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Tra grammatica e realtà

WITTGENSTEIN O DELLA FILOSOFIA

3. Il metodo della filosofia

3.2. Tra grammatica e realtà

Come si è tentato di evidenziare, secondo Wittgenstein, la fede nel linguaggio privato è legata ad un fraintendimento riguardante la funzione della grammatica del linguaggio, dietro ogni convinzione per cui “il linguaggio privato” è “il gioco che uno gioca con sé stesso”, sta un grave errore concernente il ruolo delle regole grammaticali. Tale osservazione è condotta dettagliatamente dal filosofo in Notes for the Philosophical Lecture, un testo poco noto, ma particolarmente interessante per la critica all'idea di linguaggio privato e alla concezione mentalistica che lo sostiene. In questo testo l'autore utilizza l'esempio del diario che Robinson Crusoe scrive quando naufraga sull'isola, e

46 “Forse che il fuoco è diventato meno impressionante da quando siamo in grado di darne una

spiegazione fisica?” (Ibid).

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quello rappresentato dal tentativo di Robinson di insegnare l'inglese ad un indigeno (chiamato da lui Venerdì) incontrato sull'isola.48

In queste pagine il filosofo cerca di immedesimarsi in colui che crede nella super- privatezza delle sensazioni e quindi di dare delle giustificazioni dall’interno alla costruzione di un linguaggio privato, cerca di capirne la natura e il funzionamento, individuandone un supporto nella cieca fede nel potere delle immagini mentali. Defoe descrive l'apprendimento del linguaggio attraverso ciò che Wittgenstein chiama grammatica oggetto-designazione, che identifica il significati dei segni con il loro portatore (l’oggetto per il quale essi stanno), induce Daniel Defoe ad affidarsi al denominare come processo attraverso il quale “il selvaggio” si impossessa del significato delle parole, o meglio si può dire che i metodi di insegnamento che Robinson utilizza con Venerdì, sembrano sottostare alle regole della grammatica oggetto- designazione, e al dominio del denominare, infatti queste sono le parole dell’autore inglese:

[parla Robinson] mi feci un dovere […] d’insegnargli a parlare e a capire quello che gli dicevo[…] Venerdì cominciò a parlare abbastanza bene e capiva i nomi di quasi tutte le cose che avevo motivo di nominare[…] Non sapeva dire venti in inglese, ma dispose in fila altrettante pietre e mi fece cenno di contarle.49

Quindi, non è irragionevole pensare che sia anche per questo motivo che Wittgenstein nelle Note chiama in causa proprio questo celebre romanzo di Defoe. Secondo l’interpretazione che qui si propone, alcuni passaggi del Robinson, come appunto quelli riportati, rappresentano, se pur implicitamente, quella concezione denominativa del linguaggio che era stata teorizzata da Locke.50 In generale si può avanzare l’ipotesi che per certi aspetti Robinson Crusoe, sia stato citato in questo saggio wittgensteiniano, come emblematico rappresentante delle naturalezza con cui le immagini falsificanti il

48 Defoe 1982.

49 Ibid., pp. 224, 227-228.

50 Non bisogna dimenticare che l’autore inglese: Daniel Defoe nasce intorno al 1661,e che il romanzo

viene pubblicato a Londra nel 1719, nello stesso periodo, a cavallo dei due secoli, si sviluppa anche il pensiero di un altro illustre letterato inglese: John Locke autore, tra gli altri, del Saggio sull’intelletto

umano, la cui prima edizione risale al 1690. Risulta evidente come anche la produzione di Locke (assieme

ad altre come quella di J. Milton) faccia parte dello sfondo culturale cui appartiene il romanzo di Defoe; si può dire che nel Robinson Crusoe sia implicitamente condivisa quella teorie sul linguaggio esplicitamente illustrata nel Saggio.

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linguaggio si insinuano nell’opinione comune, sino alla loro cristallizzazione per cui se ne dimentica l’arbitrarietà. Ciò che qui ci interessa cogliere è che dietro la concezione secondo cui esistono degli stati mentali interni e che, tramite questi, come abbiamo visto legittimano la possibilità di un linguaggio privato, soggiace l'idea che esiste un “collegamento diretto tra l’esperienza e l’uso interiore del linguaggio".51

3.2.1 Ambiguità della definizione ostensiva

Il filosofo sta introducendo un passaggio fondamentale al fine di dimostrare l’inconsistenza del linguaggio privato. Infatti, la base di un linguaggio essenzialmente privato, è la definizione ostensiva interiore, e cioè il processo attraverso il quale "si dà un nome a qualche tipo di esperienza privata” che discende dall'idea secondo cui: “Avere qualcosa corrisponde ad averlo davanti agli occhi della mente e dargli un nome”. A tale impostazione teorica Wittgenstein muove l'obiezione che: “Ogni definizione ostensiva spiega l’uso di una parola solo quando la determina in ultima analisi , rimovendone ogni indeterminatezza”, questa è l’unica strada affinché essa non venga fraintesa, ciò significa che “ogni atto pubblico di definizione ostensiva (ostensive definition) è ambiguo fino a che non si stabilisce il contatto privato (private link) tra la parola e ciò di cui si ha esperienza”.52 Nella sezione 28 delle Ricerche, Wittgenstein ci fa chiaramente vedere come la definizione ostensiva: “Questo si chiama due” indicando “due noci” può facilmente essere fraintesa e conclude che essa è sempre passibile di un’interpretazione diversa in ogni caso; l’ascoltatore, infatti, può interpretare al fine di definire possibili “varietà e possibilità di categorie di oggetti”: un nome, un numero, una forma, un colore e così via.53 La definizione ostensiva è caratterizzata da una costitutiva ambiguità che però può essere elusa, se al suo interno si specifica la categoria dell’oggetto in questione: “Questo numero si chiama due”.54 Questo processo presuppone a sua volta che colui a cui è rivolta la definizione sia già in grado di afferrare le distinzioni rilevanti, “Infatti qui la parola «numero» indica in quale posto

51 Stern 1995, p. 180. 52 Ibid..

53 Stern 1995, p. 183.

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del linguaggio, della grammatica, collochiamo la parola.” e nello stesso senso si può chiedere “sensatamente” che tipo di nome sia una parola solo se il posto della domanda sia già preparato cioè: "Chiede sensatamente il nome solo colui che sa già fare qualcosa con esso."55

La posizione di Wittgenstein a proposito della definizione ostensiva dovrebbe ormai risultare chiara: quando si fornisce una definizione ostensiva di un termine, le altre parole utilizzate nella definizione devono essere precedentemente comprese.56 Si può spiegare come funziona il linguaggio solo a colui il quale sa già come parlare. Quello che preliminarmente il filosofo vuole chiarire è la funzione della definizione ostensiva di cui si sono serviti i sostenitori del linguaggio privato tramutandola in definizione ostensiva privata; il punto è che la definizione ostensiva in sé, sia essa pubblicamente o privatamente utilizzata non basta affatto, isolata, a spiegare il significato di una parola. Secondo il filosofo non è infatti la definizione ostensiva in se stessa a stabilire la relazione tra nome e il suo significato, ma la tecnica d’uso. Il linguaggio è autonomo e non è a servizio della realtà, come per molto si è pensato, ma anzi, a volte è proprio dal linguaggio che possiamo scoprire aspetti della realtà di cui è lo specchio, ma da cui non dipende; quindi si può dire che le regole grammaticali sono arbitrarie. Wittgenstein, tuttavia, sempre attento a prevenire eventuali fraintendimenti, nella Grammatica filosofica, specifica in che senso si devono ritenere arbitrarie le regole del linguaggio: “La grammatica non deve render conto ad alcuna realtà. Le regole grammaticali determinano soltanto il significato (lo costituiscono) e pertanto non devono rispondere di nessun significato e in questa misura sono arbitrarie.”57

3.2.2 La relazione tra grammatica e fatti

È evidente che il rapporto sussistente tra grammatica e realtà, nell’ottica di Wittgenstein, risulta essere una particolare relazione che le unisce tenendo al tempo stesso i due piani separati. Consapevole del fatto che quest’idea al contempo di unione e

55 Ibid., § 31.

56 "Per esempio dire: «questo è seppia» indicandone un campione per dare una definizione ostensiva di

“seppia” a qualcuno che non sa cosa significhi; questa persona dovrebbe già sapere che essa è una parola- colore (colour-word), non una parola per un numero o una forma." (Stern 1995, p. 183).

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separazione non fosse tanto semplice da capire, l’autore delle Note introduce un illuminante paragone: “La relazione della grammatica delle espressioni con i fatti da queste descritti è quella che c’è tra descrizione di metodi e unità di misura e le misure di oggetti misurate con quei metodi e quelle unità”, si potrebbe anche esprimere con una specie di un’equazione: la grammatica sta alla realtà come le unità di misura stanno alle misure. Quindi nello stesso senso un cui l’unità di misura scelta “per descrivere la forma e la lunghezza e l’altezza di questa stanza” è arbitraria, si potrebbe infatti misurarla “in piedi o parimenti in metri [o] in micron”, così lo è la grammatica delle espressioni per la descrizione dei fatti. L’autore però, subito dopo aver fatto questa osservazione, specifica che esiste un altro senso in cui la scelta delle unità di misura e quindi della grammatica, non è arbitraria. Scrive Wittgenstein nelle Note:

C’è un motivo assai importante dipendente sia dalla dimensione sia dall’irregolarità della forma, sia dall’uso che facciamo della stanza, per cui noi non misuriamo le sue dimensioni in μ[micron] e neppure i m[illi]m[etri]. Ciò vuol dire che non solo la prop[posizione] che esprime il risultato della misurazione ma anche la descrizione del metodo e dell’unità di misura ci dicono qualcosa sul mondo in cui la misurazione ha luogo.58

In prima battuta il significato di queste parole riferito ai metodi e alle unità di misura, non è difficile da cogliere, infatti, ai più sarà evidente il motivo per cui l’ampiezza di un appartamento si misura in metri e non in centimetri o in chilometri, lo dice la parola stessa: “metratura”, ciò che in questo caso è importante sapere è per esempio: l’abitabilità della cucina, etc.. Il punto su cui qui il filosofo vorrebbe far riflettere è che ci sono delle abitudini che non sono rigorosamente stabilite dalla realtà, ma che vengono rispettate, tramandate e condivise nelle varie comunità sociali, perché fanno parte di un pratica di vita. Spostando ora l’attenzione sulla grammatica si può dire che essa, anche quando è impiegata nella descrizione di fatti del mondo, non è vincolata dalla realtà; come dice il filosofo: “La grammatica non è determinata dai fatti”,59 essa quindi non può venir giustificata con riferimento ai fatti, in altre parole, non avrebbe

58 Wittgenstein, 1912-51, 2001, p. 449, p. 7. 59 Wittgenstein 1930-32, 1995, p. 119.

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senso dire che esistono queste determinate regole grammaticali perché la realtà è questa. Infatti non è possibile dare una descrizione che giustifichi le regole della grammatica. Da questo punto di vista, non ha alcun senso chiedersi:

Perché esiste questa domanda e non un’altra?[...] Possiamo dare una descrizione che giustifichi le regole della grammatica? Possiamo dire perché dobbiamo usare

queste regole? La nostra giustificazione potrebbe assumere soltanto la forma

seguente: ´Siccome la realtà è così e così, le regole devono essere così e così`. Ma ciò presuppone che io possa dire: ´Se la realtà fosse diversa, allora le regole della grammatica sarebbero diverse`. Ma per descrivere una realtà in cui la grammatica fosse diversa dovrei usare proprio le combinazioni che la grammatica proibisce.60