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Fuga dalla giurisdizione

IL GIUDICE DEL LAVORO AI TEMPI DELLA LEGGE FORNERO di Roberto Riverso

4. Fuga dalla giurisdizione

Ora, se si guarda da vicino la nuova disciplina dei licenziamenti e e si valutano anche i risvolti psicologici del rapporto di lavoro, come suggeriva la Corte Cost.

n. 63/1966 - c5è da chiedersi in che condizioni possa svolgersi un rapporto di

lavoro in cui una persona - fatto salvo il pagamento di poche mensilità di indennizzo e possa essere messa alla porta dalla sera alla mattina senza un motivo, con una lettera immotivata e senza nemmeno una procedura di contestazione degli addebiti (che la stessa Corte Costituzionale aveva sempre considerato una insopprimibile garanzia di civiltà). Dunque, quando non ha una buona ragione (oggettiva o disciplinare) per licenziare un lavoratore, al datore di lavoro sembra convenire non dire nulla: non motivare, violare le procedure (limitandosi ad una mera comunicazione scritta). Rischia meno di quando ha torto nel merito e comunque esprime una motivazione.

Certo il lavoratore potrà ancora aspirare, in casi come questi, di tornare al lavoro: ma dovrà farlo difendendosi al buio, sperare pure di avere imbroccato i motivi dell5impugnativa, dal momento che il datore di lavoro potrà sempre cambiare le carte ed allegare un motivo diverso da quello dal primo supposto.

L5aver derubricato i vizi di motivazione e procedura e diversificato le tutele potrebbe creare, dunque, un intricato labirinto di questioni, alterando i principi del contraddittorio e della domanda in base alla quale il giudice dovrà decidere la causa introdotta in giudizio; potrà accadere che da una questione di forma si passi ad una di sostanza e che da un questione per motivo oggettivo si passi ad una per motivo soggettivo. Non solo: viene privato di valore effettivo il principio della motivazione del licenziamento e di immutabilità dei motivi posti a base del licenziamento, nonostante l5enfasi contenuta nella legge sull5obbligo di motivazione fin dalla intimazione del licenziamento. Nell5ambito del licenziamento cd. inefficace per vizio di motivazione (che inefficace però non è, producendo in ogni caso l5estinzione) si è prodotta pure la figura monstre e paradossale secondo cui la tutela assicurata ai lavoratori nell5area dell5art. 18 è divenuta inferiore rispetto a quella riservata ai dipendenti di imprese sotto i 15 dipendenti, per i quali si applica ancora la cd. tutela reale di diritto comune ed il vizio di forma non può estinguere nessun rapporto, con maturazione di tutte le retribuzioni dal momento dell5interruzione al ripristino del rapporto. Una situazione che desta più di un sospetto di incostituzionalità.

Guardando al giustificato motivo oggettivo, c5è da chiedersi per quale motivo il lavoratore dovrebbe trovare utile perseguire la via giudiziale impugnando il licenziamento, quando il giudice potrà sempre affermare che il motivo addotto dal datore anche se infondato, non lo è però manifestamente; oppure, quando lo stesso giudice potrà sempre rifiutare di accordare (a proprio libitum) la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Quale avvocato consiglierà al proprio cliente di agire in giudizio in queste condizioni? In realtà anche questa è una norma che suscita seri dubbi di costituzionalità: non detta parametri per stabilire su cosa debba attestarsi il controllo del giudice per la manifesta insussistenza del fatto né per stabilire in base a che cosa il giudice potrà o meno accordare una reintegra oppure concedere un risarcimento del danno. Se non ci sono parametri, ogni giudice sembra godere di una discrezionalità incontrollata; e ciò, oltre a riprodurre un tipico vizio di illogicità della legge (che dovrebbe obbedire a parametri obiettivi), crea pure una lesione al principio di uguaglianza perché a parità di situazioni non assicura parità di trattamento.

Ed anche sul fronte del licenziamento per motivi soggettivi la incertezza è massima, perché in realtà qui la legge eclissa il giudice nella sua funzione più caratterizzante ed essenziale, quella di soppesare le previsioni astratte alla luce della reale entità dei fatti concreti. Che farà il giudice, allora, in caso di licenziamenti irrogati per fatti di minima entità, ma sulla base di previsioni disciplinari generiche o assenti che autorizzino ogni sorta di sproporzionata espulsione dal lavoro? Se il giudice non potesse pronunciare ancora la reintegra attraverso l5applicazione del principio di proporzionalità stabilito ancora nell5art.

2106 c.c. si verificherebbe una ulteriore subordinazione della legge al contratto ed al potere datoriale; con violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, dato che niente può essere più ingiusto di quando si priva il giudice della facoltà di esercitare la propria ineliminabile funzione di giustizia impedendogli di trovare la regola a misura del caso concreto.

Se c5è allora un effetto sicuro prodotto dal quadro normativo fin qui delineato (eccessivo spezzettamento delle tutele, enorme incertezza con cui la legge delinea le varie fattispecie, eccesso di discrezionalità conferita al giudice, mancanza di parametri certi atti a delimitare il potere dei giudici), è che esso sconsiglia al lavoratore di affrontare un giudizio connotato da un alto tasso di aleatorietà. È qui che ha perso il lavoratore: ha perso la garanzia giurisdizionale di non restare privo del posto di lavoro in modo illegittimo. E quando un soggetto non ha tutele certe di poterlo riconquistare (e il più delle volte non ha neppure sostanze economiche da impiegare per poterci provare) è più che probabile che egli rinunci, non si arrischi a promuovere nessuna controversia. Per ottenere la reintegra nel quadro regolativo che è stato delineato dalla riforma, occorrerà allora la forza d5animo di un eroe omerico, capace di sfidare la forza soverchiante del datore di lavoro, il quale debitamente assistito com5è, potrà sempre provare a sparigliare le carte processuali per impedire la nitidezza degli accertamenti e la trasparenza dell5esito della contesa. Il vero effetto perseguito dalla riforma è quello di sospingere i lavoratori (i loro avvocati ed i loro sindacati) ad evitare i giudici; incitarli ad accedere ad un componimento di carattere stragiudiziale, con condizioni economiche ovviamente ribassate rispetto a prima, quando la presenza di una tutela forte come l5art. 18 alzava il costo della transazione.

Allo scopo di annacquare i controlli di legalità sui vizi del potere esercitato dal datore, che incide sulla stabilità del posto di lavoro e sui diritti correlati, la riforma strumentalizza, quindi, il giudice ampliandone i poteri discrezionali. Ed è singolare come allo stesso giudice, da una parte, vengano rimesse decisioni incontrollate sulla tutela (al ribasso) del lavoratore; mentre dall5altra parte (art. 1, comma 43, l. n. 92) si nega in ogni modo che egli possa sindacare il potere del datore al cui esercizio è correlato quella perdita. Le prerogative dell5imprenditore diventano, quindi, insindacabili e sostanzialmente intoccabili, mentre i diritti del lavoratore sono liberamente degradabili: tutto ciò attraverso la manipolazione dei poteri riconosciuti al giudice. È stato in definitiva legittimato il potere privato; il potere di comando è tornato nelle mani dell5impresa e non deve confrontarsi con un potere terzo che possa garantire l5applicazione delle regole. Con la legge n.

92/2012 l5art. 3, comma 2, Cost. è tornato ad essere <un programma>, ancora in larga parte da attuare

LA DIFESA DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

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