scarsa considerazione riconosciuta ai medici dei manicomi che, a parer suo, proprio in virtù dell’esperienza maturata nel trattamento quotidiano della follia, avrebbero dovuto gestire «la osservazione e la prima cura dei nevrotraumatizzati»308; l’attacco proseguiva evidenziando l’enigmaticità della figura dei consulenti e l’incomprensibile ritardo con cui non si era ancora proceduto con l’istituzione dei servizi psichiatrici per gli “scemi di guerra”. Polemica concentrica, basata su argomenti difficilmente contestabili, anche alla luce dei ritardi e dei disservizi dei primi periodi. Davanti a questa situazione, però, l’azione delle autorità fu rapida e convincente e si concretizzò nella nomina di una serie di psichiatri con funzioni di consulenza per ognuna delle armate dislocate nel conflitto. A Verona, sede della I Armata, venne nominato Arturo Morselli, il figlio del celebre Enrico e autore di un diffuso manuale di psichiatria dopo la guerra; a Udine, presso il Comando della II Armata, venne inviato Vincenzo Bianchi, futuro parlamentare e membro del sottosegretariato per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra309; figlio inoltre di Leonardo, autore con Lombroso del saggio sul caso Misdea, nonché futuro ministro del governo Boselli; a San Giorgio di Nogaro, presso la III° Armata, venne nominato il medico Angelo Alberti, direttore del Manicomio di Pesaro, nonché direttore della rivista «Note e riviste di psichiatria»; infine, a Belluno, presso la IV° Armata, venne inviato il Giacomo Pighini, allievo di Paolo Mantegazza310.

Il processo di rapida organizzazione non si esaurì con queste nomine e a Leonardo Bianchi, già direttore del Manicomio di Napoli, nel Giugno del 1916, venne affidato il coordinamento dei servizi sanitari di guerra, mentre Enrico Morselli «diresse la sezione ligure dell’Associazione dei Medici per la resistenza nazionale»311. Nonostante le iniziali ritrosie delle autorità militari, convinte che il problema delle nevrosi belliche fosse da risolvere secondo paradigmi criminologici, l’articolazione del servizio fu rapida e contemplò anche l’istituzione, presso le linee del fronte in Carnia e Cadore, di due reparti avanzati per la prima osservazione e cura, nonché successiva distribuzione nelle retrovie dei militari alienati. Le strutture venivano incontro alla necessità di effettuare una prima opera di filtraggio e diagnostica per evitare che gli invii di massa intasassero i reparti delle retrovie;

307 Cfr. La direzione, Come provvedere ai casi di malattie nervose e mentali negli eserciti in guerra, in «Quaderni di psichiatria», 1915,

n. 5, p. 234.

308 Cfr. A. Tamburini, Sul servizio psichiatrico di guerra, in RSF, 1916, p. 509. 309 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p.64.

310 Cfr. Psichiatria e guerra, in “Quaderni di psichiatria”, 1915, p. 396. 311 Cfr. B. Bianchi, Psichiatria e guerra…cit., p. 325.

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la seconda linea era infatti quella presso cui, dopo un periodo d’osservazione, si valutava l’eventuale invio verso gli ospedali militari o, nei casi più gravi, presso i manicomi312.

Bisogna immaginare queste strutture di primo intervento come una realtà a metà tra il frenocomio classico e dei campi di prigionia difesi da filo spinato, posti di guardia e ronde militari313. Una sorta di prigionia coatta per gli internati, dislocata nei pressi delle prime linee, che doveva

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