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Non si può uscire dal linguaggio

WITTGENSTEIN O DELLA FILOSOFIA

4. Non si può uscire dal linguaggio

Dalla grammatica non si può uscire, essa si auto-giustifica o si auto-contraddice, infatti “la contraddizione sussiste tra una regola e un’altra regola, non fra regola e realtà”.61 In aperta contraddizione, con le tesi sostenute nel Tractatus,62 Wittgenstein, sta accennando alle ragioni attraverso cui, nelle Ricerche filosofiche riuscirà a stabilire cosa si intende quando si dice che una proposizione è sensata, avendo abbandonato l’idea (del Tractatus) che le proposizioni sensate sono solo quelle che hanno condizioni di verità, quindi anche la teoria della raffigurazione e la fede nella necessaria esistenza dei primitivi semantici che significano in quanto designano un oggetto. Ecco che in questa rinnovata visione del linguaggio, è proprio la grammatica a ricoprire un ruolo fondamentale, un ruolo insieme semantico e ontologico, semantico in quanto insieme

60 Ibid., p. 67. 61 Ibid., p. 116.

62 L’autore propone la tesi secondo cui: Ogni proposizione ha senso nella misura in cui o è una

proposizione elementare (una presentazione di uno stato di cose possibile) o è una proposizione complessa (una combinazione vero-funzionale di proposizione elementari). Da questa tesi principale ne dipendono altre tre che sono: a) quella contenuta nella proposizione 4.01: La proposizione è un’immagine della realtà; b) quella contenuta nelle proposizioni: 2.131, 2.14, 3.14, 3.203, 3.22: una proposizione elementare è, come un’ immagine, una connessione di elementi segnici primitivi: i nomi. Dove il significato di un nome è la cosa per cui esso sta; c) quella rappresentata dalla proposizione 3.23: il requisito della possibilità di segni semplici è il requisito della determinatezza del senso; ed infine d) la tesi che corrisponde alla proposizione 2.0211: Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un'altra proposizione vera, (Wittgenstein 1914-16, 1983, nelle proposizioni: 2.202, 4.01, 4.031, 5, 5.2341, 6.53).

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delle regole d’uso di una parola che ne caratterizzano il significato, e ontologico in quanto, nel determinare i vari modi in cui un termine può venir usato, la grammatica, stabilisce contemporaneamente il tipo di oggetto cui il termine si riferisce. Così si esprime a proposito della grammatica l’autore delle Ricerche: “L’essenza è espressa nella grammatica”63 e con questo, Wittgenstein, non intende riaffermare la necessaria ricerca dell’essenza in filosofia, che tanto contesta, ma si riferisce al fatto che conoscere la grammatica di un’espressione nominale, cioè il modo in cui essa viene usata, corrisponde, ipso facto, a sapere a quale tipo di cose essa si applica; insomma: “Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica. (Teologia della grammatica)”.64 Allora si può finalmente capire in che senso Wittgenstein ci inviti a vedere l’essenza nella grammatica. Infatti, mediante le regole d’uso di una parola, si determinano automaticamente le caratteristiche essenziali che appartengono a un oggetto in virtù del suo ricadere nell’insieme del concetto espresso da quella parola.

La differenza tra i due tipi di proposizione è facilmente rilevabile dandone un esempio: a) «La stanza blu è più grande di quella marrone» è una proposizione fattuale. Nulla

vieta di immaginare che in realtà sia la stanza marrone ad essere più grande della blu;

b) «Ogni stanza ha una grandezza»65 è una proposizione grammaticale, non posso infatti immaginare stanze che non abbiano una grandezza, né dire: «Ogni stanza non ha una grandezza», senza cadere nell’insensatezza.

È però importante non travisare il tipo di statuto speciale di cui godono le proposizioni grammaticali; esse infatti non sono indiscutibili perché descrivono una immutabile natura delle cose, ma perché esse stesse costituiscono le regole dell’uso delle espressioni che in esse occorrono. In questo senso, grazie all’esistenza di questo tipo di proposizioni possiamo dire che le cose hanno una loro essenza, (che la stanza deve avere una grandezza per essere tale) e, cosa veramente importante, possiamo sapere e

63 Wittgenstein 1953, 1999, § 371. 64 Ibid., § 373.

65 Secondo Hacker, l’idea delle proposizioni grammaticali che rappresentano le regole d’uso dei termini

che esprimono, sia una riformulazione wittgensteiniana della tesi tradizionale secondo cui, proposizioni come “ogni asta ha una lunghezza, o come “nessuno scapolo è sposato”, corrispondono a proposizioni analitiche, vere in virtù del significato dei termini in essa contenuti, (Hacker 1996, pp. 214-215).

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distinguere che certe predicazioni e non altre sono sensatamente predicabili di quella cosa.

In conclusione si avrà che le proposizioni grammaticali delimitano il dire sensato da quello insensato, anche delle proposizioni fattuali, cioè le proposizioni grammaticali, per così dire, delimitano il campo delle possibilità di espressione degli enunciati dal contenuto empirico; ma attenzione, con questo l’autore delle Ricerche non sta affatto riproponendo quell’isomorfismo tra linguaggio e realtà che caratterizzava l’impianto teoretico del Tractatus, e che si basava sulla condizione preliminare per cui proposizione e fatto dovevano avere in comune la forma logica,66 ma sta ad indicare che le proprietà degli oggetti sono primariamente proprietà che appartengono alla grammatica di quel termine. Quello che il filosofo, sostanzialmente sostiene, è che la tecnica d’uso di un termine, e cioè la sua grammatica, non è affatto completamente separata dalla realtà che descrive, ma anzi ci potrebbe dare “un’idea di verità molto generali” sulla realtà, se solo sapessimo coglierle proprio come accade per “la descrizione di un metodo e di un’unità di misura, la cui scelta è arbitraria, perché non imposta né determinata dalla realtà, ma ci può comunque dare delle informazioni “sul mondo in cui la misurazione ha luogo”; ed è proprio la genericità delle verità che si potrebbero cogliere nella grammatica, che non ne permettono il riconoscimento, per lo stesso meccanismo per cui non notiamo ciò che ci sta quotidianamente sotto agli occhi, o perché è difficile mettere a fuoco ciò che è troppo vicino allo sguardo.