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2. Carolina e le altre detenute: la criminalità femminile tra stereotipi e realtà Il caso giudiziario appena presentato riveste un interesse particolare ai fini del

2.5 Realtà e rappresentazion

Alla luce di questo quadro quantitativo, si può concludere che l'andamento della criminalità femminile fosse significativamente orientato verso reati di natura morale, ma al di sotto di questo surplus si dispiegava una realtà più variegata. Mettendo da parte l'insieme preponderante dei reati morali, emerge infatti una molteplicità di delitti contro le persone, la proprietà e le autorità. A questa varietà corrisponde poi una notevole e diffusa variabilità delle pene, determinata da numerosi fattori: le circostanze in cui si era verificato il reato (attenuanti/aggravanti), i precedenti penali (fenomeno della recidiva), le variabili processuali e, non ultima, la differenziazione di trattamento determinata dall’appartenenza cetuale.

Queste oscillazioni erano inoltre alimentate dal particolare statuto giuridico delle donne, per le quali, in sede processuale, le valutazioni sulla condotta, sulla moralità e sulla pubblica fama, assumevano un rilievo del tutto particolare nella formulazione del giudizio. La figura giuridica della fragilitas sexus e il paradigma della "doppia trasgressione", a cui si è fatto cenno, intervenivano poi incisivamente nel corso del dibattimento costituendo, a seconda dei contesti, fattori attenuanti o aggravanti. Era la versatilità propria di queste stesse elaborazioni giuridiche che consentiva di ampliare l'interpretazione della volontà del legislatore in un senso o nell’altro. Oltre a questo sostrato giuridico, subentravano poi le concezioni e i veri e propri pregiudizi culturali nei confronti delle donne, che allargavano ulteriormente il margine di arbitrarietà.

L'evidente repressione di stampo morale – in particolare il larghissimo uso dei precetti che precedevano, accompagnavano e seguivano le condanne, a riprova di un’attenzione capillare sui costumi femminili – celava quindi condotte criminali assimilabili a quelle maschili, distanziate fondamentalmente da un fattore numerico. Le donne commettevano statisticamente meno reati, ma ad accomunarle agli uomini erano l’estrazione sociale e la tipologia di infrazioni commesse: si trattava prevalentemente di donne appartenenti ai ceti popolari

(campagnole, vagabonde, filatrici, serve, vignaiole, lavandaie, ostesse, etc.84), che attentavano in primo luogo alla proprietà, rubando, rapinando, associandosi a malviventi e briganti, e usavano violenza contro le persone, nelle risse, nei ferimenti, negli omicidi, oltre che trasgredire i dettami delle autorità.

Le stesse fonti iconografiche dell’epoca, in special modo le incisioni di Bartolomeo Pinelli, le raffiguravano in atteggiamenti aggressivi, soprattutto nei confronti delle altre donne, alle prese con armi contundenti, come gli “spadini” con cui usavano acconciare i capelli o con i famigerati coltelli, così diffusi a Roma85. L’immagine che si definiva era quella di donne immerse nella più generale cultura della violenza e dell’onore, propria della tradizione popolare romana86.

E' sicuramente difficile valutare in che misura questi usi e costumi rispecchiassero una mentalità collettiva e una realtà sociale della Roma di quegli anni, o quanto tale visione venisse trasmessa attraverso un complesso processo di costruzione di rappresentazioni, auto-rappresentazioni ed etero-rappresentazioni. E' interessante però accennare ad alcuni fenomeni di circolazione culturale che presero forma proprio nel periodo considerato, contribuendo alla costruzione di uno stereotipo della plebe romana, caratterizzato da una sua spiccata contiguità con gli ambienti criminali. La cosiddetta "saga del coltello", che ebbe come protagonisti trasteverini, monticiani e altri abitanti dei rioni della città, appare come il frutto di una vera e propria "folklorizzazione" di alcuni tratti comportamentali del popolo romano, avvenuta simultaneamente "dal basso" e "dall'alto". Attraverso uno scambio, ascendente e discendente, si consolidò

84 Al momento dell’ingresso in carcere le donne dichiaravano la loro professione, che veniva

annotata sul registro. Le detenute denunciarono le seguenti condizioni di lavoro: 145 campagnole, 86 vagabonde, 70 filatrici, 64 serve, 18 sartrici, 16 vignajole, 15 lavandare, 14 possidenti, 9 tessitrici, 9 donne di servizio, 8 fruttarole, 6 locandiere, 5 stiratrici e 4 cameriere. In 27 casi i mestieri dichiarati sono stati classificati sotto la categoria "altro".

85 Cfr. B. Rossetti, La Roma di Bartolomeo Pinelli. Una città e il suo popolo attraverso feste, mestieri,

ambienti e personaggi caratteristici nelle più belle incisioni del “pittor de Trastevere”, Newton Compton,

Roma, 1981. Si segnalano, in particolare, le celebri incisioni: «Lite di femmine in Roma» e «Lite di donne di strada presso la Piazza Barberini».

86 Un’indagine sulle fonti giudiziarie, che conferma questa interpretazione, è stata condotta da L.

Asta, La violenza femminile nella Roma del primo Ottocento, in «Rivista storica del Lazio», VIII-IX, 200- 2001, 13/14, pp. 17-45. Sull’uso della violenza interprersonale, in particolar modo maschile, anche se in un periodo successivo, cfr. D. Boschi, Omicidi e ferimenti a Roma dalla metà dell’Ottocento alla

l'immaginario di una "romanità malandrina", come figura retorica della tradizione popolare e, al tempo stesso, cristallizzazione di un cliché letterario87.

Nel corso dell'Ottocento si venne arricchendo un repertorio popolare in parte esistente, fatto di canzoni, proverbi, stornelli e produzioni teatrali, che vedevano protagonisti delinquenti e carcerati o che si ispiravano a personaggi realmente esistiti ricondotti a "maschere", come Jacaccio, Meo Patacca o Rugantino, sempre al limite tra il lecito e l'illecito. Questo modello di rappresentazione alimentò una sorta di mito del “bullo” romano, fondato sull'idea dell'esistenza di una vera e propria "contro-cultura" criminale diffusa tra le classi popolari della città, contraddistinta da particolari rituali, da codici comportamentali e da un gergo specifico88.

Su un altro piano si sviluppò una produzione letteraria colta, fortemente permeata dalla nuova sensibilità romantica nei confronti della nozione di popolo, veicolata dai resoconti di viaggio di alcuni celebri visitatori, come Stendhal o D’Azeglio, e che ebbe la massima espressione nella poesia di Belli89. Attraverso questo sguardo "esterno" sugli usi e costumi degli abitanti della capitale, riemergeva il topos del romano caratterizzato da un'accentuata inclinazione a delinquere, che finiva per coincidere con i canoni della produzione popolare.

Stabilire in quale misura questi due filoni interagirono e in che modo avvennero scambi e prestiti, richiederebbe uno studio specifico e strumenti di analisi demo-etno-antropologica che esulano dai fini di questa ricerca. Interessa però, in questa sede, constatare quanto queste rappresentazioni si consolidassero ed avessero un successo di una lunga durata che influenzò anche la percezione della criminalità romana.

87 Sui dislivelli interni ed esterni delle culture e sulla circolazione dei "fatti culturali" in un'ottica

demologica si veda A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna di studi sul mondo

popolare tradizionale, Palumbo, Palermo-Firenze, 1971. Da un punto di vista storico-sociologico il

punto di riferimento per l'analisi della circolazione dei modelli comportamentali tra gli strati sociali, rimane N. Elias, Processo di civilizzazione, cit..

88 Sui processi di formazione di una cultura propria del mondo criminale cfr. P. Burke, Scene di vita

quotidiana nell'Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1987, in particolare p.82 e sgg., e O. Brien, Correction ou chatiment, cit. p. 85 e sgg.

89 Ci si riferisce, in particolare, alle opere di Stendhal, Passeggiate romane, Garzanti, Milano, 2004, e

M. D’Azeglio, I miei ricordi, 2 voll., G. Barbera, Firenze, 1867. Sulle fonti odeporiche in genere si rinvia a A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione popolare, Il Mulino, Bologna, 2006. Sulla poesia di Belli cfr., supra, nota 7.

Sempre nel corso di questi anni si diffuse tra il pubblico, seppur ristretto, di lettori, un nuovo gusto del "macabro" e del "fait diver", che innescò un fenomeno di consumo di pubblicistica e romanzi sul crimine, esemplarmente rappresentato dal successo editoriale delle memorie del boia Mastro Titta90. Questo filone di letteratura "minore" continuò poi a incrementarsi costituendo un vero e proprio genere, non privo di venature nostalgiche e teso a celebrare l’ideale ottocentesco di una Roma popolare “sparita”, in voga fino ai nostri giorni91.

Ciò che preme sottolineare è che anche le donne, di malaffare, carcerate o delinquenti, furono parte integrante di questo caleidoscopio di rappresentazioni. Se i delitti passionali e l'abitudine al meretricio contraddistinguevano gli stereotipi della criminalità femminile, non appariva meno rilevante l'elemento della violenza, contro le persone e contro le cose. Da questi luoghi comuni non si evinceva, insomma, una netta connotazione morale delle trasgressioni femminili, paragonabile a quella rilevata nell'indagine sulle detenute rinchiuse in carcere. Questa incongruenza tra l'immagine rimandata dalle fonti giudiziarie e carcerarie, contrapposta all'analisi delle produzioni culturali coeve, lascia supporre che l'enfasi sulla connotazione morale della criminalità femminile fosse posta dalle stesse istituzioni giudiziarie preposte a perseguirla, più che essere connaturata ai reati femminili o alla rappresentazione che di essi si faceva. La constatazione di ciò ridimensiona quindi l'idea di "anomalia" della criminalità

90 A. Ademollo, Le annotazioni di Mastro Titta carnefice romano, S. Lapi Editore Tipografo, Città di

Castello, 1886. Sul diffondersi del gusto per il “fait divers” cfr. R. Villa, Percezione e consumo del

crimine nella società dell’Ottocento, in U. Levra (a cura di), La scienza e la colpa. Crimini, criminali, criminologi: un volto dell’Ottocento, Electa, Milano, 1985, pp. 153-158.

91 La letteratura che si ricollega a tale genere è davvero molto vasta. In questa sede ci si limita a

segnalare le opere più strettamente legate ai temi della criminalità per dar conto della lunga durata di questo filone: L. Zanazzo, Tradizioni popolari romane. Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, vol. 2, Torino-Roma, 1908; B. Rossetti, I bulli di Roma. Storie e avventure di amore e di coltello da Jacaccio

a er più de l’urione: quattro secoli di vita sociale e di costume, Newton Compton, Roma, 1978; R. Mariani, I veri bulli di Roma. Cento anni di cronaca della malavita romana, Nuova ed. Spada, Roma, 1983; C.

Rendina (a cura di), Er fattaccio. La saga del coltello. Storie d’amore e d’onore nell’epopea popolare dei bulli, Edizioni della città, Roma, 1994. Un'interessante riflessione su questa tipologia di fonti e sui processi di costruzione degli stereotipi della “romanità” è quella proposta da M. Cattaneo, La sponda sbagliata

del Tevere. Mito e realtà di un’identità popolare tra Antico Regime e Rivoluzione, Vivarium, Napoli, 2004,

in particolare p. 45 e sgg. Sulla lunga durata dei cliché sulla "Roma sparita" fino a Novecento inoltrato e sulle ricadute in termini di politiche urbanistiche cfr. F. Salsano, Il ventre di Roma.

Trasformazione monumentale dell'area dei fori e nascita delle borgate negli anni del Governatorato fascista,

Tesi di dottorato in «Storia politica e sociale dell'Europa moderna e contemporanea», XIX ciclo, Università degli studi di Roma Tor Vergata, 2007.

delle donne rispetto a quella degli uomini, pur tenendo conto dello forbice esistente sul piano numerico.

Le considerazioni formulate da Mario Sbriccoli in un suo importante contributo metodologico, inserito in un dibattito più ampio sull'utilizzo delle fonti criminali, confortano quest'ipotesi interpretativa. Lo studioso ricordava che le fonti giudiziarie e i processi in particolare:

trattano il crimine, ma rivelano la giustizia. I numeri che è possibile estrarre da un fondo criminale non quantificano i delitti commessi, ma quelli perseguiti, e quindi non misurano la presenza del crimine, ma il funzionamento della giustizia92.

Sbriccoli intendeva così mettere in guardia dalla facile interpretazione della criminalità attraverso fonti seriali o attraverso case-studies particolarmente affascinanti, sottolineando l'importanza di trattare la documentazione proveniente dai fondi giudiziari, con la consapevolezza di quanto essa fosse il risultato di scelte e logiche delle istituzioni produttrici, più che della realtà sociale in cui si innestavano i fattori criminogeni.

Inoltre la presenza di fattori come la "cifra nera" dei delitti, costituita dallo scarto tra reati commessi e perseguiti, oppure l’incidenza di casi giudiziari risolti per vie extra-dibattimentali, di cui non rimane traccia nelle carte, complica ulteriormente l'utilizzo di questa documentazione e rende ancor più importante l’incrocio con altre tipologie di fonti.

In tal senso, anche l'indagine proposta sulle detenute del carcere di Roma fornisce indicazioni preziose proprio in merito alle istituzioni e agli apparati di controllo, prima ancora che gettare uno sguardo sulle caratteristiche della criminalità femminile romana in questo volgere di anni. Partendo da questi presupposti si può quindi affrontare il cuore del problema e passare ad

92 Sbriccoli, Fonti giudiziarie e fonti giuridiche, cit., p. 494. Sul tema specifico della criminalità

approfondire il ruolo e il profilo istituzionale del Tribunale che emise, in questo periodo, il maggior numero di condanne, compresa quella di Carolina da cui si è partiti.