AUSTIN E L'AZIONALITA' DEL LINGUAGGIO
1. Storia di un’idea
In A Plea for Excuses Austin descrive il proprio metodo come una fenomenologia linguistica che individua nella minuziosa compilazione del catalogo delle espressioni e dei loro usi linguistici relative al problema filosofico che di volta in volta si vuole indagare il primo passo da compiere. Scrive Austin: "noi adoperiamo una raffinata consapevolezza dei termini per affinare la nostra percezione dei fenomeni";3 da questo punto di vista il linguaggio comune diviene l’oggetto primo dell’indagine filosofica perché, al contrario dei linguaggi formalizzati, esso può essere analizzato in tutta la sua complessità e nelle sue gradazioni semantiche, senza la pretesa di costringerlo in strutture formali o di ritradurlo in simbolismi artificiali. Da qui la consapevolezza di Austin che lo studio del linguaggio naturale vada intrapreso a piccoli passi che conducono verso un cammino filosofico più sicuro al di là dell’arbitrarietà e dall’inadeguatezza di certe espressioni linguistiche che spesso incarnano "superstizioni, errori e fantasie di tutti i generi".4 Grazie all’analisi delle parole e delle loro definizioni la filosofia può fare chiarezza su se stessa impostando le questioni teoriche su basi solide e chiare.
Anche se pone l’accento sulla necessità dell’analisi del linguaggio comune come pre- condizione del procedere filosofico, Austin non sembra escludere necessariamente la validità di altri metodi filosofici, quali ad esempio i linguaggi artificiali. Egli infatti riconosce che l’istanza rappresentata dal linguaggio ordinario non può porsi come l’ultima parola in filosofia, ciò nonostante, egli ritiene che sia inesorabilmente la prima. Questa posizione, secondo Marconi, fa di Austin uno dei rappresentati della prospettiva "risolutoria o costruttiva" nei confronti dell’idea secondo cui “i problemi filosofici sono problemi di linguaggio” con la quale, alla fine degli anni cinquanta, si sono identificate, poi, confondendole, filosofia del linguaggio e filosofia linguistica.5
3 Austin, 1956-57, 1970. 4 Ibid..
5 Marconi contrappone l’interpretazione risolutoria dello slogan “i problemi filosofici sono problemi di
linguaggio” cui appartiene anche (Schlick 1967) assieme ad Austin, a quella "dissolutoria o terapeutica",
per cui i problemi filosofici sono "generati dal linguaggio naturale”, compito della filosofia sarebbe allora quello di “eliminarli o attraverso una chiara ed esplicita comprensione del modo in cui il
linguaggio funziona[…] o più drasticamente sostituendo il linguaggio naturale con il linguaggio artificiale”; a questa posizione, sono riconducibili le idee del Wittgenstein del Tractatus, del primo
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Tale prospettiva risolutoria risiede nel pensare che "i problemi filosofici sono problemi di significato delle parole, e si risolvono accertando quale è il significato di certe parole".6 E' questo, secondo Marconi, l’elemento alla base del quale il filosofo inglese può sviluppare una sua originale versione di "filosofia linguistica" in cui: "l’accertamento analitico dell’uso delle parole non è la risposta finale a tutti i problemi filosofici, ma è un punto di partenza infinitamente più ricco e maturo di tutte le possibili alternative".7
Ciò che con Marconi è interessante osservare è che la “filosofia linguistica”, a differenza della filosofia del linguaggio che da essa si è sviluppata, non è nata con il solo scopo di indagare cos’è il linguaggio e come esso opera, ma piuttosto con quello di dirimere questioni di interesse filosofico generale attraverso la studio particolare del linguaggio.
All’interno di questa interpretazione della filosofia linguistica ben si situa il lavoro di Austin, il cui concetto di azionalità del linguaggio legato alla scoperta della natura performativa degli enunciati nasce dall’interrogazione sul concetto di mente degli altri. Il primo lavoro documentato in cui il filosofo incontra il problema della dimensione azionale del linguaggio è Other Minds (1946), un contributo ad una discussione filosofica in ambito epistemologico, nel quale Austin istituisce un paragone tra l’uso performativo di “promettere” e quello di “sapere” e sostiene che il proferimento dell’enunciato «io so» al pari di «io prometto» non può essere ridotto ad una descrizione dell’atto conoscitivo, ma consiste esso stesso nel compimento di un atto di impegno riguardo alla verità di ciò che si sta dicendo. Siamo di fronte alla prima presentazione del tema che qui interessa analizzare: il linguaggio come azione, il parlante che afferma di sapere sta compiendo un’azione, sta contraendo un impegno nei confronti della verità di quanto asserito. Non solo in questo saggio Austin cita quelli che saranno poi gli esempi emblematici di enunciati performativi e cioè gli enunciati alla prima persona dell’indicativo singolare come «io ordino» o «I do» inteso come il «Sì» dell’atto rituale del contrarre matrimonio. Come fa notare Sbisà in questo saggio sono già presenti in nuce quelle che saranno le peculiarità della filosofia di Austin:
6 Ibid.. 7 Ibid., p. 9.
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I performativi sono enunciati alla prima persona del presente indicativo attivo, che pur essendo all’indicativo non descrivo un atto, ma servono a compierlo; l’atto in questione è poi di carattere convenzionale, e la sua validità richiede il darsi di circostanze appropriate, senza le quali esso non riesce felicemente, o può addirittura-analogamente ad una procedura legale-risultare “nullo”.8
Più in generale, si può dire che la filosofia di Austin ha di mira la messa in evidenza della molteplicità degli usi e funzioni linguistiche. Il risultato della sua analisi è riconoscimento del carattere di azione del linguaggio, quel carattere da sempre ignorato in favore della sua funzione descrittiva. Usando il linguaggio i parlanti realizzano delle performance, compiono delle azioni, eseguono degli atti. Dire insomma corrisponde in realtà a un fare.
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