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Importanza relativa delle dimensioni dell’ufficio

È uso comune distinguere gli uffici requirenti in tre categorie di grandezza: uffici di grandi, medie e piccole dimensioni. Questa tripartizione non corrisponde più alla realtà attuale, poteva essere veritiera all’epoca delle procure presso le preture, ma con la loro scomparsa e la ricollocazione del personale amministrativo e giudiziario è meglio fare una distinzione ulteriore. Il contesto dimensionale degli uffici non è la sola cosa che conta.

3.1.1 Classificazione degli uffici in base alle dimensioni

Per prima cosa, si dovrebbero distinguere quattro contesti dimensionali, uffici che non sono solo grandi, piccoli o un po’ grandi e un po’ piccoli (recte, medi), ma che sono uffici metropolitani, grandi, piccoli oppure minori. Per tradurre in cifre, gli uffici metropolitani si trovano in città molto grandi, con un numero di procuratori aggiunti pari circa a otto/nove unità, e circa novanta/novantasette sostituti; sono procure grandi gli uffici del capoluogo di regione o di provincia che hanno fra i tre e i sette procuratori aggiunti e circa sessantuno sostituti; i piccoli uffici di procura

171 possono anche avere sede nei capoluoghi di provincia, hanno almeno un procuratore aggiunto, al massimo due, e dai dieci ai venticinque sostituti; gli uffici minori rappresentano la parte restante, ossia procure che non sono dotate del procuratore aggiunto e che hanno circa dieci sostituti (307). In quest’ordine di idee, sul totale attuale di centotrentasei procure, gli uffici metropolitani sono tre (Milano, Roma, Napoli), gli uffici grandi sono dodici (fra cui Bari, Bologna, Palermo, Torino e Venezia), gli uffici piccoli sono trentanove (come Agrigento, Brescia, Lecce, Modena e Taranto) e le procure minori sono ottantadue (ad esempio, Campobasso, Chieti, Ferrara, Marsala e Parma).

3.1.2 La situazione geografico-culturale di riferimento

Si dovrebbe adottare anche un criterio discretivo di tipo geografico-culturale. Nelle procure attive in città note per la cultura giuridica di riferimento (per esempio, città dove esistono formanti giurisprudenziali e centri di studio o ricerca ben funzionanti), il criterio di specializzazione opera in senso difforme da contesto a contesto, perché gli uffici requirenti sono inevitabilmente portati a confrontarsi con la situazione di fatto esistente. Nella realtà del Foro, le linee di pensiero si sono evolute, specializzate e consolidate partendo dalle basi tradizionali istruite dai maestri delle Scuole di diritto. È la specializzazione dell’elitè: a Bologna il diritto viene insegnato, interpretato e applicato in maniera diversa da quanto si faccia, in ipotesi, a Firenze o a Bari, con la conseguenza che, nei rispettivi Fori, la sorte che possono avere certe tesi accusatorie o difensive risulta prevedibile nella maggior parte dei casi. Si ha a che fare con una specializzazione indiretta, idonea a fondare ulteriori distinzioni fra uffici che non siano di tipo meramente quantitativo.

Non si può escludere neanche che fra il criterio dimensionale e quello geografico-culturale ci sia reciproca influenza. Da questa prospettiva, la presenza nell’ordinamento degli uffici distrettuali

(307) Le Procure di Treviso e Velletri hanno dodici sostituti, ma non hanno il procuratore aggiunto. La

classificazione è stata estrapolata sulla base di due fonti principali: la Tabella E allegata al d.m. 1° dicembre 2016, di “Rideterminazione delle piante organiche del personale di magistratura dei Tribunali ordinari e delle relative Procure della Repubblica”, e la già menzionata risoluzione C.S.M. del 9 maggio 2018, in materia di buone prassi per il contrasto alla violenza di genere (nota [vii]). L’atto consiliare, per la verità, distingue tra uffici metropolitani, medio-grandi, medio- piccoli, piccoli, in base alla quantità di aggiunti presenti in organico. Si condivide l’utilizzo del criterio quantitativo che fa riferimento alla presenza dei procuratori aggiunti, ma si ritiene anche, però, che una divisione di questo tipo possa creare confusione fra i dirigenti. Nell’ambito degli uffici “medio-grandi” e “medio-piccoli”, la presenza di un aggiunto si rivela per molti aspetti essenziale. Se si tratta di un ufficio che ha molti sostituti, la gestione nel complesso è agevolata dalla sua presenza. In caso contrario, diventa difficile per il dirigente organizzare l’attività di un ufficio che, pur formalmente “medio-piccolo”, risulta nella sostanza “medio-grande”; ciò, già da un punto di vista delle aspettative riposte dagli operatori e dalla società. Nella relazione tecnica al citato decreto ministeriale si legge che è la domanda di giustizia requirente è stata «misurata dalle iscrizioni di notizie di reato a carico di autori noti».

Il decreto e la tabella possono essere consultati in

https://www.giustizia.it/giustizia/it/contentview.page;jsessionid=TaSFbi5O6c10bmf4NGvpwdw2?contentId=ART1278 527&previsiousPage=mg2914 [febbraio 2020].

172 dimostra che la specializzazione è più favorita nei contesti grandi e sviluppati. D’altronde, se si considera che il fenomeno specialistico si è formato in quegli stessi ambienti e che soltanto in un momento successivo è stato applicato come criterio al resto degli uffici, allora si può dire che il contesto geografico-culturale sia terreno florido per la crescita di competenze specializzate, a latere delle caratteristiche dimensionali. Le dimensioni delle procure non sono l’unica cosa che conta, ai fini dell’istituzione dei gruppi di lavoro specializzati.

3.1.3 Se le dimensioni non consentono di istituire gruppi di lavoro specializzati

In molte delibere del Consiglio superiore, la dimensione della struttura requirente viene presentata come condizione di fatto ostativa alla costituzione dei gruppi di lavoro. Se il numero di magistrati a disposizione del dirigente è esiguo, giocoforza, i gruppi che si possono ipotizzare sono altrettanto limitati. Infatti, per un verso, dimensioni ridotte non consentono al procuratore capo di istituire veri e propri dipartimenti specializzati, com’è nelle procure minori, e per altro verso, alimentano l’idea che sia opportuno ridurre il numero di uffici concentrando i magistrati nelle sole procure più grandi. L’idea in sé di una pubblica accusa vincolata ai numeri di organico insidia l’obbligatorietà dell’azione penale, perché restituisce all’esterno delle procure l’immagine che l’efficacia delle indagini dipenda dalla densità (la nota “desertificazione”) degli uffici, invece che dalla bravura dei magistrati. A causa della scopertura degli organici e delle dimensioni, in alcune procure avviare una seria specializzazione è più difficile che in altre.

Ci sono almeno due soluzioni pratiche.

La prima soluzione è offerta dal Consiglio superiore della magistratura nella circolare del novembre 2017. Se le dimensioni dell’ufficio sono a tal punto moderate da causare un’ipo- specializzazione, queste carenze strutturali vanno compensate con strumenti formativi per la specializzazione dei singoli magistrati. Oltre la partecipazione ai corsi organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura, la formazione può essere incentivata tramite iniziative interne allo stesso ufficio, finalizzate a fornire gli strumenti per cogliere la realtà specifica del contesto criminale in cui operano; alcune di queste iniziative, per esempio, consistono nello svolgimento di riunioni periodiche (art. 4, lett. d) della circolare del novembre 2017) oppure nell’elaborazione di protocolli investigativi (art. 7, comma quinto, lett. o) circolare cit.).

Favorire le specializzazioni individuali, però, potrebbe non bastare. Non appare comunque la soluzione più idonea, giacché si finisce per formare magistrati specializzati in luogo di aree specializzate. Sono evidenti i limiti funzionali che scaturiscono da una simile opzione: impraticabilità

173 di meccanismi rotatori, marcata personalizzazione nei confronti delle questioni trattate (v. Cap. III, par. 3.5.2), alte probabilità di condizionamento in ordine alle ipotesi investigative, preferenza nell’esercizio dell’azione penale per le questioni specialistiche a discapito delle materie comuni.

La seconda soluzione viene adottata direttamente da alcuni dirigenti. Negli uffici piccoli e in quelli minori, si tende ad assicurare quantomeno l’assegnazione di determinati fascicoli a magistrati specializzati. Questa opzione mette senz’altro al riparo dai rischi evidenziati prima, ma è criticabile nella misura in cui deroga alle regole di assegnazione degli affari (v. Cap. I, par. 1.5.2).

Esiste una terza via percorribile. Nel corso della ricerca, è stato ipotizzato un modello di specializzazione calibrato sulle procure di minori dimensioni, quelle che impiegano circa una decina di sostituti. Nelle realtà così piccole, la specializzazione può essere attuata inserendo uno o più magistrati in più gruppi di lavoro, in modo che ciascun magistrato sviluppi competenze specializzate in almeno due materie. Allo stato della legislazione vigente, nessuna norma primaria o secondaria vieta questa possibilità (308). Se fosse adottato questo modello, il dirigente non sarebbe costretto a rinunciare alla ripartizione in gruppi di lavoro, e, costituendoli, non arrecherebbe alcun pregiudizio ai canoni di equità e funzionalità nell’assegnazione degli affari, né, infine, tenderebbe insidie alla volontà di conoscenza generale dei fenomeni criminosi da parte dei magistrati.

Alcune procure hanno adottato o stanno adottando questo modello, in alcuni casi anche dopo aver ottenuto un riscontro nell’ambito delle ricerche effettuate per la realizzazione di questo lavoro. Il modello proposto è stato apprezzato al punto che anche le procure dove sono impiegati procuratori aggiunti ne hanno tratto utilità (ad esempio, è il caso delle procure di Modena e Ancona). I vantaggi che ne possono derivare in concreto sono ancora incerti, ma la sua praticabilità è, se non altro, una garanzia di evidente utilità.

Dietro ai limiti funzionali della costituzione dei gruppi di lavoro, però, sembra che ci sia anche un’altra ragione, al di là delle dimensioni. Ammettendo l’esistenza di soluzioni alternative che ne rendono possibile la costituzione nei piccoli uffici, residua, come ulteriore condizione ostativa, l’impossibilità di far funzionare nella maniera adeguata il meccanismo di rotazione.

Pertanto, è su questo che conviene volgere l’attenzione.