Esperienza bellica, follia e soldati internati in manicomio (1915-1919)
1. Sfuggire alla guerra: i disertori.
La figura del soldato delinquente, così come si è andata costruendo sulla base di saperi, pratiche e discorsi, nella seconda metà dell’Ottocento, ha nella rappresentazione del disertore una declinazione paradigmatica e dalla straordinaria potenza evocativa. Decenni di retoriche improntate alla costruzione identitaria dell’italiano, e per questo basate su ingredienti narrativi quali i doveri del cittadino, la necessità di servire la nazione, l’immaginario virile921, hanno come risultato il discredito politico e sociale della figura del disertore, identificato nei termini di nemico della patria e della collettività. Per molti uomini, invece, questa fu l’unica strada per abbandonare un conflitto insopportabile, insieme ai suoi orrori. Un gesto di ribellione922 forse, quasi sicuramente l’ultima e più rischiosa opportunità per evitare il fronte, in alcuni casi la giustizia e comunque gli obblighi imposti dalla disciplina militare923. Come riporta Bruna Bianchi,
«secondo i prospetti statistici che Giorgio Mortara compilò nel 1927 per conto del ministero della Guerra, le denunce per renitenza dal 24 maggio 1915 al 2 settembre 1919 furono 470.000 (di cui 370.000 italiani residenti all’estero); le denunce per diserzione furono 189.425. Se quindi nell’arco dei 4 anni di guerra 1 soldato su 12 subì un processo penale, 1 soldato su 26 comparve di fronte ai giudici militare per rispondere del reato di diserzione e 1 su 41 subì una condanna»924.
Il dato indica un rifiuto della guerra, in senso lato, abbastanza diffuso tra i soldati italiani. Bisogna però sottolineare che in molti casi la denuncia di diserzione scattava facilmente, anche per ritardi da rientri post-licenze dovute alle cause più diverse: difficoltà a raggiungere il reparto d’appartenenza, malattie non comunicate, partenze ritardate, difficoltà nelle comunicazioni. «In base al codice penale […] per essere considerato disertore era sufficiente rimanere assenti per due chiamate successive (che generalmente avvenivano nell’arco di 24 ore)»925. Sempre in base al medesimo codice non era sufficiente dimostrare la breve durata del ritardo, infatti il criterio che teneva in piedi il meccanismo d’accusa era legato alla volontarietà dell’assenza, anche minima. Insomma, una volta stabilità l’intenzione dell’interruzione del servizio militare l’accusa procedeva quasi in automatico e una delle poche possibilità di sfuggire alla condanna davanti ai tribunali era
921 Cfr. S. Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Carocci, Roma 2011. 922 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 160.
923 Sul fenomeno della diserzione, oltre al volumi di Bruna Bianchi vedi almeno: G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande
guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Bollati Boringhieri, Torino 2016; E. Forcella-A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1968.
924 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 160. 925 Ivi, p. 161.
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dimostrare il «vizio mentale» che, una volta riconosciuto, di solito determinava il successivo provvedimento di «riforma dal servizio».
La rigidità della normativa si spiega mettendola in relazione alla politica disciplinare più volte menzionata, a sua volta legata al più generale processo di costruzione di una comunità nazionale. E anche sulla base di ciò deve essere contestualizzata la durezza delle pena che riguardava sia la diserzione «in presenza» o «in faccia al nemico», che quella all’«interno». Alla prima competeva la condanna a morte attraverso fucilazione, alla seconda pene fino a quindici anni. I procedimenti furono perlopiù rapidi, sommari e condotti sotto una pressione politica orientata al rigore e al riconoscimento della gravità dell’infrazione. I processi avvenivano spesso senza che venissero ascoltati i testimoni della difesa o che fossero accolte prove a favore dell’imputato. Per gli accusati tutto si risolveva nell’affidarsi alla clemenza del collegio giudicante, nella speranza di incorrere in giudici non troppo severi.
Il fenomeno, in particolare durante il 1917, assunse proporzioni tali da rappresentare una delle preoccupazioni principali per le autorità militari. Per molti versi non erano allarmismi esagerati, basti pensare che solo nei mesi estivi di quell’anno si verificarono 22.000 diserzioni e che a ottobre, secondo il Comando Supremo, i renitenti ammontavano a 50.000 unità. In diversi casi i disertori erano soggetti già condannati precedentemente e, dunque, disposti a rischiare tutto pur di evitare la guerra. Per questa ragione, attraverso il decreto n.187 del 4 nel Febbraio 1917, venne estesa la possibilità di condannare a morte i disertori recidivi per la terza volta. E il 14 Agosto, con un ulteriore provvedimento, la pena di morte veniva stabilita nel caso di diserzioni che coinvolgevano militari in prima linea. In queste circostanze inoltre, con provvedimento del 10 Dicembre 1917, diveniva anche automatica, e non più discrezionale, la confisca dei beni. Tutto ciò influiva non soltanto sul morale delle truppe, ma anche sulle famiglie a case esposte al rischio delle sanzioni per i comportamenti di ribellione dei congiunti. Eppure, come è stato osservato dalla storiografia più attenta926, dietro ogni processo per diserzione, alle spalle di ogni vicenda di abbandono del proprio posto, c’è una storia singolare che difficilmente può essere inquadrata come un premeditato e consapevole gesto di ribellione nei confronti dell’esercito o della nazione. Molto più spesso la diserzione si inserisce in situazioni e vicende particolari, in cui giocano un ruolo non secondario la rabbia, la frustrazione, il dolore e, anche, la ribellione nei confronti di un sistema ritenuto iniquo e spesso incomprensibile. Gli stessi elementi responsabili delle crisi nervose e del disagio mentale che condussero tanti soldati in manicomio.
1.1 Dalla diserzione alla morte in manicomio: Stefano B.
Come il militare Stefano B., nato a Mondovì nel 1882 e inviato a Racconigi il 25 Settembre 1917 proprio dalle carceri giudiziarie del suo paese d’origine927. L’estratto matricolare del detenuto ce lo descrive come un uomo di 35 anni, alto 1 metro e 62 cm., con i capelli neri e la fronte alta, occhi e baffi castani. Segni particolari: condotta «cattiva». Sono queste le informazioni redatte dal Capoguardia Ferrero delle carceri militari di Mondovì, dove Stefano B. viene inviato dal reparto d’appartenenza, il 34° Reggimento Fanteria, che lo denuncia per «diserzione» e «insubordinazione»928.
Il militare giunge in manicomio senza essere accompagnato da «note anamnestiche ufficiali»929
ma, interrogato in diverse riprese, «ammette che da lungo tempo abusa di vino e liquori. […] Dice
926 Cfr. A. Scartabellati, Esistenze mutilate. La storia senza riscatto dei folli di guerra, Relazione originale presentata alla giornata di
studio ANMIG sull’esperienza dei mutilati di guerra, Firenze, 04-05 giugno 2015.
927 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10244. 928 Ivi, Estratto matricolare del detenuto: titolo del delitto.
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che più volte è stato in prigione per disordini commessi in stato di ubriachezza e per furti di vino»930. La diagnosi provvisoria è quella di «stato maniacale». Internato e sottoposto ad attenti controlli alterna fasi depressive ad altre maniacali: la notte non dorme, disturba, è scosso ha frequenti impulsi psico-motori e aggredisce sovente gli altri pazienti. Il 26 Novembre del 1917, visto il perdurare delle condizioni di profonda instabilità, e considerato lo stato generale psico-fisico, viene prosciolto dall’accusa di diserzione dal tribunale di Alessandria, perché riconosciuto «affetto da “stato maniacale”»931. Il 25 Febbraio, proprio in virtù del suo stato, viene riformato dal servizio militare e affidato alle “cure” del manicomio provinciale di Cuneo. Pochissime le notizie cliniche relative al resto del 1918 e a buona parte del 1919, riassumibili in: «da qualche tempo più ordinato, tranquillo, operoso»932. Qualche mese dopo, nel 1919, si sottolinea invece «l’ottundimento del senso morale»933 e il fatto che «della famiglia mai domanda, né si interessa. Parla del suo vizio inveterato di bere, dei furti commessi di vino, degli atti d’insubordinazione, d’infrazioni alle leggi, come della cosa più naturale e senza che il ricordo susciti in lui il più breve stato emozionale. In
reparto si interessa di nulla, si mostra bene ambientato»934. Verso la fine dell’anno compaiono sul
suo corpo «ascessi metastatici»935 e il 7 Gennaio si segnala che «da qualche giorno si è fatto irrequieto, clamoroso, disturba, allucinato. Viene trasferito all’infermeria del[lo] Charcot, il reparto per “agitati” e “sudici”. Le metastasi aumentano progressivamente nel corso dell’anno seguente, fino a condurlo alla morte il 3 Ottobre 1921.
Come in diversi casi simili, lo “stato maniacale” diagnosticato dai medici, più che una malattia con un quadro nosografico ben definito, appare essere la comoda reificazione, in forma di diagnosi, dei sintomi più evidenti e della condizione di agitazione e pericolosità sociale che contraddistingue l’individuo probabile simulatore.
1.2 Le preoccupazioni della famiglia del simulatore
Il 1917, e più precisamente la seconda parte dell’anno e l’inizio di quello successivo, è il periodo in cui la legislazione militare nei confronti dei disertori viene inasprita. Il bando n.263 del 2 Novembre 1917 pone l’obbligo a tutti i disertori di presentarsi entro e non oltre 5 giorni presso l’autorità militare più prossima, pena la fucilazione. Il termine venne posticipato prima al 18 e successivamente al 30 novembre. Nonostante queste dilazioni è evidente una volontà politica ben precisa, che nel momento più complesso del conflitto chiama a raccolta tutte le forze della nazione e punisce con estrema durezza chi si sottrae al proprio dovere. Entro la fine dell’anno, invece, il decreto n.1952, del 10 Dicembre 1917, mentre concede una forma di amnistia per i soldati che si fossero presentati alle autorità militari entro il 29 Dicembre 1917, procede con l’inasprimento delle pene per chi si ritiene responsabile di aver favorito un disertore, la sua fuga o di averlo nascosto. Si passa da 1 a 5 anni nel caso di disertori disarmati e da 3 a 15 anni nel caso di militari armati936. Il dispositivo sembra voler togliere ai disertori il possibile sostegno di familiari e amici, di fatto facendo “terra bruciata” intorno al militare e costringendolo così a uscire allo “scoperto” o, a priori, inibendo l’allontanamento. Fino ad allora il codice militare aveva escluso da tali sanzioni la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle, gli zii e i nipoti, insomma i parenti più prossimi del disertore, riconoscendo in
930 Ivi, Tabella nosografica: Anamnesi.
931 Ivi, Direzione del Manicomio della Provincia di Cuneo, Proposta a rassegna di riforma dal servizio militare per il soldato Stefano B,
Racconigi, 98/02/1918.
932 Ivi, Diari psichici e clinici, Maggio 1919. 933 Ivi, Diari clinici, 10 Ottobre 1919. 934 Ibidem.
935 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10244, Diari clinici, 7 Gennaio 1920. 936 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 170.
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qualche modo l’attenuante del vincolo familiare937. L’inasprimento giuridico, ratificato attraverso il decreto 1952, stabilisce dunque una ulteriore esasperazione di una già rigida legislazione militare che intende, anzitutto, presentarsi come ancor più inflessibile nei confronti di quegli individui identificati come soldati delinquenti, sulla scorta di una storia disciplinare ben precisa che abbiamo visto contraddistinguere il processo di costruzione nazionale.
Tutto ciò come influì sugli internamenti manicomiali? Fin dalla sua inaugurazione il manicomio è uno snodo fondamentale per l’incontro tra le istanze delle famiglie degli internati e l’istituzione pubblica che, nelle vesti della direzione sanitaria, fornisce informazioni sugli alienati, rende conto di preoccupazioni e richieste da parte dei congiunti, cerca insomma di mantenere un collegamento tra l’interno e l’esterno dell’istituto, tra i ricoverati e la società. L’estensione delle pene anche ai familiari dei disertori, potenzialmente, poteva dunque modificare i rapporti tra il direttore del manicomio, rappresentante l’autorità pubblica, e tutti i parenti interessati a stabilire, proprio attraverso il direttore, una canale con il proprio congiunto disertore internato. La documentazione d’archivio invece, su tale aspetto, non mostra alcun evidente cambiamento nei comportamenti del direttore che, come prima, continua a rispondere a tutti, a fornire informazioni, rassicurazioni, notizie, e tutto ciò indipendentemente dall’eventuale accusa che pesa sul soldato che varca il portone del manicomio. Come nel caso del soldato Antonio B., originario di S.Maria Fratta, che giunge a Racconigi il 27 Ottobre del 1917 proveniente dall’ospedale Militare S.Osvaldo di Udine con
la diagnosi di «alienazione mentale (simulata)»938. Il contesto è quello segnato dallo sgombero dei
manicomi posti lungo la linea del fronte e ciò determina l’invio nelle strutture poste nelle retrovie, come appunto Racconigi, dei militari ricoverati.
Antonio B. giunge a Udine proveniente dall’Ospedale da Campo 231 segnalato come un potenziale simulatore, resta in osservazione nel periodo compreso tra il 13 e il 26 Ottobre, ma in questo arco di tempo «non si possono raccogliere dati anamnestici né procedere ad un esame somatico»939. Il militare «si presenta come sofferente di stato confusionale, fisionomia con
espressione attonita, gli occhi sbarrati»940. La diagnosi provvisoria è «forte sospetto
d’intenzionalità» dietro i sintomi presentati e con questa valutazione viene disposto l’invio «al
Manicomio di Racconigi in proseguimento d’osservazione»941. Qui però resta internato un periodo
abbastanza lungo, dal 27 Ottobre 1917 al 29 Aprile 1918, a dimostrazione delle difficoltà di individuare con certezza l’eventuale condizione di simulazione. Alla fine viene dimesso come «migliorato», un giudizio che non esclude la condizione di alienazione mentale.
La sua storia è simile a quella di molti altri militari e non presenta particolari di rilievo, se non appunto in relazione alla questione esaminata e, nello specifico, all’eventuale diverso atteggiamento del direttore nei confronti dei familiari dei soldati sospettati di essere dei simulatori. In tale ottica possiamo fare riferimento alle lettere scritte dal padre del soldato al direttore che, riguardando un sospetto simulatore, possono gettare un po’ di luce su eventuali riflessi di questa condizione nei rapporti con la direzione sanitaria.
«S.Maria la Fossa 29/03/18
Gentilissimo Signore Io rispondo alla vostra cartolina ringraziandovi della carità che avete avuto verso di noi di darmi notizie del nostro amato figlio Antonio B. Ergento [?] Signore mi scusata che io vi secca, perché la lontananza fa pensare sempre a male mi rivolge a voi se siete
937 Ibidem.
938 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10285, Ospedale S.Osvaldo di Udine. Reparto Malattie Nervose, cartella
clinica n.7456.
939 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10285, Ospedale S.Osvaldo di Udine. Reparto Malattie Nervose, cartella
clinica n.7456, Diario, Ottobre 2017.
940 Ibidem. 941 Ibidem.
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padre dei figli che potete considerare i figli quante sono cari mi fate la gentilezza di rispondermi quante io vi scrivo di farmi sapere nostro figlio come la passa. Non ho altro che dirvi aspetto solo che le vostre notizie vi salute e sono per sempre vostro affezionato Francesco B.»942.
La lettera consente di trarre alcune informazioni utili per gli interrogativi posti. Innanzitutto il testo, quasi sicuramente, è stato redatto direttamente dal padre del militare, infatti la grafia è insicura, malferma e in diversi passaggi emerge un registro discorsivo tipico del linguaggio parlato, solo a fatica celato da formule di ringraziamento e da ossequi. Si fa riferimento inoltre a una precedente risposta del direttore, che implica almeno un’altra lettera inviata dalla famiglia943. Ad esse il direttore Rossi risponde seguendo il solito canone e, dunque, non mostrando variazioni relazionali dettate dall’accusa che pesa sul militare. Anzi, le note comunicate alla famiglia fanno riferimento allo stato della degenza, alle condizioni psicofisiche dell’internato e all’impressione che desta in manicomio: «Il soldato B. Antonio prosegue nel miglioramento e si mantiene tranquillo, docile, ordinato nel vestire. Non sopraggiungendo complicazioni è prevedibile che possa molto presto abbandonare il manicomio»944. Poche notizie da cui si evince che il direttore considera il soldato alla stregua degli altri militari, vale a dire un paziente prima in osservazione e, in seguito, inserito in un percorso riabilitativo. Nessun riferimento alla simulazione – esplicitamente sottolineata nella documentazione che ha accompagnato il militare da Udine –, né un diverso trattamento verso quei familiari che il decreto 1952 ritiene potenziali favoreggiatori. Tutto ciò consente di far emergere, una volta ancora, la complessità della dialettica tra le autorità militari e la direzione sanitaria, gli spazi di autonomia da quest’ultima mantenuti, a fronte della subordinazione emersa in altri contesti, e dunque le molteplici sfumature delle relazioni istituzionali esistenti.