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A guerra quasi ultimata, nel 1918, in un’opera scritta con Giulio Cesare Ferrari, direttore dell’Ospedale Provinciale di Imola, e Giuseppe Antonini, direttore del manicomio di Mombello, Augusto Tamburini, a sua volta direttore dell’Istituto Psichiatrico di Roma e psichiatra tra i più celebri in Italia, così introduce la questione dell’assistenza agli alienati nell’esercito:

«la necessità di un’organizzazione psichiatrica nell’esercito, che sia più conforme ai dettami della moderna psichiatria e della psicologia criminale, è rivelata dall’andamento delle malattie nervose e mentali, segnalato dalle statistiche dei vari Eserciti, nonché dai voti formulati da medici italiani o stranieri, militari e civili, per un miglioramento di questo ramo di servizio medico negli Ospedali militari»192.

Il passo contiene almeno due indicazioni importanti. La prima riguarda il riferimento alla “psicologia criminale”, ritenuta la tassonomia d’elezione per affrontare la questione delle malattie nervose nei militari. La seconda fa riferimento a un necessario ammodernamento dell’organizzazione psichiatrica militare. I due punti si trovano tra di loro in un rapporto di stretta dipendenza e ciò può essere apprezzato una volta tenuto conto che proprio l’affermazione del paradigma della “medicina sociale”193, quello che tratta la questione degli alienati militari alla luce della psichiatria criminale e dell’antropologia lombrosiana, è anche una delle ragioni del disinteresse sul piano medico delle autorità militari per il problema e, quindi, del mancato sviluppo dei servizi psichiatrici nell’esercito. Infatti, quest’ultimo, ancora negli anni immediatamente precedenti al Primo Conflitto Mondiale, scontava un ritardo significativo sul piano dell’organizzazione del servizio e questo a differenza della Regia Marina che, fin dalla guerra di Libia, si era mossa attrezzando l’ospedale di La Spezia con apposite sale per il ricovero e l’osservazione del personale alienato.

Le ragioni di tale ritardo sono diverse e interessano, più in generale, il destino delle scienze del comportamento mentale – psichiatria e psicologia – in Italia. Le conseguenze del rapido affermarsi del paradigma criminologico di derivazione lombrosiana avevano infatti contribuito a determinare

192 Cfr. A. Tamburini, G. C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie Nazioni, UTET, Torino 1918, p. 656. 193 Cfr. P. Consiglio, La medicina sociale nell’esercito, estratto dal «Giornale di Medicina Militare», [Maggio 1914], Tipografia Entico

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uno sviluppo incerto dell’alienismo militare italiano, più orientato verso il controllo disciplinare dell’anormalità che sulla cura e l’interessamento medico per il destino del folle. Più in generale ciò non significa negare l’effervescenza e la vitalità di psichiatria e psicologia italiane, ma contestualizzarle alla luce di una storia su cui pesa non soltanto la funzione reclusiva svolta dall’istituzione manicomiale, ma anche il valore che la tanto attesa legge Giolitti sull’assistenza degli alienati del 1904 ha avuto nello sviluppo delle politiche cliniche rivolte ai malati di mente. In particolare la fisionomia della psichiatria194, intesa come scienza della diagnostica e della correzione dell’anormalità mentale195, e della psicologia196, da intendersi come scienza «indirizzata all’esatta valutazione dell’indice intellettivo e morale»197, a inizio Novecento, dipendeva dalla vitalità del positivismo e dal suo innesto in un orizzonte paradigmatico che identificava la follia nei termini di un problema di criminalità. Alla base di questa contaminazione di istanze diverse, e non necessariamente congruenti, ci sono tutte le difficoltà di un sapere – quello psichiatrico198 – che ambisce al riconoscimento dello statuto di scienza, pur non potendo vantare quelle prerogative di chiarezza e certezza che sanciscono la differenza principale tra la il sapere scientifico e gli altri generi discorsivi. In tale ottica il vertiginoso aumento degli internati in manicomio, il fallimento delle politiche di trattamento della malattia mentale, le difficoltà di presentare soluzioni mediche che non siano semplici espedienti attraverso i quali espellere il problema “follia” dalla comunità, sono tutti elementi che concorrono alle difficoltà della psichiatria e che, per molti versi, la indirizzano verso terapeutiche energiche e sbrigative, le uniche in grado di offrire l’illusione di poter in qualche modo “curare” – e quindi gestire – il problema.

Più in generale, tra Otto e Novecento, la congiuntura psichiatrica affronta un momento di transizione legato alla crisi del modello positivista e alla sua evoluzione verso un orizzonte di tipo biologico e organicista. E le soluzioni di retroguardia adottate nella pratica clinica, quali il disconoscimento dell’elemento psichico a favore di quello biologico, non erano altro che la testimonianza più evidente della difficoltà di abbandonare un paradigma ormai logoro e della difficoltà di acquisirne uno più rispondente al sentire del tempo199. In questa congiuntura va collocata la citata Legge Giolitti, un provvedimento atteso da tempo, necessario per dare ordine e regolamentare l’afflusso nei manicomi che, in Italia, svolgevano funzioni diverse, tra cui quella particolarmente onerosa e non ufficializzata dell’assistenza pubblica nei confronti della povertà

diffusa200, in un momento in cui le trasformazioni sociali ed economiche investivano la comunità

provocando un aumento delle diseguaglianze e, conseguentemente, un maggior carico per le strutture assistenziali presenti nei territori201. D’altra parte l’ambiguità dell’istituto manicomiale era costitutiva e affondava le sue radici nel processo di definizione attraverso cui, a partire dal

194 Cfr. F. Stok, La formazione della psichiatria, Pensiero scientifico, Roma 1981.

195 Per la categoria di «anormale» vedi: M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), trad.it. di V. Marchetti e

A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000.

196 Cfr. S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze 1992.

197 Cfr. A. Tamburini, G. C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie Nazioni…cit., p. 666.

198 Il discorso che sviluppiamo in queste pagine fa riferimento soprattutto alla psichiatria, anche se, nel periodo esaminato, i confini

che la separano dalla psicologia non sono netti e risultano permeabili e spesso sovrapponibili.

199 Cfr. C. Pogliano, La Grande guerra e l’orologio della psiche, in “Belfagor”, n.4, 1986, p. 403.

200 Sulle politiche assistenziali tra Otto e Novecento vedi: G. Procacci, Welfare-Warfare. Controllo sociale, assistenza e sicurezza 1880-

1919, in AA.VV., Assistenzialismo e politiche di controllo sociale nell’Italia liberale e fascista, “Materiali di discussione”, Università

degli Studi di Modena, luglio 2001; U. Ascoli, Il sistema italiano di welfare, in Id. (a cura di), Welfare State all’italiana, Laterza, Roma- Bari 1984; R. Bartocci, Alle origini del welfare state, in V. Cotesta (a cura di), Il Welfare italiano. Teorie, modelli e pratiche dei sistemi

di solidarietà sociale, Donzelli, Roma 1995; R. Bartocci, Le politiche sociali nell’Italia liberale (1861-1919), Donzelli, Roma 1999; G.

Silei, Lo Stato sociale in Italia. Storia e documenti, vol. I, Dall’Unità al fascismo (1861-1943), Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2003; G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società e salute da Crispi al fascismo, il Mulino, Bologna 1997.

201 Cfr. A. De Bernardi, F. De Peri, L. Panzieri, Tempo e catene. Manicomio, psichiatria e classi subalterne. Il caso milanese, Franco

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Settecento, il sapere medico si era posto il problema della follia e del suo trattamento202. Il paradosso è che «l’elaborazione di un modello istituzionale di cura degli alienati, quale il manicomio, da parte della scienza medica, va […] collocato sullo sfondo di una utopia sociale di umanizzazione dell’uomo mediante il sapere scientifico, che ha ispirato il pensiero illuminato e successivamente quello positivo»203. Un vasto anelito riformatore che si è dislocato lungo tutto l’Ottocento e che si contraddistingue soprattutto per il concreto fallimento in cui si è declinato l’intento filantropico e umanista che lo caratterizza inizialmente. Alla luce di ciò il “grande internamento” che caratterizza il periodo tra Otto e Novecento, e che suscita così tante proteste da parte delle direzioni mediche del tempo, appare come l’ennesima declinazione di un insuccesso delle politiche di trattamento della follia, cui si è cercato di rimediare attraverso l’istituto manicomiale.

In questo orizzonte di contraddizioni e tensioni divergenti un ruolo non secondario lo ha giocato l’ambiguità con cui il sapere medico e scientifico si è confrontato con la “follia”, un oggetto difficile da trattare che ha suscitato storicamente risposte e politiche di trattamento sempre oscillanti tra l’indagine anatomo-patologica del cervello, ritenuto biologicamente disfunzionale, e il tentativo ermeneutico e descrittivo di comprendere il vissuto interiore del folle, ritenuto in qualche misura disciplinabile una volta individuate le condizioni di funzionamento ideativo e le cause. Da una parte indagine sul campo di tipo anatomo-patologica, dall’altra osservazione del malato, dei suoi comportamenti, delle cause disfunzionali che lo determinano. Questi due poli hanno rappresentato durante tutto l’Ottocento, nelle diverse declinazioni ideologiche in cui si sono concretizzati i tentativi di cura, gli estremi di un confronto con il problema della follia che per forza di cose non è stato solo medico e sociale, ma anche politico e teorico.

Nello specifico durante il XIX° secolo è l’ottica anatomo-patologica, che individua nell’organo e nelle sue malformazioni l’origine della sofferenza, a prevalere, segnando così l’orizzonte terapeutico e la riflessione di medici e alienisti. L’idea che la malattia mentale derivi da una lesione d’organo o da un suo mal funzionamento pone una serie di questioni relative alla curabilità della malattia mentale e alla gestione dei folli. Come si può “normalizzare”, «vale a dire riportarlo al piano della

razionalità e del senso comune»204, questo folle che ontologicamente risulta “diverso”? La risposta

che si delinea è quella di predisporre adeguati “contenitori” entro rinchiudere i folli per sottoporli all’azione “terapeutica” del medico ventiquattro ore su ventiquattro. Il progetto è quello sviluppato a partire dalle indicazioni del più celebre dei riformatori psichiatrici, Esquirol, che nel 1838 lo presenta in un’opera destinata a segnare lo sviluppo della storia dell’alienismo: Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et médico-légal205. Qui vengono definiti almeno due elementi fondamentali: il valore dello spazio manicomiale come perimetro d’esercizio per la correzione e rieducazione del malato di mente e della sua razionalità disfunzionale; il ruolo dell’alienista, a tutti gli effetti responsabile non soltanto della strategia correttiva adottata, ma anche dell’esistenza stessa del folle alle sue cure assegnato. Con il manicomio, inoltre, il malato di mente acquisiva, anche per destinazione, uno statuto del tutto particolare che lo rendeva diverso dagli altri malati; ciò concludeva un ideale percorso, già prefigurato attraverso la precedente dislocazione in stanze e ambienti specifici all’interno degli ospedali comuni o degli ospizi di carità. Il suo isolamento, la separazione dalla comunità di cui, per nascita, fa parte, sanziona così una esclusione raddoppiata che alla condizione di alienazione mentale aggiunge la separazione sociale sancita attraverso provvedimento esecutivo. Da questa svolta la storia della psichiatria diviene inscindibile da quella dei manicomi, delle funzioni per loro previste e da quelle effettivamente

202 Cfr. F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento in Storia d’Italia,

Annali vol.7, Einaudi, Torino 1984, pp. 1056-1140.

203 Ivi, p. 1059. 204 Ivi, p. 1067.

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svolte. Istituto, custodia e cura sono così termini che in questo orizzonte paradigmatico si sovrappongono e si rincorrono, senza mai separarsi davvero, tanto da ridurre la terapia della malattia mentale al valore medico delle condizioni cliniche e ambientali del manicomio.

Dalla metà dell’Ottocento questo quadro conosce uno sviluppo ulteriore che afferma ancora più radicalmente una concezione materialistica dell’organismo umano e delle sue funzioni. In ordine a ciò i sintomi che rimandano alla condizioni patologica devono essere indagati attraverso la lente di saperi in grado di catturare il funzionamento “meccanico” dell’essere umano. La prassi medica si declina sempre più in microfisica anatomica e la clinica, come riconosciuto dal medico Filippo Lussana, tende sempre più a celebrare l’indagine elementare dell’organo disfunzionale, ritenuto

sede e origine dell’equilibrio patologico206. Il successo epistemologico di questa micro-semeiotica

precede e per molti versi indirizza l’affermazione delle idee positivistiche in ambito medico ma, soprattutto, conferisce alla categoria degli alienisti la convinzione di essere finalmente dei medici specialisti, gli unici in grado di indagare e operare sull’organo malato responsabile della malattia

mentale: il cervello207. Una svolta che, almeno apparentemente, poneva al riparo l’alienismo dalle

metafisiche trascendentali dell’idealismo e dalla distanza che questa tradizione sanciva rispetto alle scienze naturalistiche. In ballo c’era la credibilità scientifica di una disciplina che, avendo a che fare con un oggetto misterioso, quale la mente, era sempre a rischio di veder compromesso il proprio statuto epistemologico.

Se questa molto sommariamente descritta è l’evoluzione dell’orizzonte psichiatrico, la situazione italiana presenta delle specificità. In particolare l’alienismo italiano, per rafforzare la propria credibilità scientifica, doveva innanzitutto darsi una organizzazione stabile, con delle scuole e, quindi, una possibile tradizione disciplinare attraverso cui affermare il proprio ruolo. Il proposito viene raggiunto grazie all’azione di Andrea Verga che, insieme a Serafino Biffi, fa di Milano il centro di irradiazione sperimentale di una psichiatria con ambizioni accademiche e politiche. Verga, direttore del manicomio milanese della Senavra dal 1843 al 1852 e, di seguito, cattedratico presso l’Ospedale Maggiore di Milano208, grazie a indubbie capacità organizzative riesce nel difficile compito di inserire «i problemi della nascente psichiatria nel contesto del dibattito che si andava animando in quegli anni sullo sviluppo nazionale delle scienze mediche».209 Lo fece soprattutto attraverso la fondazione di una rivista, l’«Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali», che per tutta la fine dell’Ottocento rappresentò lo spazio di sperimentazione e confronto più importante per l’alienismo italiano. Il progetto che teneva in piedi la rivista era qualcosa in più del resoconto degli studi e delle ricerche degli psichiatri italiani, puntava infatti alla costituzione di un movimento scientifico in grado di far sentire la propria voce e dialogare con le istituzioni e con la politica. E in riferimento a ciò la «scuola di Milano», la comunità scientifica guidata dall’azione di Verga e Biffi, perorò in particolare l’istanza di una «legge protettrice degli alienati»210, necessaria per regolare la situazione incerta degli anni successivi all’Unità. Il provvedimento, la «Legge Comunale e Provinciale n.2248» del 1865, quando finalmente venne emanato sembrò esaudire le richieste da tempo avanzate dal mondo alienista ma, affidando l’assistenza dei malati di mente alle province, non risolse i dubbi, le incertezze e le ambiguità sul ruolo dei manicomi in ordine al trattamento dei folli e della psichiatria in relazione a questi due elementi. Il problema principale, evidente a Verga, era quello di uno scollamento tra il mondo dell’alienismo e la più ampia comunità scientifica e, in relazione a ciò, la Legge n.2248 rischiava di

206 Cfr. F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento…cit., pp. 1079-

1080.

207 Cfr. V. P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento, Il

Mulino, Bologna 1982, p. 15.

208 Ivi, p. 30.

209 Cfr. F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento…cit., p. 1082. 210 Cfr. A. Verga, Editoriale in «Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali» 1864.

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essere un peggioramento della situazione che andava nella direzione di legare sempre più l’azione dello psichiatra alla sfera manicomiale, di fatto sancendo un’esclusione sociale parallela a quella degli alienati. Era necessaria un’azione politica di ampio respiro, in grado di evitare proprio che le politiche di trattamento della follia e il ruolo di alienisti e manicomi venissero esclusi dai dibattiti più ampi sulla medicina, sulla sua funzione, sui problemi e le opzioni che le prospettive idealiste e positiviste ponevano in relazione alla cura e alla diagnostica. Così nel 1873 il gruppo che si ritrova intorno all’«Archivio italiano per le malattie nervose», durante l’XI Congresso degli Scienziati Italiani, riesce a porre sul tavolo delle discussioni una petizione da sottoporre al Governo incentrata su quattro argomenti211: una legge che tuteli gli alienati in forme più chiare ed evidenti rispetto a quelle del provvedimento n. 2248; un piano per una tassonomia uniforme delle diverse forme morbose mentali; una statistica generale degli alienati del Regno; una società in grado di portare avanti le istanze della psichiatria italiana in maniera organica. Quest’ultimo punto portò alla costituzione della «Società Freniatrica italiana» che nell’anno successivo, il 1873, tenne il suo primo congresso a Imola, riunendo 88 membri.

Se con la costituzione della «Società» il progetto del Verga e della sua scuola sembrava aver raggiunto un punto decisivo, ciò non modificava nel medio periodo lo statuto incerto della psichiatria italiana, schiacciata tra incertezze epistemologiche, sudditanze accademiche e debolezze politiche. In questa situazione emerse con sempre maggiore spinta un’altra “scuola”, per molti versi alternativa a quella Milanese, anche se più per ragioni di opportunità e di posizionamento politico che per reali divergenze teoretiche: la scuola Reggiana. Questa, che aveva il proprio centro di riferimento nel manicomio di S.Lazzaro, si giovava della spinta di giovani alienisti come Enrico Morselli e Augusto Tamburini, desiderosi di riaffermare la centralità empirica dell’analisi anatomo- patologica della malattia mentale e di “svecchiare” così la psichiatria italiana, liberandola da quelle che venivano percepite come tante inutili e asfittiche questioni di provincia. Politica da una parte, clinica e teoria dall’altra, così viene rappresentato il conflitto che in realtà, dietro queste rappresentazioni manichee, cela tutta l’effervescenza di un movimento – quello psichiatrico – frantumato per alcuni versi sul piano cronologico dei suoi maggiori esponenti ma, soprattutto, diviso sugli orizzonti e le prospettive attraverso cui modulare il proprio ruolo nella geografia più ampia dei movimenti e delle correnti internazionali. Così, nel 1875, la «scuola Reggiana» fondava una propria rivista, la «Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale», che negli intenti doveva sviluppare tanto l’aspetto sperimentale dell’indagine nervosa e psichica, quanto quello anatomico dello studio empirico-patologico del cervello. Aspetto antropologico e indagine clinica si fondevano in questo precario e incerto tentativo di mantenere istanze diverse, che afferivano tanto alla rivoluzione fisiopatologica tedesca di Griesinger, quanto alle sollecitazioni provenienti da Oltralpe. In fondo a tutto ciò c’era il fermo intendimento di mantenere l’alienismo italiano fuori dai provincialismi e di collegarlo alle istanze più moderne provenienti dal contesto internazionale.

Tra gli intenti della «scuola Reggiana» c’era quello di indagare le diverse “frenopatie” che colpivano il folle nei termini di «malattie dell’organo cerebrale»212; non sorprende dunque l’incontro

con la figura di Cesare Lombroso213, medico veronese da diversi anni impegnato a sviluppare studi

di confine e ibridazioni teoriche sul crinale tra antropologia, psichiatria e clinica. Anche se, nonostante l’interesse mostrato da diversi esponenti, in particolare da Enrico Morselli, gli studi di

211 Cfr. V. P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento…cit.,

pp. 29-30.

212 Cfr. F. De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento…cit., p.1088. 213 Sulla figura di Cesare Lombroso: (Verona, 1835 - Torino, 1909) vedi almeno: D. Frigessi, Cesare Lombroso, Einaudi, Torino 2003; F.

Giacanelli, Il medico, l’alienista, in a cura di F. Giacanelli, L. Mangoni e D. Frigessi, C. Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti, Bollati Boringhieri, Torino 1995; R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano 1985.

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Lombroso vennero sempre guardati con quel misto di attrazione e sospetto che ne pregiudicarono una completa e organica adesione di scuola.

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