• Non ci sono risultati.

La riforma delle State Owned Enterprises (SOE)

La Cina: contesto storico, economico ed istituzionale

2.2. LA STORIA: THE CHINESE REFORM

2.2.4. La riforma delle State Owned Enterprises (SOE)

Analizzando la realtà economica della Cina pre-riforma emergeva un contesto industriale costellato da imprese statali anche conosciute con l’acronimo di SOE, ossia

State Owned Enterprises, delle quali si accennava anche in precedenza.

Quando nel 1978 furono mossi i primi passi verso la creazione di un’economia market-

oriented le SOE ancora dominavano il panorama industriale cinese: esse erano

considerate il motore pulsante dell’economia nazionale, in perfetta linea con l’ideologia socialista della nazione.

Di lì a breve si sarebbe assistito ad un notevole cambiamento sia in termini di minor incidenza delle imprese statali sul totale della produzione industriale172, sia per la

170 Si veda il paragrafo a ciò dedicato.

171 Il riferimento è al documento intitolato A Decision on the Reform of the Economic Structure emanato

nel 1984 dal Central Committee del CCP.

172 Durante il ventennio riformista (1978-1998) il contributo delle SOE al totale della produzione

industriale cinese crollò da un iniziale appagante 77,6% ad un 28,8% nel 1996 [Lin et al. (1998)].

Ci si riferisce in particolare alle SOE di grandi dimensioni, che pur costituendo solo il 5,6% del totale delle SOE in termini quantitativi, contribuivano per il 60% in termini di produzione del valore (entrambi i dati si riferiscono all’anno 1996). Secondo i dati riportati da Qian&Wu (2008) più del 60% della ricchezza nazionale veniva prodotta da imprese private: si stava pertanto assistendo ad un declino dell’impresa statale su più fronti.

100

creazione di un settore contrapposto, ossia il Non-State Sector, che fino ad allora era stato pressoché inesistente173.

In particolare, mentre le nascenti imprese non statali dovettero affrontare situazioni difficoltose in termini di approvvigionamento delle materie prime, di ottenimento dei finanziamenti e di vincoli di budget imposti, tali da rendergli “vita difficile”, le SOE d’altro canto si trovarono per la prima volta ad operare in un ambiente competitivo. Questo indusse le stesse a migliorarsi anche concedendo maggior autonomia ai

manager: il tutto comportò un notevole aumento della produttività accompagnato però

da una deludente performance in termini di profittabilità, probabilmente conseguenza della perdita della rendita di monopolio [Lin et al. (1998)].

La riforma delle SOE, anche sulla base di considerazioni che elogiavano il processo di privatizzazione quale unico strumento per aumentare l’efficienza nelle stesse, ha cercato di ridurre la presenza statale con un approccio sempre graduale, del tipo step by step [Chow (2004)]: se prima tanto la proprietà quanto i diritti manageriali erano totalmente nelle mani del Governo, attraverso la suddetta riforma si cercò almeno parzialmente di ridurre tanta ingerenza ammettendo, nell’ampio spettro di alternative possibili, anche la quotazione delle imprese nei listini domestici, nonché in quelli internazionali174.

173

Fino ad allora non esisteva in Cina la figura dell’imprenditore classico, quella di stampo occidentale. I manager chiamati a gestire le SOE nel periodo pre-riforma non agivano assolutamente in autonomia. Venivano eletti da funzionari pubblici e ricoprivano quel ruolo non per merito o esperienza, bensì sulla base di rapporti personali e favoritismi. Nel suo working paper, The Chinese Economic Reform and Chinese Entrepreneurship (2005) l’autrice Vicky Hu sottolinea come nel panorama industriale cinese pre- riforma non vi fosse praticamente traccia di imprese se non di quelle statali. Tutte le aziende erano di proprietà e sotto il controllo governativo, controllo che si esplicavano attraverso un sistema di deleghe, considerando che lo Stato non poteva operare direttamente in tutte le realtà imprenditoriali. Successivamente al periodo riformista, a partire dal processo di decollettivizzazione del settore agricolo che portò alla nascita delle prime realtà private nella forma delle TVE, il percorso è stato un crescendo continuo. Si è infatti assistito, oltre al permanere delle SOE, anche alla creazione di imprese private, al passaggio di imprese da statali a società per azioni e alla creazione di joint ventures spesso straniere. Con riferimento alle prime gli imprenditori erano nominati dall’Ufficio “State Property Managing Council”, non rientravano nell’azionariato della società e il loro salario veniva calcolato con riguardo alle performance dell’azienda. Le imprese private furono invece quelle che dovettero affrontare maggiori difficoltà soprattutto per l’ottenimento di finanziamenti dal settore bancario considerando che, per la maggior parte, anche questo era controllato dallo Stato. Infine le imprese risultanti dalla migrazione prevedevano un azionariato in parte nelle mani dello Stato ed in parte di altri azionisti, tra cui gli stessi manager talvolta.

174 Il termine “parzialmente” non è stato inserito casualmente, bensì si riferisce al controverso ruolo del

Governo nel processo di quotazione. Esso infatti, pur riconoscendo la necessità di farsi da parte per aumentare l’efficienza del settore industriale nazionale, detiene tuttora circa i 2/3 delle azioni emesse dalle SOE quotate, mantenendo di fatto un notevole controllo delle stesse. Anche Tian (2002) arrivò alla medesima constatazione: egli riportò dei dati in base ai quali il 28% delle azioni emesse dalle SOE erano

101

Nel 1979, in un ottica assolutamente sperimentale, si avviò un processo pilota che, secondo alcuni, migliorò l’efficienza delle SOE [Cooper (2003)].

In particolare questo progetto, che coinvolse 84 aziende nella provincia cinese di Sichuan, prese in nome di Profit Retention Program ed era una versione prova delle riforme che sarebbero state confermate di lì a pochi anni.

Nello specifico esso consentiva a quelle aziende meritevoli per produzione e profittabilità di creare un Enterprise profit fund da poter utilizzare per perseguire propri scopi, nonché un sistema di bonus per premiare i lavoratori più performanti.

A distanza di soli due anni ben 6600 aziende, coinvolte nel programma, furono in grado di produrre ben il 45% dell’output di tutte le SOE allora esistenti [Chow (2004)].

Si tratta di un dato di notevole importanza, dal quale si evince come la presenza dello Stato all’interno delle aziende cinesi abbia costituito il più delle volte una fonte di ostacolo, di scarsa efficienza e di bassa produttività.

In particolare le prime politiche riformiste per sanare la situazione delle SOE si snodavano lungo i tre punti sotto elencati:

1. in primis si voleva concedere maggiore autonomia alle SOE, soprattutto rispetto

a decisioni di marketing, alle scelte di investimento e alle tecniche produttive. Fino ad allora invece tali decisioni erano sempre state prese in sede centrale, secondo il tradizionale central planning system di stampo socialista;

2. in secondo luogo le si voleva rendere finanziariamente indipendenti, consentendo alle stesse di trattenere i profitti conseguiti, ovviamente dopo il pagamento delle tasse dovute. Questo rappresentò una notevole rivoluzione, considerando che fino ad allora i profitti dell’azienda erano considerati di proprietà dello Stato e non dell’impresa che li aveva prodotti. In questo senso inizialmente si concesse alle imprese di trattenere il 12% dei maggiori profitti conseguiti [Lin et al. (1998)], questi potevano essere utilizzati liberamente dall’impresa ad esempio sotto forma di bonus per i dipendenti, o attraverso un direttamente nelle mani dello Stato, mentre il 44% delle stesse erano possedute indirettamente tramite società interposte. Questo, così come altri, sono stati i mezzi utilizzati dal Partito per esercitare un controllo dominante e preservare l’impianto socialista su cui è stata impostata per anni la sua economia. [Cheung et al. (2008)]. A riguardo si veda il paragrafo successivo sulle origini e sullo sviluppo del mercato dei capitali in Cina.

102

rafforzamento della politica degli investimenti;

3. infine si volle un sistema che, sullo stampo dell’Household Responsabilty

System del settore agricolo, enfatizzasse il ruolo di ciascuno all’interno

dell’azienda, creando contestualmente una rete di responsabilità e legami di controllo.

La riforma fece poi un ulteriore passo in avanti quando nel 1987 venne implementato il cosiddetto Contract Responsabilty System in base al quale a tutte le SOE venne concesso, dopo il pagamento al Governo di una predefinita quantità di denaro, di utilizzare la restante quantità di profitto sia distribuendola al proprio organico come ricompensa, sia utilizzandola per supportare mirate decisioni di investimento.

Purtroppo però questo sistema rivelò da subito alcune falle nel funzionamento, nonostante si fondasse su degli ottimi presupposti.

In primo luogo nella realtà delle cose la tassa applicata dal Governo si rivelò mai di importo fisso, ma sempre da calcolare sulla base del profitto conseguito: tanto maggiore era quest’ultimo tanto maggiore sarebbe stato anche l’importo da pagare.

Ovviamente questo sistema, invece di creare dei validi incentivi per l’azienda in termini di minimizzazione dei costi e di massimizzazione dei benefici ebbe, al contrario, un effetto distorsivo.

In secondo luogo, nonostante si propagandasse la possibilità di distribuire l’extra- profitto ai manager e ai dipendenti, questo nella realtà non si concretizzò attraverso un aumento del salario, ma solo attraverso la distribuzione di beni durevoli.

Era infatti previsto che le retribuzioni seguissero una scala nazionale fissa, che in quanto tale, non poteva certo subire cambiamenti, tanto meno ad personam.

Inoltre un aumento del salario era socialmente un fatto inaccettabile, secondo alcuni sintomatico di un regime capitalista, tanto osteggiato dal Partito.

A questo si ricollegano anche le poco performanti scelte in materia di investimenti: considerando infatti che i manager erano gli unici soggetti a sopportare i rischi derivanti da una determinata investing policy, ma l’eventuale successo veniva poi condiviso tra tutti senza ricompensare adeguatamente gli effettivi fautori della scelta, questo costituì un freno a procedere nella giusta direzione.

Infine la stessa figura dei manager rappresentava un elemento debole nello scenario delle SOE, elemento che andò parzialmente a minare il successo della riforma. Più

103

precisamente si trattava spesso non di figure elevate a quella carica per ragguardevoli doti professionali, preparazione ed esperienze pregresse, bensì per i legami personali e le connessioni politiche [Chen Z. et al. (2007), Chow (2004)].

Alla luce dei fallimentari dati raccolti in questa prima fase di riforme, negli anni successivi venne contemplata una strada più incisiva per migliorare l’efficienza delle SOE: quella della privatizzazione.

In particolare a partire dagli anni ‘80, in pieno fermento riformista, alcune SOE subirono quello che viene indicato con la sigla SIP ossia Share Issue Privatization: sostanzialmente il processo di privatizzazione si materializzò nella vendita di azioni emesse da queste ultime e a disposizione del largo pubblico di investitori [Chen Z. et

al. (2007)].

La riforma portò però a registrare risultati differenti a seconda della tipologia di SOE: diversi furono gli esiti a seconda che ad essere coinvolte in tale processo di trasformazione fossero le piccole e medie imprese statali o le large SOE.

In particolare mentre nel primo caso, soprattutto negli anni ‘90, si assistette con successo ad una graduale diminuzione dell’ingerenza statale sia in termini di controllo che di proprietà, lo stesso non può dirsi per le imprese di maggiori dimensioni nelle quali il Governo ha voluto caldamente mantenere una forma di controllo, pur ammettendo una parziale rinuncia della proprietà175.

Esso ha infatti manifestato una certa ritrosia nell’abbandonare il suo ruolo di dominanza: in particolare si è assistito a moltissimi casi di listing di large SOE le cui azioni di nuova emissione sono state tuttavia acquistate dallo Stato in notevoli quantità. Questo ha consentito allo stesso di mantenere una quota rilevante della proprietà, perpetuando al tempo stesso un’azione di controllo attraverso l’imposizione di manager scelti ad hoc sulla base di connessioni politico-personali176: il Governo infatti, al

175 Per questo motivo si parla di parziale privatizzazione poiché, diversamente da quanto ci si

aspetterebbe, il Governo cinese non ha comunque voluto rinunciare completamente al suo ruolo da leader. Questa costituisce senza ombra di dubbio una delle caratteristiche più particolari del contesto istituzionale cinese, causa secondo molti autori del notevole Underpricing registrato in questa nazione. Per approfondimenti si veda il III capitolo.

176 Nonostante la riforma si assiste pertanto a situazioni di imprese capitanate da manager inesperti e non

qualificati, ma assurti alla carica grazie ad intercessioni del Governo. Va comunque precisato per correttezza che la Cina ha assistito anche a casi, seppur ridotti, di trasformazioni di SOE conclusisi con esito positivo [Chow (2004)]. Per quel che concerne invece le connessioni politiche ed i favoritismi si veda Chen Z. et al. (2007), Francis et al. (2009).

104

momento di acconsentire alla privatizzazione delle SOE, si arrogò il diritto di selezionare i dirigenti scegliendoli - il più delle volte - tra i suoi stessi funzionari177.

Parallelamente al settore statale, estremamente presente nella Cina pre-riforma, non va dimenticata la realtà Non-State, meno caratteristica ma pur sempre esistente.

Nel particolare contesto cinese, così diverso dagli standard occidentali, alcuni autori [Chow (2004)] hanno individuato, tra le non statali, tre tipologie di società: le imprese collettive (sia di stampo urbano che rurale), le individuali e quelle con sede oltre confine178.

Tutte le suddette tipologie, pur sviluppatesi in una situazione estremamente confusa, in assenza di un adeguato impianto legale a protezione delle stesse, ed in un clima di totale insicurezza circa i rapporti proprietà-controllo, sono comunque riuscite ad emergere quali realtà di successo in termini di profittabilità, offuscando il ruolo delle loro controparti statali.

In particolare il China Statistical Yearbook del 1997 riesce a cogliere pienamente questa dinamica di crescita e sviluppo focalizzandosi proprio sugli anni più rappresentativi della riforma: secondo i dati raccolti emerge che, mentre nel 1978, alle origini del periodo riformista, il contributo del settore Non-State era pressoché inesistente in termini di risultato industriale finale (le SOE producevano da sole il 77,6% dell’output industriale totale), al trascorrere di meno di due decadi, nel 1996, il contributo del settore statale alla performance complessiva dell’industria cinese si attestò miseramente ad un 28%.

Da questi dati si evince pertanto che, nonostante le imprese statali persistano in termini di esistenza nel contesto industriale cinese, la loro performance in termini di produttività è in una progressiva fase calante: ciò nonostante l’economia cinese può ancora vantare una notevole crescita grazie al settore Non-State che, oltre ad acquisire

177

Poteva anche capitare il caso contrario, ossia che i dirigenti dell’azienda fossero scelti dallo Stato per rivestire un ruolo governativo [Chen Z. et al. (2007)].

178 La natura e origine di queste va ricercata nella Open Door Policy di cui si parlerà al paragrafo

105

posizioni in termini quantitativi, si sta dimostrando estremamente efficiente dal punto di vista produttivo.