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Tra le interpretazioni storiografiche che hanno preso le distanze da questa che è stata la lettura prevalente c’è quella di Joanna Bourke, docente di Storia al Birkbeck College di Londra. Convinta che il disagio mentale dei soldati abbia rappresentato il trauma per il superamento dell’istintivo tabù del dare la morte, anche lei – come Audoin Rouzeau – ha sottolineato come i traumi di guerra siano stati interpretati unidirezionalmente e secondo una prospettiva troppo rigida. Come altri interpreti anche Bourke ha collegato le nevrosi di guerra allo stress patito dal soldato, ma diversamente dalla maggior parte degli storici ha ritenuto la causa principale del disagio dei combattenti il non poter uccidere liberamente, il non poter sfogare lo stato di violenza sollecitato dalle condizioni di guerra176. Uccidere il nemico in battaglia diventa così non la causa scatenante del trauma, quanto il momento catartico di rigenerazione dello stress, la condizione per il superamento dell’ansia da attesa e, dunque, per la rigenerazione psichica. La tesi di Bourke, però, come tutte quelle che pretendono di interpretare il vissuto inespresso dei combattenti sovrainterpretandolo, o al contrario dando poco rilievo alla documentazione medica, manca il bersaglio perché risulta non adeguatamente supportata dalle fonti disponibili, almeno per la situazione italiana.

Se la storiografia francese177, tutto sommato, si è mantenuta su un registro interpretativo canonico, la situazione britannica, da subito, è apparsa più interessata agli “alienati di guerra”178. Come abbiamo visto, il termine coniato per descrivere il fenomeno è quello di «shell-shock» che, secondo Edgar Jones e Simon Wessely, «anche se aveva alcune caratteristiche in comune con

disturbo da stress post-traumatico (PTSD), […] non era il medesimo disturbo»179, poiché lo shock da

granata non può essere collegato monocausalmente ad un evento traumatico e riguarda piuttosto il logoramento psico-fisico indotto dalla guerra in genere. In tale senso vanno anche le ricerche di Frederick Mott, direttore del laboratorio di patologia del London County Council al Claybury Asylum, che dall’osservazione di diversi militari alienati ha dedotto una debole relazione tra le esplosioni di granate e lo shell-shock. Quest’ultimo identifica, piuttosto, una costellazione sintomatologica complessa, che riguarda processi inconsci di dissociazione e di negazione che interessano i soldati

175 Cfr. E. J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985. 176 Cfr. J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma 2003.

177 Sulla situazione francese vedi inoltre C S. Myers, Shell Shock in France, 1914–1918, Cambridge University Press 1940, M. Pignot,

Allons enfants de la patrie: Génération Grande Guerre, Éd. du Seuil, Paris 2012 e L. Crocq, Les traumatismes psychiques de guerre,

Odile Jacob, Parigi, 1999.

178 Cfr. T. Downing, Breakdown: The Crisis of Shell Shock on the Somme, Little, Brown Book Group, London 2016; S. Grogan, Shell

Shocked Britain: The First World War's Legacy for Britain's Mental Health, Pen & Sword, Barnsley South Yorkshire 2014; Report of the War Office Committee of Enquiry Into "Shell-Shock", Naval and Military Press 2014; T.W. Salmon, The Care And Treatment Of Mental Diseases And War Neuroses ("Shell Shock"): In The British Army, CreateSpace Independent Publishing Platform 2013.

179 Cfr. E. Jones- S. Wessely, Legacy of the 1914–18 war 2. Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry in

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segnati dal clima della guerra. Una predisposizione alle psico-nevrosi piuttosto che un necessario meccanismo causale che fa seguito all’evento traumatico.

Sempre in tale ottica deve essere letto uno dei primi tentativi organici di spiegare le nevrosi di guerra, quello operato dal «War Office Committee of Enquiry», diretto da Lord Southborough. Questo, nel 1920, evidenziando l’aspetto conscio delle “nevrosi da guerra”, ha illustrato il diffondersi quasi epidemico del fenomeno ponendo un’ipoteca sulla ricezione politica e sociale, ma anche sull’immagine collettiva degli «scemi di guerra»180. C’è da sottolineare che le autorità britanniche sono stata tra le prime ad interessarsi del problema, fin dalla battaglia della Somme, «quando tra luglio e novembre 1916, 419 600 soldati britannici vennero uccisi o feriti, tra loro vi furono una marea crescente di vittime psichiatriche»181. Dopo di allora si procedette alla costituzione di quattro unità specializzate, dislocate in una posizione di sicurezza ma non troppo lontano dalla linea del fronte. Il compito di queste unità era quello di fornire consulto immediato, rapida assistenza e porre le condizioni per rispedire rapidamente i soldati in trincea. In realtà, però, il numero dei soldati che ripresero la via del fronte non fu elevato. Basta considerare che «al 30 giugno 1917, per esempio, dei 731 pazienti dimessi da Maghull Hospital della Croce Rossa, vicino a Liverpool, solo 153 (20, 9%) sono tornati al servizio militare, mentre 476 (65, 1%) sono stati riformati»182. La ragione è semplice: molti dei disturbi post-traumatici colpivano militari che già presentavano lesioni organiche, ferite e mutilazioni; su questi soggetti il disagio psichico ritardava ulteriormente il processo di guarigione, tanto che gli psichiatri, spesso, tendevano a riformare o a concedere periodi di convalescenza abbastanza lunghi. È una delle ragioni che spiega la linea politica intrapresa dal «War Office Committee of Enquiry» che ha ritenuto medici e psichiatri, in genere, troppo disponibili verso i militari traumatizzati. Non tutti i medici britannici, però, furono così benevoli nell’accogliere e riconoscere le ragioni dei soldati alienati. È il caso di Gordon Holmes, consulente neurologo per gli inglesi, convinto che lo “shell-shock” potesse non soltanto essere una strategia consapevole utilizzata dai soldati per sfuggire ai doveri militari, ma che, anche quando fosse genuino, potesse facilmente essere superato attraverso un po’ di riposo, un’adeguata alimentazione e le “cure” del caso. Oggi la storiografia ritiene invece che il problema abbia avuto

una sua consistenza non minimizzabile e che più di 200000183 soldati britannici furono interessati

dalle “nevrosi di guerra”, molte delle quali invalidanti per il resto dell’esistenza184. Tutto da indagare è in tal senso il legame tra la cronicizzazione dei sintomi – anche dopo il conflitto – e le “terapie” adottate per smascherare i sintomi ritenuti esagerati o frutto di simulazione. Il frequente e copioso utilizzo delle scariche elettriche, l’isolamento, la contenzione, sono tutti elementi che in ordine a ciò meritano la necessaria attenzione.

Per cercare di affrontare la situazione in vista di futuri conflitti, venne istituito il citato “War Office di Southborough” che, raccolte diverse testimonianze, relazioni e dichiarazioni, molte delle quali provenienti da ufficiali e medici, concluse, in linea con il clima maturato in quegli anni, che il problema del diffondersi quasi epidemico dello shell-shock potesse essere evitato e che la responsabilità fosse in buona parte da ricercare in una carenza di disciplina185. Si comprende questo bisogno di delegittimare gli alienati di guerra se si focalizza la posta in gioco della questione: il rilascio

180 Cfr. Lord Southborough, Report of the War Office Committee of Enquiry into ‘Shell Shock’, HMSO London 1922.

181 Cfr. E. Jones- S. Wessely, Legacy of the 1914–18 war 2. Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry …cit.,

p. 1710.

182 Ibidem.

183 Ivi, p.1711 e P. Leese, Shell Shock: Traumatic Neurosis and the British Soldiers of the Frist World War, Palgrave Macmillan, New

York 2002.

184 Cfr. M. Stone, Shellshock and the psychologists in W.F. Bynum, R. Porter e M. Shepherd (editors), The Anatomy of Madness: Essays

in the History of Psychiatry, Tavistock, London 1985, pp. 242-71.

185 Cfr. E. Jones- S. Wessely, Legacy of the 1914–18 war 2. Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry…cit.,

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delle pensioni di guerra e più in generale l’onere da parte dello stato di farsi carico del militare invalido. Non sorprende quindi prendere atto che, nel 1939, il «British Medical Journal», alla luce di quanto accaduto nel Primo Conflitto Mondiale, abbia sottolineato «che nessuna pensione di guerra per disturbi psicologici sarebbe stata assegnata durante il conflitto»186 e che tutti i casi dovevano essere valutati una volta terminata la guerra, con scrupolo e ponderazione. Ciò avvenne dopo che nell’estate dello stesso anno [il 1939] si era proceduto ad una quasi formale prescrizione del sintagma shell-shock che non doveva essere utilizzato per non innescare, dietro il paravento di una categoria ingombrante, fenomeni difficilmente gestibili dalle autorità.

Il problema non si risolse, come mostrano i dati riportati nella tabella comparativa con il numero delle pensioni rilasciate per problemi psichiatrici, sviluppata da Jones e Wessely in Legacy of the 1914–18 war 2. Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry187

World War 1 pensions World War 2 pensions

Wounds and injuries £ 504 000 (37,5%) £ 122 572 (24,4%) Rheumatism £ 84 855 (6,3%) £ 7943 (1,6%) Heart disease £ 118 995 (8,9%) £ 19 814 (4,0%) Epilepsy £ 8436 (0,6%) £ 1766 (0,4%) Neurological and mental disorders £ 84 681 (6,3%) £ 50 060 (10,0%) (excluding epilepsy)

Others £ 542 161 (40,4%) £ 299 281 (59,7%) Data are n (%). Data derived from 28th Report of the Ministry of Pensions for the period to March 31, 1953.46

A comparison of UK war pensions by diagnosis

I dati riguardanti le pensioni per “disordini mentali” mostrano che non ci fu una maggiore sensibilità verso il problema e che, anzi, si andò attenuando l’idea di una qualche forma di responsabilità oggettiva della guerra nell’insorgenza del sintomo. Se le autorità politiche avevano tutto l’interesse ad evidenziare l’aspetto biologico e individuale del problema, ai fini di una deresponsabilizzazione dello Stato, controluce il dato ci indica anche una scarsa sensibilità collettiva dell’opinione pubblica, a cui diversamente la politica si sarebbe in qualche forma adeguata. Quindi, se è vero quanto sostenuto da Jones e Wessely per la realtà inglese, cioè che «prima del 1914, la malattia mentale era generalmente pensata in termini ereditari e degenerogeni, ma nel 1918, molti

medici avevano riconosciuto che l'ambiente potrebbe avere un ruolo importante»188 nello sviluppo

del complesso sintomatico, è altrettanto indiscutibile che ciò non determinò un maggiore riconoscimento sociale per gli “alienati di guerra”. Anzi, come indica il dato sulle pensioni, la concessione dei sussidi non mutò sensibilmente e i traumatizzati dalla guerra dovettero attendere

186 Ibidem. 187 Ibidem. 188 Ivi, p. 1712.

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ancora parecchio per quell’attestazione sociale189 che, compiutamente, sarebbe giunta soltanto «con Il riconoscimento formale del PTSD dall'American Psychiatric Association nel 1980»190. Soltanto dopo di allora, ma molto lentamente – come mostrano ancora le diagnosi dai fronti attuali191 –, si è cominciato a riconoscere legittimità ad una costellazione sintomatica che, emersa parallelamente agli studi sui traumi della società industriale di fine Ottocento, interessa istanze sociali, culturali, politiche e congiunturali, legate all’avvento della guerra industriale di massa.

189 Cfr. E. Jones, , R. Hodgins Vermaas, H. McCartney, B. Everitt,, C. Beech, D. Poynter, I. Palmer, K. Hyams, and S. Wessely, (2002),

Post-combat syndromes from the Boer War to the Gulf: a cluster analysis of their nature and attribution in «BMJ» 324, 2002, pp. 321-

324.

190 Cfr. E. Jones- S. Wessely, Legacy of the 1914–18 war 2. Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry…cit.,

p. 1712.

191 Cfr. K.C Hyams, F.S. Wignall, e R. Roswell, War Syndromes and Their Evaluation: From the U.S. Civil War to the Persian Gulf War in

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Capitolo II

Politiche di difesa sociale, psichiatria e trattamento della devianza nell’esercito.

Per quanta diligenza s’impieghi nell’attuazione delle norme rigorose del reclutamento […] entreranno sempre nelle file dell’esercito varii candidati alle psicopatie e alla delinquenza, rappresentati soprattutto da individui a fondo mentale debole e a costituzione antropologica non eccessivamente abnorme e quindi difficilmente valutabile.

Gaetano Funaioli, Organizzazione del servizio medico-psichiatrico nell’esercito

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