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L’organizzazione del servizio psichiatrico che si andava delineando ricalcava la struttura operativa del servizio sanitario di guerra che, organizzato in tre stadi, puntava a risolvere le situazioni emergenziali. Fondamentali erano i presidi di primo soccorso e una rete capillare di luoghi di cura presso cui dislocare i feriti su tutto il territorio.

«Il servizio sanitario di guerra si svolge in tre zone. La prima zona, che è il campo delle ostilità, dispone, accanto ai posti di medicazione reggimentali, delle Sezioni di Sanità e degli Ospedaletti o degli Ospedali da campo. La seconda zona ha varie formazioni sanitarie, che servono come luoghi di dimora provvisoria per malati-feriti e come luoghi di collegamento tra i posti sanitari avanzati e quelli situati verso l’interno del paese e costituisce quindi il tratto di transito dei malati e feriti che verranno disseminati nelle retrovie. La terza zona comprende gli Ospedali militari territoriali, gli ospedali civili, messi a disposizione dell’Autorità militare, i Depositi di convalescenza adibiti a scopo di Ospedali. (...) Naturalmente lo scopo che deve avere il servizio psichiatrico-militare in prima ed in seconda linea sarà quello di accogliere, assistere e apprestare le prime cure agli alienati senza la preoccupazione di approfondire l’indole delle loro condizioni mentali, poiché è molto difficile, nelle zone avanzate, senza adeguati mezzi di osservazione, in condizioni di stabilità precaria e, soprattutto, in istato di animo non sereno, procedere alle indagini cliniche minuziose e delicate, che sarebbero necessarie»321.

Affinché il servizio funzionasse adeguatamente servivano alienisti da dislocare in prima linea per una diagnostica d’emergenza, ma lo scarso numero di medici – solo una quarantina quelli impiegati

presso la linea del fronte – non consentiva un’adeguata copertura delle zone322. Vista l’assenza di

un servizio organizzato prima della guerra, con medici e personale all’uopo formati, si risolse attraverso la chiamata alle armi degli alienisti disponibili, non soltanto cattedratici ma anche medici impiegati nelle diverse realtà manicomiali della Nazione. Ciò consentì di fare riferimento su di un

serbatoio di 180 psichiatri da alternare nelle diverse zone di guerra secondo necessità323. Questa

situazione – come si vedrà anche per il caso Racconigese – causerà alle diverse realtà asilari una quota aggiuntiva di problemi che produrranno continue e reiterate frizioni tra i direttori, le autorità provinciali e quelle militari. D’altra parte l’organizzazione di un servizio psichiatrico-militare dal nulla – o quasi – richiedeva interventi d’emergenza e così da subito, almeno dall’estate del 1915, Tamburini, si muoveva per ottenere dalle strutture manicomiali, dagli ospedali civili e da quelli militari, ma anche dalle università o dai presidi medici più piccoli, uno sforzo affiche fossero garantiti, presso ogni struttura, dei padiglioni, delle sale o comunque degli spazi da destinare al ricovero degli alienati militari. I risultati furono apprezzabili tanto che Enrico Morselli, nel 1916, afferma:

319 Cfr. P. Penta, La simulazione della pazzia e il suo significato antropologico, etnico, clinico e medico-legale, Francesco Perrella

editore, Napoli 1900.

320 Alcune osservazioni di Tamburini sui «rapporti tra psicopatie e alcune forme di reati» vedi le pp. 663 e segg di A. Tamburini, G. C.

Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie Nazioni…cit.

321 Cfr. A. Tamburini, G. C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni… cit., pp. 670- 675. 322 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 65.

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«per iniziativa delle Direzioni mediche di Manicomi sono stati istituiti in non pochi degli Stabilimenti situati in zona di guerra, speciali comparti riservati ai militari alienati, la cui cura non potrebbe essere fatta nei reparti di osservazione, sia per la entità, sia per la durata della malattia. Ne ricordo alcuni, quali i reparti impiantati nei Manicomi di Treviso, Udine, Vicenza, Verona, Bresca, ecc. E ometto quelli fuori della vera zona bellica»324.

Alla fine il servizio era basato su dieci reparti psichiatrici e sezioni di primo intervento dislocati nei pressi della linea del fronte e su una trentina di nuclei specializzati divisi tra ospedali civili, militari

e manicomi325. Le esigenze, però, con il trascorrere del tempo aumentarono tanto che le autorità

militari, superando ritrosie e incertezze, acconsentirono ad organizzare presso l’Università da campo di S. Giorgio di Nogaro326, corsi di psichiatria che consentissero al personale medico di completare gli studi secondo necessità e di operare così almeno nelle situazioni di maggiore emergenza e nelle circostanze di primo intervento. Questa «Scuola da campo, detta anche Università castrense»327, diretta dal Colonnello medico Tunisini, dell’Università di Modena, era organizzata presso i locali municipali di San Giorgio in Nogaro e presso strutture temporanee costruite dal Genio Militare e doveva servire per «preparare i giovani studenti di Medicina e Chirurgia per le urgenze particolari del servizio militare»328. La scuola medica, o da campo, attirò numerose critiche e, tra l’altro venne definita dalla Facoltà medica di Roma «superfetazione costosa, dannosa e inutile» ma, soprattutto, destarono dubbi i corsi accelerati, la loro spendibilità una volta terminata la guerra e l’effettiva utilità in termini di rapporto costi/benefici.

La prassi prevedeva che i soldati stazionassero nei reparti di primo intervento tra i dieci e i quindici giorni, giusto il tempo di consentire ai medici sommarie descrizioni diagnostiche e pratiche di intervento brutali che puntavano a individuare i simulatori o gli esagerati al fine di segnalarli alle autorità per le misure del caso. Nella maggior parte dei casi, però, i sintomi apparivano più tenaci e resistenti rispetto a quanto descritto dalle rassicuranti indicazioni delle autorità militari. I tremori fisici, la perdita della parola, lo stato confusionale, gli eccessi, la paura, i sentimenti d’oppressione lamentati e palesatisi davanti ai medici mostravano una situazione sconfortante, verso al quale i rimedi a disposizione apparivano inefficaci. Anche in tale ottica si spiega la scarsità di note diagnostiche inserite nella documentazione clinica; poche osservazioni, spesso limitate ai sintomi più evidenti, poche le conclusioni mediche vere e proprie, a sugello di una situazione d’impotenza generalizzata che si riprodurrà anche nella documentazione dei casi giunti in manicomio.

Soprattutto nel contesto più prossimo ai combattimenti emergeva tutta la distanza rispetto alle sottili distinzioni con cui sulle riviste scientifiche si discuteva dell’argomento, delle sue origini, cause ed effetti. Le distinzioni e le valutazioni qui prefigurate si scontravano con l’evidenza di una realtà di emergenza e di confusione, in cui medici spesso improvvisati dovevano far fronte a sintomi e a evidenze difficilmente classificabili.

«Chi, dopo mesi di servizio al fronte, era assegnato all’osservazione degli infermi colpiti nella sfera psichica, ed era ancora digiuno di letteratura psichiatrica di guerra, provava un senso di disagio e di disorientamento nella nuova pratica quotidiana: abituato al contatto con gli alienati negli stabilimenti manicomiali ed al ricordo dei quadri morbosi più o meno riferibili alle entità e alle sindromi delle note classificazioni psicopatologiche, egli urtava contro la difficoltà di

324 Cfr. E. Morselli, Psichiatria di guerra, in «Quaderni di psichiatria», III, 1916 [s.p.].

325 Ufficio storico di Stato maggiore dell’Esercito, fondo E7, b. 53, Relazione storica sui servizi sanitari in tempo di guerra, p. 836. 326 Cfr. Redazione, Per l’insegnamento clinico della psichiatria e neuropatologia al Corpo Sanitario Militare, in «Quaderni di

Psichiatria», 1916, p.72 e segg.; G. Tusini, Scopi e limiti dei corsi di Medicina e Chirurgia in Zona di Guerra, Udine 1916.

327 Cfr. Redazione, Per l’insegnamento clinico della psichiatria e neuropatologia al Corpo Sanitario Militare…cit. 328 Ibidem.

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classificare secondo il proprio acquisito abito mentale e i tradizionali concetti della clinica psichiatrica; e tale difficoltà ne teneva per qualche tempo l’animo sorpreso e perplesso»329.

Come detto, gli psichiatri impegnati nelle zone avanzate affrontarono perlopiù la situazione sulla base di terapie emergenziali sbrigative, le uniche ritenute in grado di modificare le condizioni patologiche transitorie e curare i sintomi «che impedivano al soldato il ritorno al servizio attivo»330. Ciò si tradusse in una certa libertà d’azione che, basandosi sui principi d’obbedienza militari, si declinò nell’abuso frequente delle terapie elettriche, delle minacce, dei tentativi ipnotici, di tutte quelle misure disciplinari che si riteneva potessero correggere l’elemento anormale. In particolare la terapia elettrica, utilizzata in Germania e Austria già dal 1915, su sollecitazione di Fritz Kaufmann, prevedeva l’applicazione di forti scariche elettriche alternate a fasi serrate di interrogatori con ordini, comandi, minacce331. L’orizzonte di fondo che spiega il largo uso di queste terapie è quello che nel soldato alienato individua un debole che, al di là della genuinità dei sintomi lamentati, soffre di quella mancanza di virilità che segna inequivocabilmente degenerati e predisposti. D’altra parte le interpretazioni meglio disposte verso la sofferenza dei soldati riconoscevano che costringere alla guerra gli uomini era per natura in conflitto con l’istinto di sopravvivenza, per questo erano necessarie misure da shock per forzare la volontà disfunzionale: «Forti scosse di terapia faradica applicate alla laringe o agli arti, provocando movimenti o suoni involontari, potevano far desistere dal mutismo o dalla paralisi isterica, o smascherare il simulatore, liberando così il medico dal più difficile e delicato compito diagnostico»332. Accanto alla faradizzazione si fece largo uso di pratiche intimidatorie, minacce, pressioni psicologiche e, ovviamente, mezzi contenitivi. Si riteneva che la predisposizione di un clima di terrore favorisse nei soldati il risveglio di quel coraggio necessario per guarire. Su questi indirizzi di massima gravava inoltre un diffuso sadismo da parte di medici esposti alle duplici tensioni prodotte dall’impotenza terapeutica e dalle logoranti condizioni di operatività. La convinzione poi, abbastanza diffusa, che le nevrosi belliche, in particolare quelle non sviluppatesi in presenza di lesioni organiche, fossero in qualche modo legate all’ambito della volontà disfunzionale del soggetto, spingeva i medici ad agire con ancora più energia e brutalità. E ciò era rafforzato dal successo del paradigma isterico-maschile che, sulla scorta degli studi di Joseph Babinski, legava il trauma bellico all’ambito dei «sintomi riproducibili con la volontà»333 e per questo guaribili attraverso pratiche controsuggestive basate su terapie energiche e risolutive.

Nel corso del conflitto, per far fronte ad una situazione che vide ben presto la saturazione delle sezioni di emergenza dislocate nei pressi delle prime linee, si rese necessario organizzare un servizio di rapido smistamento degli alienati verso le retrovie, in particolare verso i manicomi provinciali. Questi ultimi, gravati dall’incremento degli ingressi, dalla scarsità di medici e personale e dai problemi di rifornimenti, non erano però in grado di sopportare il carico, così le autorità autorizzarono l’istituzione di istituti specifici, tra i quali il più celebre fu il nevrocomio militare di Villa Wurt al Gianicolo di Roma334. Altre sedi furono quelle di Milano335, di Pavia, di Ferrara, di Genova, Perugia e Ancona. Il sistema, che tutto sommato riuscì a reggere tra il 1916 e il 1917, entrò in crisi a seguito della disfatta di Caporetto. Particolarmente stravolta fu la situazione degli ospedali da campo e delle sezioni psichiatriche in prima linea. Qui l’organizzazione prevedeva di solito una ventina di posti letto occupati dai militari che provenivano nel numero di 5 circa al giorno. Questo

329 Cfr. L. De Lisi - E. Foscarini, Psiconevrosi di guerra e piccole cause emotive, in «Note e riviste di psichiatria», 1920, n. 1, pp. 14-15. 330 Cfr. B. Bianchi, Psichiatria e guerra…cit., p. 327.

331 Cfr. F. Kaufmann, Die Planmassige Heilung komplizierter psychogener Bewegungstörungen bei Soldaten in einer Sitzung, in

«Münchener medizinische Wochenschrift», 9/5/1916, p. 802.

332 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 31. 333 Cfr. B. Bianchi, Psichiatria e guerra…cit., p. 328.

334 Cfr. A. Tamburini, Il nevrocomio militare a Villa Wurt al Gianicolo, Roma 1918.

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numero crebbe anche a 6-7 dopo Caporetto, in un contesto, però, messo in ginocchio dalla rottura degli equilibri precedenti. Se le descrizioni dell’esercito sbandato verso le retrovie fanno ormai parte della coscienza collettiva, altrettanto tragica fu la situazione dei reparti avanzati e degli ospedali da campo, costretti ad organizzare in una situazione d’emergenza il transito verso le retrovie del personale militare alienato. La situazione è descritta bene da una delle maggiori riviste psichiatriche, i «Quaderni di psichiatria»:

«Gli avvenimenti di guerra dell’ottobre e novembre u.s. hanno apportato notevoli mutamenti nei servizi Neuropsichiatrici dell’Esercito. Non solo si è dolorosamente perduta tutta l’organizzazione sanitaria nella zona invasa dal nemico, ma anche le Consulenze neuropsichiatriche della II. Armata (Udine), dell’Armata Carnica (Osoppo), della IV. Armata (Belluno), e infine della III. Armata (Cervignano-San Giorgio di Nogaro), si sono dovute effettivamente abolire o restringere. Di più il Reparto neurologico di Treviso, affidato al Magg. med. Prof. L.Gatti, è stato trasferito a Milano»336.

Nonostante la drammaticità di quei frangenti il sistema, nel complesso, seppe gestire anche questa impegnativa prova. Molto dipese dall’organizzazione multicentrica messa in piedi negli anni precedenti che, basata su realtà diverse – civili e militari –, riuscì a sopportare l’arrivo degli sfollati consentendo così una rapida riorganizzazione del sistema che ebbe uno dei suoi punti nevralgici nel «Centro neuropsichiatrico della zona di guerra» in Reggio Emilia, affidato proprio a Placido Consiglio, uno degli alienisti militari italiani con maggiore esperienza. Tale scelta si pose in continuità con le politiche di igiene sociale da tempo perseguite dal Consiglio e che, ancora una volta dopo una sconfitta – come già per Adua –, tornarono con forza poiché capaci di offrire, al contempo, un contesto interpretativo sulle ragioni della disfatta e un orizzonte riabilitativo per l’esercito e per la nazione. Riemergevano come attuali le parole da “fine della civiltà” che lo stesso Consiglio aveva scritto con l’esperienza libica davanti agli occhi per descrivere lo stato di abbruttimento della razza italica:

«Pur troppo la nostra razza, oggidì è debole: sembra che essa subisca il peso della sua grande attività […] il quale fiacca specialmente il carattere morale e la energia volitiva […] essa è anche –oggidì- poco temprata muscolarmente, fiacca di energie nervose, poco allenata alla prontezza di iniziative superiori, nella continuativa metodicità di lavoro, nella disciplina delle meditate attività del pensiero e delle azioni»337.

Nei confronti di questa realtà di debolezza la struttura diretta da Consiglio si poneva come un argine per evitare che la nazione avesse a subire ulteriori tragiche sconfitte a causa di contingenti militari minati all’interno dal morbo degenerativo. Il Centro neuropsichiatrico, con i suoi 1100 posti e la ripartizione interna basata sulle differenze patologiche, ma anche sulla maggiore o minore pericolosità sociale, rappresentava la messa in forma di quel lombrosianesimo che abbiamo visto innervare la psichiatria militare con maggiori tendenze igienico-sociali. Rigidi strumenti contenitivi, ferrea disciplina, frequenti sedute riabilitative basate su terapie energiche, questo era il programma terapeutico di una struttura che programmaticamente si poneva l’obiettivo di purificare il “corpo ammalato” dell’esercito.

La guerra terminò e, tutto sommato, la sinergia tra queste misure diverse, l’azione rieducatrice condotta nelle diverse sezioni in prima linea e la procedura di smaltimento di questa rilevante massa di uomini verso le retrovie – presso i manicomi e gli ospedali di riserva –, funzionò e l’esercito riuscì

336 Cfr. Psichiatria e guerra, in «Quaderni di Psichiatria», 1918, p. 90.

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sotto le pressanti esigenze dell’emergenza a dotarsi di un servizio neuro-psichiatrico che, tenuto conto del ritardo della situazione iniziale, svolse il suo compito. Lo riconosce, già nel 1916, Enrico Morselli quando sostiene:

«L’organizzazione del servizio sanitario psichiatrico, così come si è venuta sviluppando dalla primitiva concezione, non è da ritenersi in nulla inferiore a quella posta in atto presso altri Eserciti: anzi, se si deve giudicare da quanto si è letto di questi, deve essere ritenuta per alcuni riguardi superiore. Essa segna in ogni modo un progresso, del quale la Psichiatria non potrà che avvantaggiarsene sia fin da ora, sia nell’avvenire»338.

Certo, questo almeno secondo i paradigmi terapeutici che abbiano finora descritto e che sono da inquadrare all’interno del discorso medico-sociale. Un discorso che, coerentemente con le premesse organicistiche innestate nel solco lombrosiano, riteneva la guerra un acceleratore degenerogeno in grado di produrre autonomamente quegli anticorpi sociali attraverso cui la specie salvaguarda se stessa. La guerra in tutto ciò si configura come un fattore di accelerazione in grado di recidere le titubanze e i dubbi che invece persistono nel tempo ordinario.

«In conclusione, se la guerra non crea nuove forme di psicosi, disvela ed aggrava le disposizioni psicopatiche e le latenze nevrotiche, anche in soggetti che senza di ciò sarebbero forse rimasti sani; donde la necessità di un risanamento morale preventivo nelle truppe, prima della guerra, e di una attiva igiene mentale dei soldati prima della battaglia; il soldato non deve considerarsi un semplice esecutore di ordini, ma bisogna valutarne, e saperne valutare, le perdite di energie nervose e psichiche, che possono condurre a défaillances improvvise – per quanto transitorie se subito curate, o prevenute, – in seguito all’azione delle marce prolungate, dell’alimentazione insufficiente, delle veglie protratte, dell’agitazione nervosa e della insonnia che ne risultano»339

Il risanamento morale da perseguirsi in tempo di pace diventa allora lo sfondo che conferisce senso a un’azione medica che solo collateralmente si pone il problema di guarire la variegata e superflua – alla luce dei paradigmi menzionati – umanità colpita dalle nevrosi belliche. Folli morali, criminali nati, degenerati, epilettici, isterici, confusi mentali, sono in tale ottica soltanto le declinazioni diverse di una popolazione degenerata che deve essere controllata, resa inoffensiva e votata alle necessità della nazione. E la guerra non può che rafforzare questa convinzione. Si profila un orizzonte disciplinare pervasivo, irrealizzabile nei fatti, ma indice di un ordine discorsivo in cui le figure dell’alienista e quelle dell’eugenista si intrecciano e si confondono, sancendo la difficoltà ermeneutica di tracciare chiaramente i confini e le peculiarità. Anche e soprattutto in questa difficoltà emergono controluce l’insieme di contraddizioni che interessano l’alienismo italiano del periodo – di cui quello militare è un sottoinsieme –. In mezzo a ciò, vittime ripetute di queste dinamiche, i “nevrotici di guerra” che, equiparati a “criminali nati”, non godettero né di adeguate politiche riabilitative prima, né di riconoscimenti sociali poi, una volta terminato il conflitto. Infatti pochi di loro riuscirono a far riconoscere la propria disabilità mentale e quindi ottenere una

pensione di guerra340. In compenso furono oggetto di riprovazione e stigma sociale, in un contesto

storico, quale quello del dopoguerra, proteso verso il fascismo e, proprio per questo, poco disposto a riconoscere le loro ragioni.

338 Cfr. E. Morselli, Psichiatria di guerra, in «Quaderni di psichiatria», III, 1916 [s.p.].

339 Cfr. P. Consiglio, La pazzia nei militari in guerra, intervento al XIV Congresso della Società freniatrica italiana, Perugia, 3-7 maggio

1911, in RSF, vol. 38, a. XLIX, 1912, p. 255.

340 Secondo i dati dell’«Opera nazionale per la protezione ed assistenza degli invalidi di guerra» furono solo 2000 le pensioni

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Parte II

Il disagio mentale nell’esercito alla vigilia

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