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Il disagio mentale nell’esercito alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale (1909-1914)

3. Individuare il simulatore e condannare il soldato criminale: Giovanni G.

Uno dei compiti della psichiatria italiana che si occupa di ambito militare è dunque quello di preservare l’esercito dagli elementi inutili, in questo senso è chiamata a svolgere un’opera di bio- profilassi tesa a preservare la comunità dalle contaminazioni dei degenerati e dagli anormali488. Parimenti essa deve individuare i potenziali simulatori, smascherarli e restituirli ai loro doveri verso la nazione. I due elementi non possono essere scissi e rappresentano uno il rovescio dell’altro. Allontanare gli elementi pericolosi e contribuire a realizzare un collettivo all’altezza del confronto con le altre potenze coloniali, dunque, non esaurisce l’azione di difesa indiretta dell’esercito, bisogna anche operare per garantire tutti gli uomini utili per realizzare un collettivo coeso, efficiente e moderno489.

Proprio in questa intersezione problematica si situa l’azione della psichiatria italiana fortemente segnata dalle teorie “lombrosiane”; questa, forte della convinzione secondo cui i tratti e i segni della devianza sono individuabili scientificamente, ritiene l’esercito un campo di applicazione particolarmente proficuo per la propria azione, al contempo immunologica e disciplinare. Infatti, la comunità militare rappresenta uno spazio entro cui transita tutta la gioventù della nazione, vale a dire tutti i caratteri, i segni e le impronte che contraddistinguono il mitico “corpo sano” della stirpe, ma anche tutte le alterazioni, le anomalie e le deformazioni degenerative. Per questo bisogna prestare particolare attenzione ed esercitare un’implacabile azione di profilassi preventiva. Profilassi che può ribaltarsi in opera disciplinare quando si tratta di individuare chi, pur essendo per costituzione ontologica in dovere di servire la collettività, cerca mediante tutti gli stratagemmi di evitare il servizio militare. In queste circostanze, quando i sintomi lamentati rendevano concreto il dubbio di trovarsi di fronte a un potenziale simulatore, si procedeva in maniera abbastanza risoluta, sottoponendo il soldato a brevi periodi di osservazione in manicomio basati su una terapia individuale decisa che, nei casi più frequenti di manifestazioni acute, si concretizzavano spesso in periodi di isolamento in cella, sovente legati al letto, alternati a frequenti interrogatori da parte delle autorità mediche. Questi ultimi dovevano trasmettere la convinzione che a maggiore resistenza del

486 Cfr. P. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 31. 487 Cfr. P. Consiglio, Cesare Lombroso e la medicina militare… cit., p. 78. 488 Cfr. P. Consiglio, Studi di psichiatria militare in RSF, 1912, pp. 371 e segg.

489 Sulla questione sia consentito il riferimento a: F. Milazzo, Smascherare il soldato simulatore. Difesa sociale e istanze disciplinari in

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soldato sarebbe corrisposta una più tenace azione disciplinare degli inquisitori. Il ritorno in caserma era l’unico orizzonte che doveva profilarsi per i soldati ritenuti impostori e per questa ragione, in manicomio, il regime di internamento prevedeva, oltre a quanto già osservato, una certa durezza compatibile con l’idea che il soldato, fondamentalmente, non volesse guarire. Soprattutto prima della guerra, inoltre, si riteneva che una psicoterapia energica e un’indagine serrata della psiche del militare potessero determinare quel rafforzamento della “volontà malata” del soggetto che era la causa principale dei disturbi lamentati, reali o simulati. Per questo vigeva un imperativo terapeutico che consisteva nel trasmettere al soldato l’impressione che «ogni messa in scena era inutile perché senza sintomi obiettivi, non riproducibili con la volontà né con la suggestione, non si era creduti, ma anzi, puniti»490. Si operava con energia e, soprattutto, rapidità anche per evitare di trasmettere l’impressione di una indulgente complicità con il soldato.

Destavano particolari sospetti quegli elementi che dai riscontri e dalle note di caserma, dall’osservazione e dall’anamnesi, evidenziavano una inclinazione verso l’alcol491. E’ il caso del soldato Giovanni G., entrato in manicomio il 5 di Agosto del 1913, proveniente dall’Ospedale Militare principale di Savigliano. Qui il soldato risulta «di difficile custodia e pericoloso», per questo

«se ne propone il trasferimento d’urgenza al manicomio Provinciale di Racconigi»492. Da qualche

tempo, presso il 73° Reggimento Fanteria dove è inquadrato, il militare «ha cominciato a dar segni di disturbi psichici caratterizzati da confusione mentale, insonnia, agitazione e ricorrenti accessi impulsivi con mania di distruzione»493; i sintomi non sono immediatamente ricollegabili a cause fisiologiche obiettive e, per questo, emerge il sospetto che la loro origine possa essere artefatta. La condizione di pericolosità sociale del soldato spinge il delegato di P.S. di Savigliano a disporre il ricovero coatto presso la struttura manicomiale provinciale494.

Giovanni ha 22 anni, è celibe, e appena fa il suo ingresso in manicomio, dopo le procedure di prassi con il ritiro degli effetti personali, la doccia e la rasatura dei capelli, viene sottoposto ad un primo momento d’osservazione generale che non evidenzia segni fisiognomici degenerativi: «contegno ordinato e nulla a carico del linguaggio parlato»495. Il militare non è delirante e «non sembra allucinato»496, inoltre «non è compulsivo»497, né agitato. Questa apparente normalità spinge la direzione sanitaria ad interrogarsi sulla natura dei sintomi presenti per poi concentrarsi, in particolare, sulla condizione di abituale bevitore del ricoverato: «Da borghese – viene riportato

nell’anamnesi – beveva volentieri e qualche volta si ubriacava»498. Questa tendenza fa del militare

un soggetto pericoloso dedito al vizio e, per questo, probabilmente incapace di adattarsi alla vita

militare. Nonostante venga precisato che «da borghese […] non si è infettato di morbi venerei»499,

l’abitudine di consumare sostanze alcoliche basta a inquadrare il soldato alla luce di categorie che fanno riferimento all’indisciplina, alla ribellione, all’incapacità di vivere alla luce della morale condivisa. Per catalogare e individuare questi caratteri, fin dal principio del Novecento, in diversi ospedali militari – ma non a Savigliano, il principale per la provincia di Cuneo – venero istituite sale per l’osservazione psichiatrica. Erano queste una sorta di gabinetti anatomici in cui il militare che mostrava segni di pazzia veniva studiato, analizzato, con il fine di catturare e catalogare i “segni della sua diversità”, ma soprattutto gli elementi in grado di smascherarlo quale simulatore. Il preconcetto

490 Cfr. G. Pellacani, Le neuropatie e le psiconevrosi nei combattenti in RSF, vol. XLIV, 1920, 1, p. 19

491 Solo per un inquadramento generale vedi: A. Cottino, L’ingannevole sponda. L’alcool fra tradizione e trasgressione, La Nuova Italia

Scientifica, Roma 1991.

492 ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n. 8745, Comunicazione Ospedale Mil.Princ.-Savigliano, 4 Agosto 1913. 493 Ibidem.

494 Ivi, Provvedimento di invio in manicomio, Ufficio di P.S. di Savigliano, 4 Agosto 1913.

495 Ivi, Tabella nosografica, Esame psichico, Fisionomia, contegno, linguaggio. 496 Ivi, Tabella nosografica, Esame psichico, Sfera senso-percettiva.

497 Ivi, Tabella nosografica, Esame psichico, Estrinsecazione degli atti e delle tendenze. 498 Ivi, Tabella nosografica, Anamnesi.

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secondo cui il simulatore era un inadatto a servire la nazione orientava lo sguardo del medico, situandone le rilevazioni diagnostiche che, alla luce di ciò, non potevano che confermare l’elemento disfunzionale della personalità ricercato. Il solo fatto di lamentare dei sintomi mentali rendeva il soldato un elemento pericoloso, un soggetto da inscrivere all’interno di quelle «classes dangereuses»500 che, in particolare nell’Ottocento, venivano ritenute un pericolo potenziale per l’ordine costituito. Che il soldato fosse un simulatore o che risultasse un “ammalato di nervi”, in entrambi i casi era un “diverso” che faceva evidente resistenza al progetto di omologazione e standardizzazione dell’italiano ritenuto indispensabile dalle forze armate. In quest’ottica, agli occhi degli psichiatri, la simulazione non era poi tropo differente dalla pazzia propriamente intesa, entrambe condividevano infatti il seme della degenerazione e come tale dovevano essere disciplinate501.

Il processo di correzione dell’anomalia non modificava i termini della questione ed era, alla fine, demandato alle direzioni sanitarie delle diverse strutture manicomiali e, quindi, di fatto, alla sensibilità, alla preparazione e all’ideologia del direttore del manicomio. A Racconigi la politica terapeutica e gestionale del direttore Rossi verso i soldati alienati appare essere ambivalentemente ispirata ora a un generico buon senso di stampo paternalistico, del tipo già adottato verso gli internati civili, ora a una politica di rapide dimissioni volte più a eliminare il problema che a servire una consapevole strategia disciplinare. Proprio un caso di dimissioni rapide è quello che alla fine tocca al soldato Giovanni G. Una volta preso atto di una condizione fisica generale discreta, minacciata soltanto dai momentanei periodi di denutrizione legati ad una strisciante depressione e

«lievemente turbata dal presente stato confusionale»502 – quello che lo ha condotto in manicomio

–, valutato il rapido miglioramento, si decide di dimetterlo dopo solo 12 giorni di ricovero, il 21 agosto 1913.

Il caso è emblematico proprio di quella politica di rapide dimissioni appena indicate e che il direttore Cesare Rossi attuerà anche durante la guerra verso gli alienati – o i presunti tali – militari. Prima del conflitto però, quando il numero dei soldati ricoverati non è consistente, tale prassi deve essere ritenuta più che un ossequio alle indicazioni e ai desiderata delle gerarchie militari, un tentativo, l’unico a disposizione, per non vedere gravato ulteriormente il manicomio di un carico oneroso da dover gestire sotto diversi aspetti, in particolare sul piano dei possibili conflitti tra le istituzioni. Più in generale bisogna dire che questa politica locale del trattamento del “mal di caserma” pesa anche sulla valutazione nazionale del disagio mentale tra i soldati, sottostimato e sminuito dalle autorità e che, invece, come mostrano i 777 suicidi avvenuti tra il 1874 e il 1883503, rappresenta un problema rilevante anche prima della epidemica diffusione delle “nevrosi belliche” durante la Grande Guerra. La questione, tra l’altro, non era sconosciuta agli osservatori del tempo, tanto che Augusto Setti, nel 1886, così scriveva nel suo L’esercito e la sua criminalità: «Le statistiche penali militari finora non sono che allo stato di un inventario arido e imperfetto. Moltissimi dati, che figurano negli originali presso il Ministero, non furono riprodotti nelle copie a stampa»504. Pessime o carenti comunicazioni tra gli enti locali e quelli centrali, reciproche diffidenze tra le istituzioni della nazione, volontà di sottostimare il fenomeno e incapacità di comprenderlo nelle sue più complesse sfumature cliniche e sociali, sono alcune delle cause che resero il fenomeno del disadattamento alla vita militare più un affare da trattare nei suoi risvolti disciplinari, e magari giudiziari, che in quelli

500 Sulla questione delle «classi pericolose», anche se con un riferimento specifico diverso da quello trattato in queste pagine, vedi:

F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878, Einaudi, Torino 2015.

501 Cfr. P. Penta, La simulazione della pazzia e il suo significato etnico, antropologico, clinico e medico legale, Tocco, Napoli 1899. 502ASONR, Archivio sanitario, cat.9 - classe 2, c.c. matr. n. 8745, Tabella nosografica, Sviluppo e stato generale della personalità. 503 Cfr. G. Oliva, Esercito, paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 all’età giolittiana, Milano 1986, p. 48.

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medici e sociali. Con tutte le ricadute che ciò comportò sulla più generale considerazione della questione stessa.

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