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4. Il ruolo dei parroci: vegliare e sorvegliare

4.1 Funzioni spirituali, civili e repressive

Per ripercorrere sinteticamente la genesi delle molteplici funzioni attribuite ai parroci nel corso dell’età moderna, è necessario rivolgersi ancora una volta all’assetto delineato a Trento dai vertici della Chiesa di Roma. Fu infatti di fronte alla crisi politico-religiosa della Chiesa cinquecentesca che si avviò una profonda riforma dell’istituto parrocchiale medievale e si venne configurando la struttura della parrocchia moderna. La necessità di riorganizzare radicalmente la presenza dalla Chiesa cattolica sul territorio e tra la popolazione implicò una «massiccia e graduale trasformazione dei curati in altrettanti anelli intermedi di una lunga catena di controllori-controllati»153. Si stabilì in tal modo, anche in questo settore, un parallelismo tra organizzazione territoriale diocesana basata sulle unità parrocchiali, e in stretta correlazione con i tribunali ecclesiastici, e struttura inquisitoriale articolata attraverso le sedi periferiche del Sant’Uffizio.

L’ottica unitaria - già sottolineata per gli organi giudiziari - entro cui prendevano forma strumenti e finalità formulati dal consesso tridentino e dall’Inquisizione, nei loro rispettivi campi di intervento, convergeva nel ruolo chiave attribuito al parroco: vescovi e inquisitori, in modo congiunto, affidarono al curato il compito primario di mediazione con le comunità, finendo per attribuirgli la funzione di terminale di due complessi apparati burocratici e territoriali. Se il vescovo era direttamente collegato al clero locale all’interno della gerarchia diocesana, anche i vicari foranei dell’Inquisizione potevano contare su di lui. Come rilevato da Susanna Peyronel Rambaldi per lo Stato Estense, alla fine del Cinquecento, l'Inquisizione:

pur nella ancora evidente disorganizzazione e sovente nella diarchia di poteri, tra inquisitore e vescovo, mostrava di riuscire a penetrare nel tessuto delle comunità in modo più capillare, servendosi dei frati predicatori, ma soprattutto […] del clero locale, e si andava ormai strettamente legando alla riorganizzazione diocesana e parrocchiale che il Concilio aveva promosso. Un unico programma di riforma e di repressione, di incentivazione di pratiche religiose come la confessione e di uso di queste pratiche anche

153 L. Allegra, Il parroco: un mediatore tra alta e bassa cultura, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia,

per scopi repressivi, di valorizzazione della figura del parroco e, nello stesso tempo, di suo inquadramento in un più ampio programma di controllo154.

Tali considerazioni potrebbero essere estese a molte altre realtà italiane, sempre tenendo conto delle disparità esistenti tra i differenti contesti territoriali e, all’interno di questi, tra centro e periferia. Al di là delle specificità dei singoli ambiti è però possibile individuare un processo più generale di inquadramento sociale e professionale dei parroci che si maturò nel corso dei secoli centrali dell’età moderna.

L’opera di disciplinamento del basso clero formulata a Trento, prevedendo anche l’uso di misure coercitive, si basò anzitutto sulla diffusione di una rinnovata coscienza della propria missione pastorale, impartita anzitutto nei seminari deputati alla formazione. Quest’enorme sforzo pedagogico mirava in primo luogo a porre un argine alla dilagante ignoranza dei parroci. Ciò comportava la definitiva recisione dei tradizionali legami del basso clero con la cultura popolare e la dimensione magico-religiosa del cattolicesimo, ancora ampiamente diffusa in questi primi secoli dell’età moderna. Il processo di distacco e differenziazione sociale dalla comunità di appartenenza, tutt’altro che lineare e univoco, trasformò il parroco in una sorta «mediatore tra alta e bassa cultura», secondo l’efficacie definizione di Luciano Allegra155. Si crearono in tal modo i presupposti per la progressiva assimilazione tra clero locale e ceti dirigenti che avrebbe avuto il suo compimento soltanto tra il XVIII e il XIX secolo, seguendo tempi e modi specifici nei singoli contesti territoriali.

Il cambiamento maturato nel corso della Controriforma su questo piano antropologico e sociale coincise quindi con una vera e propria “professionalizzazione” del clero, a marcare la distanza che separava ormai il

154 S. Peyronel Rambaldi, Podestà e inquisitori nella campagna modenese. Riorganizzazione inquisitoriale e

resistenze locali (1570 -1590), in A. Del Col-G. Paolin, L'Inquisizione romana in Italia nell'età moderna,

Atti del seminario internazionale Trieste, 18-20 maggio, Pubblicazioni degli archivi di Stato, 1991, p. 215. La studiosa sottolinea inoltre il cambiamento rispetto al Medioevo del rapporto tra parroci e Inquisizione: «Eresia ed eretici, infatti, erano considerati problemi che culturalmente e canonisticamente i parroci non erano in grado di affrontare. Nel XVI secolo, invece, il ruolo dei parroci, anche dal punto di vista inquisitoriale, sembra divenire assai più centrale e contribuisce certamente a quel processo di differenziazione tra parroco e comunità, che la chiesa tardo- cinquecentesca andava perseguendo» (p. 217).

“pastore” dal suo “gregge”. Pur mantenendo ampi margini di ambiguità, il parroco era sempre più identificabile con un funzionario pubblico a cui erano attribuite fondamentali funzioni civili.

Su questo punto hanno molto insistito gli studi di Elena Brambilla, mettendo in luce quanto fosse esclusivamente l’appartenenza su base territoriale ad una parrocchia a determinare la possibilità di vedere riconosciuti alcuni fondamentali diritti da parte dei sudditi156. L’amministrazione dei sacramenti, come compito precipuo dei parroci, oltre al valore religioso, ricopriva perciò una vera e propria funzione civile di registrazione demografica, anagrafica e matrimoniale. In questi settori non era previsto un preciso intervento dello Stato e, in assenza di una definizione di “cittadinanza politica”, veniva riconosciuta esclusivamente una “cittadinanza anagrafica battesimale”, da cui discendeva la possibilità di unirsi in matrimonio e godere di alcuni diritti connessi. Al valore religioso e sacramentale, oltre che rituale-simbolico del battesimo157, si sommava un’efficacia civile decisiva che incardinava le funzioni religiose nel cuore stesso del funzionamento dello Stato. Nei paesi cattolici il battesimo finiva per coincidere con una “cittadinanza primaria”, secondo una logica di netta discriminazione nei confronti dei non cattolici.

Il carattere “coestensivo”, dalla Chiesa allo Stato, di alcune prerogative ecclesiastiche vigeva anche nel campo della repressione, equiparando il sistema giudiziario dipendente dalla Chiesa di Roma a quello propriamente statale. In questo settore i parroci rivestivano un ruolo cruciale costituendo le principali fonti di informazioni sui comportamenti privati e pubblici dei fedeli. Il loro stretto rapporto con le comunità, gli strumenti spirituali connessi alla confessione, la redazione dei registri di nascita, morte e matrimonio, ancorché gli Stati delle anime compilati in occasioni delle confessioni pasquali158, avevano come

156 Oltre agli altri testi già più volte citati nel corso di questo lavoro rinvio a E. Brambilla, Battesimo e

diritti civili dalla Riforma protestante al giuseppinismo, in «Rivista storica italiana», CIX (1997), pp. 602-

627, e al recente E. Brambilla, Statuto delle minoranze religiose e secolarizzazione della cittadinanza (da

Giuseppe II all’età francese), in M. Formica-A. Postigliola (a cura di), Diversità e minoranze nel Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2006, pp. 173-202.

157 Cfr. J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti dell’Europa moderna,

Einaudi, Torino, 1998, e A. Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino, 2005.

158 Cfr. G. Sbrana–R. Traina–E. Sonnino, Gli “Stati delle anime” a Roma dalle origini al sec. XVIII, La

immediata conseguenza la possibilità di esercitare un controllo capillare sulla popolazione e proprio tale potenzialità fu sfruttata dagli apparati di repressione ecclesiastica.

Fu questo intero sistema a subire un duro colpo nel corso del Settecento, quando venne messa in discussione l’idea stessa delle funzioni civili connesse al sacerdozio. In particolare il processo di laicizzazione dello stato civile, che ebbe il pieno compimento nel periodo napoleonico, comportò il trasferimento di fondamentali competenze dalla Chiesa allo Stato. Già attraverso le dispute giurisdizionaliste settecentesche si era aperta una stagione di riforme promosse dai sovrani illuminati in questo settore attraverso cui era stato introdotto il principio secondo il quale soltanto lo Stato poteva conferire i diritti civili. Entrava così in crisi il modello stesso di rapporti tra Chiesa e Stato concepito a Trento, eliminando l’assunto dell’obbligatorietà e riconoscendo così anche l’esistenza di altre confessioni159.

Questo sensibile cambiamento minava alla base l’intreccio di competenze affidate ai parroci e, ridimensionando le attribuzioni civili, si indebolivano anche quelle repressive e giudiziarie. Contemporaneamente anche le giurisdizioni ecclesiastiche furono investite da un’ondata di polemiche che sfociarono in vere e proprie soppressioni160. In tal modo veniva meno un intero sistema giurisdizionale basato sui tribunali ecclesiastici che facevano riferimento ai parroci come fonti d’informazioni nel corso delle indagini o addirittura come figure in grado di avviare la procedura.

159 Sulla complessità del rapporto tra chiesa e Stato nel Settecento cfr. Venturi, Settecento riformatore,

cit., e per le esperienze nei singoli Stati cfr. D. Carpanetto-G. Ricuperati, L’Italia del Settecento: crisi,

trasformazione e lumi, Roma-Bari, Laterza, 1986.

160 Cfr. E. Brambilla, La polizia dei tribunali ecclesiastici e le riforme della giustizia penale, in L.

Antonielli-C. Donati, Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.), Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 73-111, p. 97: «[Si] avviava la fine, con la Chiesa unica e obbligatoria, dell’imposizione di polizia degli obblighi di culto e dell’autorità coattiva dei tribunali ecclesiastici. In contemporanea, le grandi riforme giudiziarie avviate negli anni Ottanta del Settecento dai governi illuminati, e poi, infine, l’abrogazione del diritto romano-canonico, sostituito dai codici napoleonici, operavano la destatalizzazione dei tribunali ecclesiastici: essi cessavano di costituire parte integrante dei sistemi giudiziari statali, e le loro sentenze perdevano il carattere coattivo che avevano condiviso coi tribunali laici. Sino ad allora, alle «censure» e pene ecclesiastiche erano rimasti soggetti i comportamenti dell’uomo in pubblico e in privato – i reati di bestemmia e irreligione, d’opinione e di culto, di costume morale e sessuale – repressi dalle curie vescovili e dalle sedi periferiche del Sant’Uffizio, i tribunali che avevano assicurato a quello cattolico lo statuto di culto unico, pubblico e obbligatorio».

Da questo momento in poi, nella maggior parte degli antichi Stati italiani, il sistema dei tribunali ecclesiastici continuò ad essere progressivamente depotenziato, destatalizzato, se non definitivamente abrogato, contestualmente all’introduzione stabile di un’anagrafe civile, ponendo così fine all’identificazione tra ministri ecclesiastici e funzionari pubblici.

Al contrario, nello Stato pontificio, si verificò l’estremo tentativo di ripristinare i precedenti dispositivi ecclesiastici attuando una sorta di damnatio memoriae di ciò che era avvenuto nel corso dell’occupazione francese. Ancor prima del ritorno effettivo di Pio VII a Roma, sotto la guida del cardinal Rivarola in qualità di Commissario apostolico con l’Editto del 13 maggio 1816 venne abolita ogni traccia dello “stato civile”. Si auspicava anzi la «pronta restituzione, e consegna ai parrochi, di tutti i libri, carte e scritture appartenenti alle parrocchie»161. Si rifondava dalla base l’intero sistema di controllo ecclesiastico, ripartendo dal livello più basso, attraverso la restaurazione dei doveri e dei poteri dei parroci.