Il disagio mentale nell’esercito alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale (1909-1914)
1. Una provincia-caserma: fare il militare a Cuneo
«Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo». È una delle più celebri battute del «Principe della Risata», Totò, pronunciata nella scena del vagone letto in cui il comico fa irritare e ridicolizza l'onorevole Trombetta. È una battuta paradigmatica che ha assunto il valore di emblema di posti remoti, sconosciuti alla maggior parte dei cittadini di un'Italia povera, in cui i viaggi li faceva soltanto chi emigrava, oppure chi partiva per il servizio di leva. Un’Italia di periferia e di montagne, di nevi, ghiacci e di campagne. Un’Italia fredda che migliaia di italiani, a cavallo tra Otto e Novecento, imparano a conoscere in quanto luogo in cui viene svolto il servizio di leva.
Nella realtà, al tempo, Cuneo è una tranquilla realtà di provincia, con tutti gli agi e i servizi che può garantirsi una comunità con meno pretese e più sobrietà rispetto alle popolose città dell’Italia settentrionale dell’epoca. Disseminata di alberghi, osterie e ristoranti, già ad inizio del Novecento341, è la meta ideale per le gite fuori porta di chi desidera abbandonare il contesto urbano in anni segnati dal rapido sviluppo industriale e dal conseguente vertiginoso aumento della popolazione. Rispetto a ciò Cuneo si configura come una media e sonnolenta realtà di confine, ben collegata al capoluogo Torino, in cui si affacciano quegli elementi di trasformazione che segnano diverse altre realtà urbane dell’epoca: l’illuminazione pubblica, la diffusione della rete telefonica e la ridefinizione e il potenziamento della rete ferroviaria. La provincia di Cuneo è però anche – e soprattutto – un territorio di caserme, un insieme disperso di avamposti militari chiamati a vigilare sul confine Occidentale dell’Italia unita. Il legame tra la presenza militare e la città è così saldo che «amministratori e mondo del commercio tentano di difendere gelosamente la presenza di un presidio che garantisce ai secondi consistenti attività economiche, in una città che non vanta altri grandi settori di sviluppo»342. Queste pressioni, unite al valore strategico di una terra di confine, spingono il governo a incrementare la già cospicua presenza di caserme, attraverso la progettazione di un nuovo quartiere militare dislocato ai margini della città del tempo, nei pressi della odierna – e invece centrale – piazza Galimberti343. Con la realizzazione della caserma dedicata a Vittorio Emanuele II, intorno alla metà degli anni Ottanta, ha inizio un processo di trasformazioni urbane che
341 Cfr. le pagine dedicate a osterie, ristoranti e altri luoghi di ritrovo sulla Guida Oggero della Provincia di Cuneo, Tipografia Oggero,
Cuneo 1900.
342 Cfr. E. Angeleri, E. Forzinetti, L. Martini, Dal cuneese alla Libia 1911-1912. La guerra dimenticata, ArabAFenice ed., Boves 2015, p.
44.
343 Cfr. R. Albanese, Caserme come Piazze, Piazze come Caserme, in Cuneo da Ottocento anni 1198-1998, ed. L’Artistica, Savigliano
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coinvolgono l’intera area destinata al nuovo complesso militare. Accanto alla caserma Vittorio Emanuele viene realizzata la Ferdinando di Savoia con cui, nel corso del Novecento, costituisce un ampio e articolato distretto militare. Durante la Grande Guerra, la struttura intitolata al re protagonista dell’Unità, è sede del II Reggimento Alpini, mentre la caserma Ferdinando di Savoia è sede del 33° Reggimento Fanteria e, in seguito, del III° Gruppo di Artiglieria da montagna
Mondovì344. La città e la provincia, parallelamente al processo di costituzione del nuovo quartiere
militare, legano sempre più il proprio territorio alle brigate Alpini che, già prima della Grande Guerra, si trovano dislocate a “macchia di leopardo”. Come riassunto efficacemente da uno studio recente sulla guerra libica e il territorio cuneese:
«L’ultima riorganizzazione con la costituzione di Brigate Alpine comprendenti più reggimenti è avvenuta nel 1910. La I° Brigata ha sede a Cuneo e comprende due reggimenti: il Primo, con sede Mondovì, con i battaglioni Ceva345, Pieve di Teco346, Mondovì; il Secondo con sede in Cuneo,
raggruppa i battaglioni Borgo San Dalmazzo, Dronero, Saluzzo347. I battaglioni conservano, con
alcune varianti, il nome della località in cui risiedeva a fine’800 il rispettivo centro di mobilitazione, detto magazzino di arredamento. […] Al momento dello scoppio della guerra di Libia il complesso delle caserme cuneesi ospita, alla Vittorio Emanuele II la sede della Brigata di Fanteria Livorno, il Battaglione Ceva del I° Reggimento Alpini e reparti dei battaglioni Dronero, Borgo San Dalmazzo e Saluzzo del II Reggimento Alpini. Il distaccamento del 23° Reggimento Artiglieria è situato presso la Ferdinando di Savoia, in corso re Umberto (oggi corso Soleri). Proprio di fronte, nella caserma Tornafonte, ha sede il 16° Reggimento Cavalleria Lucca (con distaccamento a Fossano). Altri reparti sono situati nelle strutture più vecchie: il 33° Fanteria alle caserme Carlo Emanuele III, in via Ospedale, e alla vicina caserma Leutrum, dove si trova anche il panificio militare. Nella caserma dell’ex convento di San Francesco è situato il Distretto militare. La sede del Genio Militare è lungo corso Gesso»348.
Nel 1914 Cuneo è inoltre la sede della 4° Divisione Territoriale, comandata dal tenente generale Ezio Reisoli, e della 3° Squadriglia aeroplani, costituita da monoplani Blèriot a due posti. «La pista e gli hangar sono situati in piazza d’armi, il responsabile è il tenente Ettore De Carolis»349. Una presenza capillare che ben contraddistingue non soltanto la fisionomia urbanistica di città-caserma di Cuneo, ma un più generale e consolidato legame tra i militari e la cittadinanza, con i primi che, di fatto, rappresentano una porzione considerevole, anche se in parte contingente e transitoria, della comunità. Ma la presenza dei militari non si limita soltanto alla città, anche l’intero territorio della provincia è ben vigilato. A Dronero, dal 1887, è presente il Battaglione Dronero. A Saluzzo sono presenti il Reggimento Cavalleggeri Lucca e il 74° Fanteria, quest’ultimo a guardia della fortezza della Castiglia, il carcere di massima sicurezza situato nell’ex castello del marchesato. A Mondovì, oltre al secondo distretto militare, è presente il I° Reggimento Alpini, il Battaglione Mondovì e il I° Reggimento di Artiglieria da montagna350. A Fossano, invece, sono presenti i comandi del 34° Fanteria e del 26° Artiglieria, un battaglione del 16° Cavalleria e il deposito del 34° Fanteria. A Savigliano, oltre alla caserma Arimondi che, durante la Grande Guerra, conta 2mila soldati circa, è presente l’Ospedale Militare, da cui provengono una buona parte dei militari alienati giunti a Racconigi in osservazione. A Bra è presente il 74° Fanteria della Brigata Lombardia, mentre ad Alba
344 Cfr. E. Angeleri, E. Forzinetti, L. Martini, Dal cuneese alla Libia 1911-1912. La guerra dimenticata…cit., p. 44.
345 Cfr. G. Ferraris, G. Gonella, G. Raviolo, «Ricordati che sei del Ceva». Storia di un Battaglione alpino, ArabAFenice, Boves, 2014. 346 Cfr. P. Alassio, Dalle Alpi marittime alla steppa russa. Storia del Battaglione alpini «Pieve di Teco», Dominici Editore, Imperia 2003. 347 Cfr. G. Unia, Il 2 Reggimento Alpini. Dalle origini a Kabul, L’Arciere, Cuneo 2006.
348 Cfr. Cfr. E. Angeleri, E. Forzinetti, L. Martini, Dal cuneese alla Libia 1911-1912. La guerra dimenticata…cit., pp. 44-45.
349 Cfr. M. Ruzzi, Cuneo in guerra 1915-18 e 1940-45 in M. Calandri e M. Corrdero (a cura di), Novecento a Cuneo. Studi sull’ottavo
secolo della città, tomo 1, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000, p. 106.
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è dislocato il 73° sempre della medesima Brigata. Insomma, come testimonia l’annuale Guida Oggero che raccoglie le diverse attività presenti nella provincia di Cuneo, la presenza di caserme, avamposti e presidi ospedalieri, rende il territorio della «Granda» una sorta di vigile guarnigione a difesa del confine con la Francia.
Non stupisce così rintracciare nel periodo esaminato prima della Grande Guerra – dal 1909 in avanti – la presenza costante, anche se statisticamente non rilevante, di soldati alienati inviati presso il manicomio di Racconigi. Diversi, dopo un periodo di osservazione, vengono rispediti alla caserma di provenienza, altri conoscono la strada che conduce al frenocomio della provincia di appartenenza, qualcuno, invece, permane a Racconigi per ulteriori periodi di osservazione fino a quando viene definitivamente licenziato. Quasi tutti provengono da una delle caserme disseminate sul territorio, in qualche circostanza dopo un passaggio al presidio ospedaliero di Savigliano. Cuneo è una città strategica ma, ancor di più lo è il territorio circostante, in un momento in cui i rapporti con la Francia risultano essere tesi e la situazione in nord Africa rischia di inasprire i contrasti con le altre nazioni interessate al Maghreb.
In questa congiuntura351 le trasformazioni in atto non riguardano soltanto la logistica e la dislocazione sul territorio cuneese delle caserme, è infatti tutto il comparto militare ad essere soggetto a sussulti e cambiamenti, anche di tipo estetico. Dal 1910 viene distribuita a tutti i reparti la celebre divisa grigio-verde, quella che nell’immaginario collettivo contraddistingue i soldati italiani impegnati nella Grande Guerra, ma soprattutto, dopo una fase iniziata nel 1891, caratterizzata dalla riduzione di qualche mese dei tre anni previsti come ferma obbligatoria, la leva diviene finalmente biennale, venendo incontro ad una richiesta mai sopita nell’opinione pubblica352. La riduzione del periodo da trascorrere obbligatoriamente a servizio dello Stato giungeva al termine di un processo di ridefinizione delle forze armate iniziato in coincidenza con l’Unità d’Italia. Al principio, nel 1863, la ferma obbligatoria era della durata di cinque anni, poi, al termine dei provvedimenti conosciuti come «riforma Ricotti», dal nome dal ministro Cesare Ricotti, nel 1882, venne portata a 3 anni. Veniva stabilito che le reclute fossero destinate ad una regione diversa rispetto a quella d’origine, ad esclusione degli alpini, il corpo che per definizione affermava il legame tra la truppa e il territorio di provenienza353. Se nel primo caso l’intento era quello di far circolare gli italiani sul territorio nazionale, di evitare che nel caso di rivolte l’esercito non potesse essere utilizzato per ragioni di ordine pubblico, nel secondo l’intento era piuttosto quello di fortificare lo spirito di corpo e di radicarlo in un ambiente ostile, quale quello alpino. Ma in una nazione ancora prevalentemente contadina, in cui la maggior parte degli uomini erano dediti alle attività agricole, quegli anni trascorsi al servizio dello stato suscitavano malumori e opposizioni, più o meno striscianti.
Oltre a ciò la leva ebbe però anche un ruolo sociale emancipativo, nello specifico sui processi di alfabetizzazione degli italiani. La maggior parte di questi ultimi avevano notevoli difficoltà con la lettura e pochi di essi avevano mai preso in mano un giornale per leggerlo. Come riporta Antonio Gibelli, nella classe del 1872, quelli che nel 1917 avevano 45 anni, l’analfabetismo era del 39%,
«mentre nella classe 1900 era sceso al 23%»354. Abituati ad esprimersi perlopiù in dialetto, questi
giovani di vent’anni circa, durante il servizio militare entrarono in contatto non soltanto con lingue e cadenze sconosciute ma anche con documenti, circolari, leggi, disposizioni compilate nella lingua ufficiale della nazione: l’italiano. Leggi e disposizioni non potevano non essere conosciute dai
351 Come mostrato recentemente da Oliver Janz in 1914-1918. La grande guerra…cit., pp. 11 e segg. le vicende che conducono al
conflitto globale sono molto meno lineari e teleologicamente orientate di quanto ritenesse la vecchia storiografia e hanno nelle crisi marocchine, nella tensione venutasi a creare nell’Africa del Nord e nelle successive vicende balcaniche un laboratorio di sviluppo che ha conosciuto un esito per molti versi imprevisto rispetto a quanto immaginato dagli attori in campo.
352 Cfr. N. Labanca (a cura di), Fare il soldato. Storie del reclutamento militare in Italia, Unicopli, Milano 2008.
353 Cfr. G. Rochat- G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino 1978, pp. 84 e segg. 354 Cfr. A. Gibelli, La grande guerra degli italiani. 1915-1918, BUR, Milano 2014, p. 136.
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militari, che dovettero fare gli sforzi necessari per leggere e comprendere una lingua per molti estranea. Come sostiene Tullio De Mauro «durante la guerra si profilò per la prima volta un livello linguistico popolare e unitario, ricco di regionalismi ma non regionale: […] il primo costituirsi dell’italiano popolare unitario»355. Per questo la leva favorì l’alfabetizzazione dei fanti, l’acquisizione di una, seppur rudimentale, capacità di leggere, scrivere e comprendere l’italiano. Eppure, a fronte di tutto ciò, il servizio militare restava nell’immaginario collettivo un odioso sopruso che un’entità lontana e astratta imponeva ai cittadini. Proprio alla luce di ciò la riduzione del periodo di ferma obbligatorio viene vissuta come una liberazione, in particolare nelle famiglie contadine in cui la partenza dei figli maschi, necessari per il lavoro nei campi, rappresenta a tutti gli effetti una sciagura in grado di far precipitare nella miseria l’intero gruppo parentale.
C’è da dire, però, che al netto del disprezzo condiviso dalle comunità, la leva ha rappresentato per buona parte del XX° secolo il più importante rito di passaggio per l’ingresso degli uomini nella vita adulta. Ed essere giudicati “rivedibili” o, peggio ancora, “riformati” equivale ad ottenere il disprezzo della comunità di riferimento e a essere declassati ad una condizione di sudditanza sociale. I riformati sono, in qualche misura, soggetti che non hanno raggiunto l’età adulta e, per questo, elementi su cui la collettività può fare poco riferimento. Questa è anche la condizione che interessa tutti coloro i quali sono stati dichiarati inizialmente “abili” per il servizio militare, salvo essere andati incontro ad esperienze particolari che ne hanno pregiudicato la condizione accertata con la visita di leva. Tra queste c’è la convalescenza per problemi legati alla sanità mentale. Transitare dalla condizione di soggetti “normali” a quella di potenziali alienati o, peggio ancora, di “mentecatti”, equivale ad ottenere la patente di “pazzi” e, quindi, la commiserazione nel migliore dei casi, o il disprezzo negli altri. Questo anche in virtù di un processo più generale, emerso durante l’età Liberale, che ha riguardato la capacità dell’esercito di rappresentare per i giovani un rito di passaggio, vale a dire una soglia che immette nella condizione adulta.
Su tutto ciò ha giocato un ruolo fondamentale la capacità dell’esercito di rappresentare un fattore centrale nella costituzione dell’identità nazionale e, più nello specifico, nella nazionalizzazione delle masse nella società italiana tra Otto e Novecento356. Come ben riassume Lorenzo Benadusi:
«Un secolo fa, quando le cose erano molto diverse, la preparazione della guerra costitutiva invece il compito più importante dello stato e la sfera militare era tra le più rilevanti nella vita del paese, tanto da assorbire il 20-25% delle risorse pubbliche, risultando la prima voce di spesa esclusi gli interessi sul debito. L’esercito inteso inoltre come scuola della nazione, come struttura portante della nazionalizzazione delle masse. L’obbligo della ferma, la cui durata arrivava ai due anni, rispondeva infatti a questo obiettivo, e agli ufficiali spettava il compito supremo di educare i soldati, di farne dei cittadini e dei patrioti. […] Anche la stampa seguiva quotidianamente i problemi delle forze armate, soffermandosi sia sulle più importanti questioni strategiche, sia sui dettagli tecnici: numero delle divisioni, tipi di fortificazioni, armamenti, durata della leva, esecuzioni delle grande manovre, stipendi e persino le fogge delle divise che gli ufficiali dovevano indossare»357.
Il passo, riportato dal volume di Benadusi Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia 1896-1918, sottolinea quanto le vicende militari fossero al centro degli interessi – e delle preoccupazioni – non soltanto dei governanti ma anche della società tutta. Questa ultima si informa, discute e analizza con interesse non soltanto lo stato e le condizioni delle caserme, dei soldati e degli
355 Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 108-109.
356 Solo per restare in Italia, e tra le produzioni recenti, vedi: L. Benadusi, Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia,
1896-1918, Feltrinelli, Milano 2015.
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armamenti, ma si occupa anche delle vicende private dei soldati e delle loro famiglie, come accade a Cuneo dove nel 1911 fa scandalo – riempiendo le cronache e le discussioni in città – una presunta storia di tradimenti che coinvolge la moglie di un maresciallo dell’esercito residente in una delle caserme della città358. Tutto ciò indica quanto le caserme, e i militari in esse residenti, fossero parte del tessuto urbano e sociale delle città tra Otto e Novecento e, nella fattispecie, quanto nella provincia Granda questo legame fosse consolidato e sentito dalla popolazione che, nel suo insieme, difende gelosamente questa presenza a salvaguardia del territorio. Si spiega anche in tale ottica la ferma opposizione e il moto di aperta ostilità della popolazione di Bra all’allontanamento degli alpini dalla città, in cui avevano sede dalla fondazione nel 1882, durante la fase di nuova dislocazione delle truppe sul territorio tra Otto e Novecento.
Per molti versi, dunque, quello cuneese è un territorio in cui la presenza delle caserme viene vissuta come parte dell’ambiente, al pari delle cascine e delle aziende agricole, e non come un elemento estraneo; ciò favorisce localmente quel processo di «rapida militarizzazione della società» e di «progressiva civilizzazione dell’esercito»359 che rappresenta una delle cifre del passaggio di secolo. Come sostenuto sempre da Benadusi, «i due ambiti finivano per compenetrarsi e condizionarsi»360 e se l’esercito trasmetteva alla società «alcuni valori militari come quelli di onore, coraggio, spirito di corpo, rispetto delle gerarchie, capacità di sacrificio e senso del dovere»361, anche la società influenzava il mondo delle caserme con valori tipicamente borghesi quali il pragmatismo, l’efficienza, la professionalità. Tutto ciò sarebbe entrato in profonda crisi con lo scoppio della Grande Guerra e con la lacerazione inferta alla società nella sua interezza e, quindi, anche a questo connubio. La compenetrazione e il reciproco condizionamento sarebbero da lì a poco entrati in crisi anche, e soprattutto, a causa dei pesanti costi umani, sociali ed economici della guerra. E il rifiuto della guerra assume il volto di un rifiuto delle logiche che la animano e, dunque, anche di quel militarismo che ne costituisce il volto più repressivo e autoritario. Torna così prepotente – ammesso che sia mai venuta meno – l’antinomia tra civiltà e barbarie, tra società civile e ambiente militare, tra borghesia e esercito. E in queste dicotomie va ricercato quel disagio della civiltà, celebrato dai poeti, analizzato dagli storici e dai filosofi, di cui le nevrosi di guerra che colpiscono fanti e ufficiali durante il grande conflitto, forse, sono il contrassegno più evidente e sintomatico.