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3. Il Tribunale criminale del Vicario dal Concilio di Trento al XIX secolo

3.1 Le origini tra Concilio e Inquisizione

Le origini di questi compiti giudiziari e di polizia ecclesiastica coordinati dal Tribunale del Vicario, ancora ben saldi all’epoca del trattato di Cuggiò, risalivano al progetto, al contempo politico, religioso e culturale, di riaffermazione dell'egemonia cattolica sull'Europa, e in particolare sugli Stati italiani, dopo il trauma della Riforma, che prese le mosse a partire dal Concilio di Trento107.

Questo programma di enorme portata e di lunghissima durata, che assunse i connotati di una vera e propria «guerra spirituale» con forti ricadute temporali e propriamente politiche giocate sul confine labile tra coercizione e convinzione, ebbe uno dei suoi capisaldi nella riorganizzazione della presenza delle strutture ecclesiastiche nella società. Attraverso una nuova articolazione dei confini circoscrizionali di diocesi e parrocchie, contestualmente alla ridefinizione dei loro specifici compiti, si misero a punto più incisive reti territoriali vescovili, a cui poi si sarebbero affiancate quelle inquisitoriali: il «controllo delle coscienze» doveva passare anzitutto per il controllo capillare del territorio108.

Nel quadro delineato le curie vescovili dovevano rispondere, in primo luogo, ad uno obiettivo schiettamente coercitivo, basato sulla costruzione di un sistema poliziesco capillare, che consentisse di vigilare e punire i comportamenti devianti, potenziale veicolo di propagazione delle idee eretiche. I fattori disgreganti e repressivi contenuti in questa linea di intervento, furono però affiancati

107 Per una rassegna della vasta storiografia che ha avuto come oggetto il Concilio di Trento rinvio

alla sintesi di A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Einaudi, Torino, 2001 e alla bibliografia relativa alle pp. 189-194.

108 Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., in particolare pp. 316 e sgg. Impossibile dar conto

in questa sede della sterminata letteratura sull'Inquisizione, notevolmente arricchitasi sotto l'impulso rappresentato dall'apertura ufficiale degli archivi nel 1998. L'apporto di fonti inedite ha reso possibile confutare e contestualizzare la cosiddetta "leggenda nera" dell'istituzione, aprendo nuove prospettive di ricerca sulle indagini statistiche e seriali, sulla strutturazione dei poteri centrali e periferici, sui meccanismi della confessione. Tra queste sono peraltro emerse alcune posizioni tese a ridimensionare la portata dell'impatto repressivo in termini numerici e ad assumere il "punto di vista" degli inquisitori, fino a suggerire l'idea di una forma di "garantismo" nelle procedure inquisitoriali (cfr. J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico, Studi sull’Inquisizione romana, Vita e pensiero, Milano, 1991). Per una rassegna bibliografica degli studi esistenti a livello europeo si rinvia a Brambilla, La giustizia intollerante, cit., pp. 243-272, oltre che al suo precedente lavoro Ead.,

Alle origini del S. Uffizio, cit. Si segnalano infine, oltre ai testi citati nel corso dell'esposizione, le due

recenti sintesi pubblicate in Italia, quella molto breve di G. Romeo, L'Inquisizione nell'Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 2002 e la più completa di A. del Col, L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano, 2006.

dall'intento di rinsaldare e regolamentare un vero e proprio sistema di valori condivisi, attraverso la diffusione di una rinnovata pedagogia cattolica. Proprio la combinazione di misure coattive e persuasive avrebbe prodotto quel processo di "confessionalizzazione" che incise profondamente sul piano antropologico e sulla formazione della coscienza europea, assumendo i contorni di ciò che è stato definito "disciplinamento sociale"109.

In quest'ottica, separare nettamente gli aspetti più apertamente repressivi da quelli tesi a ricercare forme di adesione al modello imposto rischia di creare un equivoco storico, ancor prima che storiografico. Il dualismo insito nella contrapposizione dei campi semantici individuati dai termini di Controriforma e Riforma cattolica, su cui molto hanno dibattuto gli storici110, alla luce degli studi attuali può essere superato in virtù di una visione più ampia e unitaria che tenga anche conto delle interrelazioni, strutturali e concettuali, esistenti tra Inquisizione e concilio ecumenico, come:

due strumenti diversi che miravano ad ottenere due scopi generali strettamente collegati e funzionali uno all'altro: la lotta contro la Riforma in alcuni paesi cattolici e la loro unificazione confessionale, per far sopravvivere il cattolicesimo; la riforma interna della Chiesa, per stimolarne una nuova vitalità religiosa111.

109 Il paradigma del "disciplinamento sociale", introdotta da storici come Gherard Oestreich e

Pierangelo Schiera, ha ispirato una fertile stagione di studi. Tra questi si rinvia al volume collettivo di P. Prodi (a cura di) Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo e

età moderna, Il Mulino, Bologna, 1994, in cui sono raccolti una varietà di approcci al tema. Un

bilancio critico sulla parabola e gli esiti di tale corrente storiografica è quello proposto da G. Alessi,

Discipline. I nuovi orzzonti del disciplinamento sociale, in «Storica», 1996, 4, pp. 7-37.

110 In merito alle posizioni che hanno avanzato l'idea di una riforma cattolica, di matrice umanistica

e con caratteri non esclusivamente oppositivi a quella protestante, si rinvia alla classica opera di H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, voll. 4, Morcelliana, Brescia, 1973-1981. Una letteratura recente ha poi messo ulteriormente in discussione questa visione "pacificata", sottolineando gli elementi di conflitto profondo che attraversarono la religiosità cinquecentesca, cfr. M. Firpo, Inquisizione romana

e Controriforma. Studi sul Cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Il Mulino, Bologna, 2000.

111 Del Col, L'Inquisizione in Italia, cit., p. 297-298. Poco più avanti lo studioso commenta così la

mancanza di studi incrociati su queste fonti: «Questa separazione tra attuazione del concilio e repressione dell'eresia si è avuta per motivi sia storiografici che documentari, e ha alimentato due distinti e incomunicanti filoni di ricerca, basati principalmente sulle visite pastorali da una parte oppure sui processi inquisitoriali dall'altra. Lo studio della Riforma cattolica si è focalizzato in sostanza sul governo delle diocesi da parte dei vescovi e sull'azione dei nuovi ordini religiosi prima e dopo il Concilio, sottacendo spesso gli aspetti più duri della Controriforma.» (p. 298). Un'eccezione a tale tendenza negli studi è rappresentata dal lavoro di Di Simplicio, Peccato e

penitenza perdono, cit., oltre che dall'impostazione di fondo che sorregge il lavoro di Firpo, Inquisizione romana e Controriforma, cit. teso ad affrescare il clima religioso cinquecentesco

sottolineando il «nesso strutturale tra Inquisizione romana e Controriforma che venne allora stringendosi» (p. 27).

La pregnanza di questo intreccio riveste una rilevanza cruciale nel nostro specifico discorso poiché mette al fuoco il processo simultaneo attraverso cui mentre al vertice si consolidava il Sant’Uffizio, quale sommo tribunale di fede, ad un livello intermedio si dilatava uno spazio di intervento definibile come “polizia dei costumi”, affidato ai vescovi, che a loro volta si poggiavano sui parroci. La coincidenza dei tempi, rilevata da Elena Brambilla, evidenzia tale parallelismo:

il potere di giustizia capitale di polizia acquisito dalla rete dei tribunali del Sant'Uffizio dagli anni 1550-60 ebbe come risultato collaterale, in Italia, anche un notevole aumento dell'autorità di polizia pubblica e segreta dei tribunali vescovili nei reati morali. I vicari delle curie vescovili poterono, in particolare ampliare e inasprire gli interventi in quel campo di giustizia penale non capitale che si è suggerito di definire polizia correzionale o di

buon costume, e che perseguiva reati morali e sessuali utilizzando procedure sommarie,

che prescindevano dalle formalità del processo.112

E’ perciò nella combinazione di concezioni, strumenti e metodi formulati contestualmente da Concilio e Inquisizione che si situano le origini delle strutture di polizia ecclesiastica, le quali finirono per costituire l’unico sistema poliziesco unificato e centralizzato in antico regime.

Tener conto di questa sinergia tra istituzioni di natura diversa e inserire l'attività dei tribunali ecclesiastici all'interno di un progetto più complessivo di intervento nella società, declinato in varie forme e attraverso una pluralità di mezzi, è un elemento interpretativo di primaria importanza per comprendere la reale portata del ruolo svolto da questo tipo di magistrature e la loro capacità di tenuta nel tempo. Ovviamente risulta altrettanto necessaria una contestualizzazione di queste dinamiche nelle singole aree italiane, anzitutto in considerazione dei fattori di differenziazione esistenti tra Nord e Sud e tra centro e periferia. Solo per fare un esempio, se nell'Italia settentrionale e nel nord dello Stato pontificio furono create sedi stabili del Sant'Uffizio e si sviluppò quindi una compresenza tra inquisitore e vescovo, nell'Italia meridionale la repressione dell'eresia venne attuata dai soli vescovi, con la presenza di un unico ministro del Sant'Ufficio a Napoli113.

112 Brambilla, La giustizia intollerante, cit., p. 149. 113 Del Col, L'Inquisizione in Italia, cit., p. 397.

Lo sviluppo parallelo di questi diversi organi di controllo e delle loro rispettive diramazioni territoriali, in particolare i vicari foranei del Sant'Uffizio e i vicari foranei vescovili, non fu soltanto sinergico, ma finì per provocare, tra vescovi e inquisitori, sovrapposizioni e conflitti, come sottolineato da Adriano Prosperi114. Lo studioso ha individuato i campi di intervento comuni, e dunque confiliggenti, nel controllo sulle produzioni teatrali, sulla bestemmia e su alcune forme di stregoneria. Si può aggiungere, più in generale, quella sfera dei "reati misti", di cui si è trattato, che ricadevano nelle competenze dei tribunali vescovili, ma erano altresì soggetti all'intervento inquisitoriale. Lo statuto fluido di tali delitti, in cui le nozioni giuridiche si confondevano facilmente con il giudizio morale, rendeva ulteriormente labile il sottile confine che separava i reati morali dai reati di opinione e, dunque, le competenze dei tribunali vescovili e quelle dell'Inquisizione.

Nel momento in cui sorgeva il sospetto che un reato morale, normalmente perseguito dalla curia vescovile, celasse una qualche forma di dissenso ideologico, di difformità religiosa o di opinioni non ortodosse, la competenza passava de facto al Sant'Uffizio, preposto a questo specifico settore. Infatti il tribunale di fede, a differenza di quello penale, era deputato a reprimere il dissenso religioso e intellettuale e lo faceva mirando all'abiura, più che a una vera e propria punizione. Solo nel caso in cui non si fosse giunti alla confessione, e al conseguente perdono, sarebbe stata comminata la pena capitale affidata al "braccio secolare" della giustizia. Proprio questo scopo primario di reprimere le idee, anziché i crimini, assimilava i tribunali di fede a quelli politici115. Tale meccanismo giudiziario si

114 Così titola un capitolo del libro di Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., in cui lo studioso

afferma che l'Inquisizione romana dovette, in primo luogo, distaccarsi dall'organizzazione della Inquisizione medievale: «la rete dei conventi coi quali si identificavano le cellule dell'Inquisizione dovette piegarsi a strumento secondario e occasionale di una struttura stabile, riccamente articolata, saldata stabilmente con le altre autorità del territorio. La costruzione di una rete più fitta, quella dei vicariati, portò l'Inquisizione a rivaleggiare con la diocesi. Alla fine del Cinquecento, era già visibile in molte parti d'Italia la sovrapposizione delle due strutture territoriali.» (p. 323)

115 In proposito si veda Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio, p. 537 e Ead., Il segreto e il sigillo, cit.,

chiarisce la distinzione tra tribunali di fede, penali e politici: «[Il tribunale di fede] punisce le differenze di rituali e il dissenso di opinioni promettendo la grazia a chi abiura e condannando chi non si piega. Il “perdono” non si dà mai senza abiura: al contrario che nei tribunali penali, qui chi confessa (abiura) non è assolto ma perdonato, e proprio chi non confessa è condannato a morte, perché “ostinato” nell’errore. I tribunali di fede operano secondo una logica opposta ai tribunali

basava sul presupposto anti-giuridico secondo cui potevano essere indifferentemente poste sotto giudizio le intenzioni e le azioni, non sussistendo la necessità dei “fatti” per dar luogo a procedere. Su questa confusione di fondo si innestavano le sfumature tra le nozioni di confessione, abiura, perdono e condanna, su cui si reggeva l’intera macchina repressiva.

I tribunali criminali vescovili, come quello del Vicario, sembravano porsi in un territorio intermedio tra i tribunali penali e quelli di fede. Il loro fine doveva consistere anzitutto nel pentimento e nel ravvedimento del peccatore, che avrebbe rappresentato così un exemplum per tutta la comunità. Nei fatti, come si è visto tra le detenute del S. Michele, i tribunali vescovili agivano in modo strettamente sanzionatorio svolgendo una funzione penale al pari delle altre magistrature.

Nello specifico del caso romano la lacunosità delle carte del Tribunale del vicariato risalenti all'antico regime costringe infine a spostare l'attenzione sugli archivi del Sant'Uffizio per ricercare le tracce di uno scambio che sicuramente si svolse sul terreno vischioso dei reati morali. Studi recenti si sono mossi in questa direzione di ricerca, testimoniando una sorta di consuetudine procedurale tra Vicariato e Inquisizione, nel corso dei secoli centrali dell'età moderna116. Con il passare del tempo, pur potendo contare su una maggiore quantità di documentazione conservata presso il Vicariato, gli indizi di questo dialogo diventano invece flebili, limitandosi a poche raccolte di corrispondenze117. Ma l'intensa attività giudiziaria perdurante nell'Ottocento, di cui si darà conto qui di seguito, smentisce l'idea che a questa penuria di fonti corrisponda necessariamente una diminuzione dei rapporti tra le due istituzioni, i presupposti su cui essi si erano fondati continuavano a sussistere e con ogni probabilità determinavano una loro persistenza, sia pure su un piano meno formalizzato.

penali, e comune invece ai tribunali politici: entrambi mirano a reprimere il dissenso, non a punire delitti».

116 Si veda Fosi, La giustizia del papa, cit. per gli esempi di passaggi di competenze. In particolare,

riguardo i casi di sodomia, per finire sotto al giudizio del Sant'Uffizio «bastava, insomma, che il presunto reo avesse giustificato davanti alle sue vittime o ad altri testimoni il suo comportamento, con la consueta affermazione che non era peccato».

117 Cfr. corrispondenza con il S. Uffizio, risalente alla seconda metà del XIX secolo, in ASVR, Atti