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Esperienza bellica, follia e soldati internati in manicomio (1915-1919)

3. La sofferenza estrema: autolesionismo, suicidio e suo tentativo

Se, come abbiamo più volte sottolineato, per le autorità militari i soldati che presentavano sintomi di disagio mentale erano tutti dei potenziali simulatori, dei soggetti deboli sempre pronti a ribellarsi e a cercare tutte le strategie per evitare i propri doveri verso la patria, c’era almeno una circostanza in cui questo pregiudizio sembrava perdere di valore a priori: nel caso dei suicidi o dei tentativi di porre fine alla propria esistenza attuati dai militari. Eppure, a dimostrazione di quanto radicata fosse «la volontà di non attribuire alla guerra un’azione determinante nell’insorgere del disagio psichico»1231, anche di fronte all’evidenza della sofferenza più radicale, quella che non prevedeva via d’uscita, si tiravano in ballo le categorie di predisposizione e di degenerazione, utili per spiegare questi gesti estremi come il frutto di instabilità costitutiva o anormalità. Il meccanismo ermeneutico era consolidato nei casi in cui i suicidi (o i tentativi) avvenivano in presenza di allucinazioni o deliri. Come nel caso del soldato Antonio C., di Polistena, classe 1883, che venne trasportato d’urgenza al posto di medicazione dell’Ospedale da campo n. 209 perché «sorpreso con un nodo scorsoio al collo, di cui il capo era legato al palo della tenda, ottenuto mettendo insieme dei legacci da scarpe»1232. Dalle prime visite il soggetto appare effettivamente sconvolto dal conflitto, incapace di scorgere alcuna via d’uscita sembra intravedere nella soluzione estrema l’unica possibilità di fuga rimasta.

Dalle notizie raccolte la sua non sembra una storia inquadrabile nella comoda categoria della predisposizione familiare, piuttosto appare essere l’orrore della guerra il principale responsabile della sua condizione di profondo abbattimento. Interrogato «il soggetto nel complesso delle risposte mostra un certo senso logico»1233, «riflessi normali» e una costituzione «regolare»1234. L’ambito più compromesso è proprio quello psichico: «ideazione sconnessa. Delirio di colpa integrato da allucinazioni acustiche e allucinazioni oniriche terrificanti. Coscienza vaga di malattia»1235. Ciò che però desta preoccupazione è il costante «senso di impulsione intima al suicidio»1236. Il soldato è in preda al delirio e deve essere controllato di continuo perché tangibile è il rischio che ritenti di uccidersi. Durante il ricovero la diagnosi muta da schizofrenia a psicosi ad «arresto psichico», in ogni caso, pur sulla base di elementi tanto malfermi e da riconsiderare, si precisa subito nella cartella che la diagnosi «non dipende»1237 [da causa di servizio]. Viene disposto l’invio a Racconigi, dove il soldato resta in osservazione dal 27 Ottobre 1917 al 6 Febbraio 1918, data in cui viene «licenziato definitivamente» come «guarito» e rispedito al corpo d’appartenenza. Non farà più ritorno a Racconigi.

Inquadrare diagnosticamente i tentativi di suicidio dei soldati non è semplice per i medici. Negare il portato di sofferenza di cui sono palese espressione neanche. Evitare di ricondurre ciò agli orrori della guerra, sminuendo o negando il peso del conflitto come causa determinante, è invece una prassi a cui gli alienisti si attengono più per evitare frizioni con le autorità militari che per reale convinzione. Nel caso di Racconigi, ciò che emerge dall’analisi della documentazione, è che il direttore Rossi porta avanti una politica di basso profilo, evitando prese di posizioni nette in grado di mettere in crisi quel rapporto con le autorità militari che, almeno fino al 1917, è tutto sommato buono. Come dimostrato dalla concessione da parte del presidio militare di Racconigi di un manipolo di soldati attraverso cui poter garantire la sorveglianza dei combattenti alienati ricoverati nel nuovo

1231 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 72.

1232 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10294, Copia della cartella clinica n. 7606 dell’Ospedale da Campo della II

Armata, diario clinico, 23 Ottobre 1917.

1233 Ibidem. 1234 Ibidem.

1235 Ivi, Copia della cartella clinica n. 7606 dell’Ospedale da Campo della II Armata, diario clinico, 24 Ottobre 1917. 1236 Ibidem.

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padiglione adibito a Reparto Psichiatrico Militare. Successivamente, in particolare durante l’ultimo anno di guerra, il tenore di queste relazioni cambia: vengono ritirati i soldati addetti alla sorveglianza1238 e il direttore reagisce chiedendo alla Deputazione Provinciale di negare l’uso delle latrine del manicomio ai militari del presidio locale. Fino ad allora, però, da ambo le parti si era cercato di mantenere delle relazioni improntate alla collaborazione e, probabilmente, ciò aveva influito sulla totale mancanza di considerazioni “ufficiali”, da parte del direttore, sulle cause delle nevrosi belliche e sul possibile legame di queste con gli orrori del conflitto.

Nei casi di suicidio – o di tentato – in cui più difficile risultava negare una correlazione tra la sofferenza del militare, il disagio psichico e la brutalità della guerra, si cercava di ricondurre tutto a predisposizione familiare – come già indicato – o a patologie latenti di particolare gravità, quali le psicosi. È il caso del soldato Marco L., classe 1896, nativo di Milano, che giunge a Racconigi il 27

Ottobre 1917 dopo un ricovero dall’Ospedale S.Osvaldo di Udine1239. Il giovane appartiene al 222°

Fanteria e «proviene dal corpo con diagnosi di “Psicosi”. Non risponde alle domande ma pronuncia

frasi sconnesse per cui non è possibile raccogliere alcun dato»1240. Così vien descritto dai medici

dell’Ospedale da Campo 231: «Individuo di buona costituzione fisica, senza alterazioni degli organi interni. Contegno strano ed anomalo»1241. «Chiamato sotto le armi nel Dicembre 1915 prende servizio al fronte»1242 e qui, dopo due anni di conflitto, tenta il suicidio. Il fatto nella documentazione trova soltanto un accenno di sfuggita, quasi a volerne ridimensionare la portata: «accesso confusionale seguito da tentativo di suicidio»1243. Nessun’altra indicazione, nessun riferimento alle ragioni o alle cause del gesto, tanto che, posto così, l’episodio sembra essere la conseguenza di un improvviso «accesso confusionale». Eppure, che la vera ragione del ricovero sia invece proprio il tentativo di suicidio, e la condizione di grave sofferenza psichica del soggetto, è desumibile dalla sottolineatura presente nella cartella dei precedenti familiari: «nonno paterno suicida. Padre nevrastenico»1244. Un tentativo di ricondurre – anche in questa circostanza – il disagio nell’alveo dei comodi paradigmi della predisposizione familiare. Durante il periodo di ricovero il soggetto si mantiene «scontroso, chiuso, occhi sbarrati, sguardo fisso»1245. Non parla e persiste un «umore tetro»1246. Nonostante ciò il tentativo di suicidio non viene ritenuto importante all’interno della storia medica del soldato. Infatti, inviato a Racconigi il 27 Ottobre del 1917, vi rimane fino al 25 Gennaio 1918, dopodiché viene dimesso con il giudizio di «guarito» e indirizzato al fronte. Segno evidente che in un momento particolarmente delicato del conflitto le istanze di difesa sociale, tese a individuare e ad allontanare dalla comunità militare l’anormale, sono venute meno. Mancano gli uomini, così che il criterio quantitativo prevale su qualunque altra possibile considerazione.

Tra le proteste più radicali messe in atto dai soldati per ribellarsi alla guerra e agli obblighi da questa imposti, c’è il rigetto di ogni forma d’alimentazione. Come nel caso del soldato Gildo B., di Omelia, che giunge in manicomio il 18 Marzo 1918 «affetto da grave stato melanconico, rifiuta in modo assoluto i cibi, tanto che lo si deve alimentare colla sonda»1247. Per il militare la diagnosi finale è «demenza precoce», una patologia che abbiamo visto avere perlopiù esisti clinici negativi. Le condizioni del soldato restano gravi durante tutta la degenza, tanto che viene riformato il 24 Luglio 1916 e trasferito al manicomio di Perugia il 26 Agosto 1918.

1238 ASONR, Classe I.4, UA 66, Verbali delle adunanze della Commissione Amministrativa della Direzione del Manicomio della Provincia

di Cuneo in Racconigi 1917-1918, Bagni ad uso del presidio, Racconigi 2 Maggio 1918.

1239 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10280, Copia della cartella Clinica 7478 Ospedale da campo della II Armata. 1240 Ivi, Copia della cartella Clinica 7478 Ospedale da campo della II Armata, Diario, Ottobre 1917.

1241 Ibidem.

1242 Ivi, Copia della cartella Clinica 7478 Ospedale da campo della II Armata, Diario, 15 Ottobre 1917 1243 Ibidem.

1244 Ivi, Copia della cartella Clinica 7478 Ospedale da campo della II Armata, Anamnesi, 15 Ottobre 1917. 1245 Ivi, Copia della cartella Clinica 7478 Ospedale da campo della II Armata, Esame, Ottobre 1917. 1246 Ibidem.

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Il rifiuto del cibo è una pratica che si pone tra l’autolesionismo e il sintomo del rifiuto della vita, tipico delle condizioni melanconiche. In questo senso rappresenta un’evoluzione, legata alle condizioni fortemente stressanti del conflitto, di una situazione già da tempo conosciuta dalla medicina psichiatrica e dalle autorità militari. Se, come giustamente osservato da Antonio Gibelli, l’autolesionismo è la cifra dello scontro tra la leva obbligatoria e la renitenza1248, il rifiuto di alimentarsi rappresenta la radicalizzazione del fenomeno alla luce dell’impossibilità di fuga e delle condizioni eccezionali previste dal conflitto. Per i soldati che non vedono altra via d’uscita dalla guerra è questa l’ultima risorsa per ribellarsi nei confronti della situazione e del sistema. Come nel caso del soldato Carmine A.1249, originario di Boscotrecase, Napoli, già ristretto presso il Reclusorio Militare di Vinadio per il suo comportamento violento, che i medici decidono di inviare in manicomio «perché da 10 giorni consecutivi rifiutandosi di accettare qualsiasi cibo o bevanda nutritiva»1250 versa in stato di grave deperimento. Il soldato in questione, per le autorità militari che lo osservano, rappresenta uno di quei casi in cui criminalità e follia si confondono e si sovrappongono. Infatti, nella documentazione informativa inviata alla direzione sanitaria di Racconigi dagli ufficiali del reclusorio, vengono posti in continuità il sospetto dell’alienazione mentale, legato al rifiuto del cibo, un

comportamento «che recava grave danno a lui stesso»1251, e i precedenti penali e «morali»1252 che

contraddistinguono la storia del soggetto. Nello specifico si sottolinea come non avesse «nessun mestiere da civile»1253 e come fosse refrattario ad ogni occupazione. Inoltre «si diede al vino dall’età di 7 anni e lo tollerava bene, ma dopo le libazioni era violento. Ebbe delle condanne per reati contro la proprietà e all’atto del suo arruolamento era vigilato speciale dalla P.S.»1254. Il vizio dell’alcool, il carattere rissoso, il rifiuto del lavoro, sono tutti elementi che, in presenza di alienazione mentale, corroborano le tesi di quegli alienisti – come il più volte citato Placido Consiglio – che ritenevano i disturbi mentali di guerra l’effetto di primitività e «incompletezza evolutiva. «In guerra –affermò – si vedono fallire, per fatalità organica – tutti gli anormali»1255. Per questi soggetti Consiglio propose la realizzazione di spazi d’internamento appositi, costituiti esclusivamente da anormali da inviare in prima linea, «onde ottenere una fatale soluzione benefica»1256.

Secondo simili prospettive, condivise da molti medici militari, i traumatizzati di guerra erano considerati un peso di cui la comunità doveva liberarsi o che doveva costringere, come sostiene Consiglio, a svolgere quei doveri che ostinatamente rifiutava di adempiere. Non è semplice affermare in quali termini questo orizzonte prospettico abbia influenzato la pratica degli alienisti dei singoli manicomi, quanto essi abbiano agito per compiacere, o comunque non entrare in contrasto, con un clima che si accentuò negli anni più difficili del conflitto. Ciò che possiamo ipotizzare è che i medici di Racconigi, almeno in alcune circostanze, hanno agito con ambiguità. Nel caso che stiamo trattando inizialmente diagnosticano per il militare uno «stato depressivo delirante in soggetto degenerato»1257, riconoscendo di fatto l’anormalità costitutiva del militare e quindi il necessario «ricovero definitivo»1258, successivamente cambiano opinione e giudicano il soldato «alquanto

1248 Cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra…cit., p. 147.

1249 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10416.

1250 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10416, Reclusorio Militare di Vinadio, Oggetto: Recluso A- Carmine, Vinadio,

5 Dicembre 1917.

1251 Ibidem. 1252 Ibidem. 1253 Ibidem. 1254 Ibidem.

1255 Citato in B. Bianchi, La follia e la guerra…cit., p. 152.

1256 Cfr. P. Consiglio, Psicosi, nevrosi e criminalità in guerra, in «Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale», vol.

VIII, 1916, p. 268.

1257 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10416, Direzione del Manicomio della Provincia di Cuneo: Risposta alla

lettera del 22 Gennaio 1918, n.511, Racconigi, 30 Gennaio 1918.

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migliorato»1259 e dunque tale «da essere fra non molto restituito al reclusorio»1260. Ancora una volta viene ribadito il carattere transitorio dei traumi di guerra, anche se riguardano soggetti degenerati. Ma allora il soggetto è “anormale” o non lo è? Può fare parte senza pericolo della comunità militare o no? A questi interrogativi i medici di Racconigi non rispondono e la prassi adottata non ci aiuta a comprendere la loro opinione sulla questione. Infatti da una parte veniva riconosciuta la condizione di anormalità costitutiva, dall’altra si decideva di emettere il provvedimento di dimissione – avvenuta il 29 Maggio 19181261 – e di restituire il soldato all’esercito. Tutto ciò sembra dimostrare che la presenza di sintomi legati in qualche modo dal conflitto, da sola, non basti ad affermare la naturale predisposizione alla follia del soggetto.

Contrariamente da quanto sostenuto dalle autorità militari1262, dunque, per gli alienisti di Racconigi la guerra può rappresentare una condizione determinante dell’insorgere del disagio mentale e i paradigmi della criminalità e della devianza non bastano a spiegare l’emergere delle nevrosi belliche. Piuttosto, queste ultime, in quanto condizioni transitorie, rimandano alle contingenze eccezionali determinate dal conflitto e una volta venute meno possono determinare la guarigione del soggetto. Si spiega così perché il soldato, nonostante la sua storia clinica e i precedenti morali che lo identificano come un “degenerato”, venga dichiarato «guarito» dai sintomi depressivi che lo hanno condotto in manicomio e non semplicemente «migliorato». Si guarisce soltanto da una condizione passeggera, cioè da uno stato di disagio temporaneo, mentre – come visto per altri casi – si migliora da condizioni più gravi, in cui è magari possibile scorgere la predisposizione biologica. Tutto ciò, tra le righe, ci consente di ipotizzare che dietro il silenzio della documentazione formale, a Racconigi, le nevrosi di guerra venissero considerate in maniera più complessa e articolata rispetto a quanto determinabile sulla base delle sole dichiarazioni esplicite. E la guerra, lungi dal rappresentare solo un fattore secondario, era ritenuta un possibile elemento scatenante, quando non una vera e propria causa di insorgenza dello stato patologico.

Sovente gli atti di autolesionismo, o i tentativi di suicidio, risultavano essere la conseguenza di stati di agitazione, reazioni esagerate ad alterchi con superiori o commilitoni, momenti di particolare smarrimento psichico. È il caso del soldato Lorenzo D., classe 1896, del 34° Reggimento Fanteria di Mondovì, che a inizio Dicembre, improvvisamente, «in un caffè della Città ebbe un accesso maniaco furioso, sotto la cui influenza ruppe sedie e vetri con un danno di oltre L.200. Ricoverato nell’infermeria del Distretto passò la notte tranquilla; all’alba fuggì inosservato semisvestito. Si portò sul ponte dell’Ellero e si gettò nel fiume all’altezza approssimativa di m. 6-7 non riportando lesione alcuna»1263. Nonostante il soldato avesse già beneficiato di 6 mesi di convalescenza, rilasciati dall’Ospedale Militare Principale di Torino per «nevrastenia», come molti commilitoni in situazioni simili, appena terminata la fase acuta dei sintomi era stato “restituito” al corpo d’appartenenza, non ancora guarito. Tra l’altro il militare aveva svolto una parte del proprio servizio al fronte, ma da qui era stato «allontanato per disturbi nervosi»1264. Interrogato in manicomio non ricorda di aver tentato il suicidio e, durante il ricovero, «non esterna idee deliranti, né va soggetto a disturbi sensoriali»1265. Il 17 gennaio, però ha un’altra crisi notturna, dopo la quale non ricorda niente. Viene dimesso l’11 Febbraio con il giudizio di «migliorato».

Gli stati di agitazione che sfociavano nei gesti di autolesionismo, in diverse circostanze, avevano inizio in caserma, al fronte o nelle prigioni militari. È quest’ultimo il caso del militare Achille M., classe 1898, di Roma, detenuto nelle prigioni del corpo d’appartenenza, il 1° Reggimento Artiglieria

1259 Ivi, Manicomio della Provincia di Cuneo: Informazioni, Racconigi 6 Maggio 1918 [n.3447 del Prot. Generale]. 1260 Ibidem.

1261 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10416. 1262 Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga…cit., p. 72.

1263 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10510, Nota dell’Ospedale Militare di Mondovì, rif. N. 10302. 1264 Ivi, Tabella nosografica di D. Lorenzo, Anamnesi.

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da Montagna di Mondovì, per «insubordinazione contro superiori»1266. Qui il soldato «diede in escandescenza cercando di colpire i compagni con un asse del letto; in seguito cercò di ferirsi riuscendo a procurarsi così tagli all’avambraccio sinistro. Il giorno 6 Gennaio uscì nelle solite escandescenze e fu ricoverato all’infermeria dove fu legato perché era in preda a continue smanie e poteva riuscire pericoloso per sé e per gli altri»1267. Il militare viene dunque inviato in manicomio, dove fa il suo ingresso l’8 Gennaio 1918. Qui viene emessa la diagnosi di «crisi epilettiche in soggetto nevropatico e sifilitico»1268, ma nonostante ciò i suoi sintomi non vengono ritenuti «di tale natura da legittimare il suo sequestro manicomiale»1269, per questo viene dimesso il 4 Aprile 1918. Il suo è uno dei tanti casi in cui i tentativi di autolesionismo non fanno parte di un meditato desiderio di morte, ma sono la conseguenza di particolari condizioni di stress e agitazione, legati magari – come in questo caso – alla sofferenza per la reclusione. E che il soldato soffrisse particolarmente la detenzione lo testimonia una lettera, inviata dopo le dimissioni dal manicomio, al direttore Rossi in cui chiede aiuto visto che è stato nuovamente recluso in cella:

«Ill.mo Signor Direttore,

Vengo con la presente a fargli sapere se è giusto che un individuo che dalla diagnosi da lei fatta l’Ospedale l’ho riforma1270 non appena giunge al corpo sia rimesso in una prigione senza

aria senza luce ed alla quale manca tutto ciò che l’igiene detta e per di più sottoposto ai duri trattamenti che si usano verso i puniti disciplinari. Tali sono le mie condizioni signor. Direttor e essendo conoscenza della sua bontà e non sapendo a chi rivolgermi mi ricolgo a lei sperando con la sua influenza possa farmi ottenere qualche cosa. Sappi che sono in prigione dal 29 Settembre 1917 per insubordinazione […] in attesa di essere sottoposto al Giudizio del Tribunale Militare di Cuneo. Ringraziando mi creda suo devoto

Achille M.»1271.

La lettera colpisce per diverse ragioni. Innanzitutto per il suo destinatario, il direttore del manicomio. Evidentemente il soldato individua in lui una possibile fonte d’aiuto, a differenza dei suoi superiori. Poi perché da essa traspare un soggetto lucido, che non ha alcuna voglia di morire, ma che soffre per le condizioni di detenzione, che ritiene ancora più ingiuste alla luce della diagnosi emessa in manicomio. Non conosciamo l’esito della vicenda, non sappiamo se il direttore ha risposto – ma è possibile ipotizzare di no, visto che manca la minuta solitamente conservata nell’incartamento –, sappiamo però che il soldato non ha fatto ritorno in manicomio. Quindi è lecito immaginare che la situazione sul piano psichico sia migliorata e che i sintomi abbiano avuto quel decorso transitorio, ritenuti da direttore Rossi una delle cifre caratterizzanti le “agitazioni da guerra”.

Il tentativo estremo di fuggire la guerra e i suoi orrori, come visto, poteva spingere i militari a provare più volte il suicidio, con mezzi e strumenti diversi. In questi casi, anche per i medici meno disposti a riconoscere la genuinità di questi tentativi, era problematico non correlare lo stato di profonda prostrazione dei soldati con gli orrori e i traumi della guerra. In queste circostanze l’autolesionismo veniva ritenuto la manifestazione di una personalità disturbata e, dunque, deviata. Non sempre ciò bastava a determinare la riforma del soldato o l’internamento definitivo in manicomio, soprattutto nelle fase terminali del conflitto, quando la stanchezza e la decimazione dei reparti rendevano indispensabili gli uomini. È questo il caso del soldato Esposito S., di S.Arpinio,

1266 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10534, 1 Reggimento Artiglieria da Montagna, Mondovì, 8 Gennaio 1918. 1267 Ibidem.

1268 Ivi, Manicomio della Provincia di Cuneo, Oggetto: soldato M. Achille, Racconigi, 28 Marzo 1918. 1269 Ibidem.

1270 In realtà non risulta il militare sia stato riformato, dunque qui il termine indica probabilmente la condizione di dimissione. 1271 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n.10534, lettera s.d.

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classe 1892, che fa il suo secondo ingresso in manicomio il 24 Gennaio 1918. Il giovane, proveniente dall’infermeria del 16° Cavalleggeri «Lucca» di Saluzzo, durante il primo ricovero appare frastornato, confuso, «alquanto depresso furiosamente»1272, mentre nel secondo «confuso, disorientato, con

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