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Il mercato dei capitali in Cina: il contesto di partenza

La Cina: contesto storico, economico ed istituzionale

2.3. I MERCATI AZIONARI E LE TIPOLOGIE DI AZIONI NEGOZIATE

2.3.1. Il mercato dei capitali in Cina: il contesto di partenza

Come già ampiamente annunciato ai paragrafi precedenti il periodo riformista, iniziato alla fine degli anni ‘70, ha progressivamente mutato l’identità della Cina stessa, in particolare con riferimento alla volontà di ridurre la presenza statale nel settore industriale.

Per riuscire a comprendere appieno la complessità insita e le ragioni sottostanti il processo di creazione delle Borse nazionali ci si deve riallacciare alla riforma delle SOE190 e al principio cardine alla base della stessa: aumentare, con le differenti modalità già citate191, l’efficienza del settore statale che attraversava un periodo critico [Cooper (2003)].

In particolare, attraverso la creazione del mercato dei capitali, e delle relative istituzioni addette al controllo e al corretto funzionamento dello stesso, la Cina cercò di coniugare interessi multipli: in primis era radicata volontà del Partito creare un successful stock

189 E’ quanto venne rilevato da Nian Qing Yuan (2005) nel suo articolo “The Development Path of

China’s Stock Market”.

190 Soggetto di questo paragrafo sono solo ed esclusivamente le large SOE. Le piccole e le medie imprese

statali hanno infatti subito una fase riformista meno problematica, risolvendo le loro criticità attraverso la privatizzazione, particolari contratti di cessione o annunciandone la bancarotta [Lin et al. (1998)].

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Dapprima, in un ottica di intervento soft, si ritenne sufficiente conferire maggiore libertà e autonomia ai manager anche con riferimento alla gestione del profitto conseguito e alla distribuzione di bonus basati sulla performance. Successivamente si palesò anche l’idea, più incisiva, di attuare un processo radicale di privatizzazione. Per chiarimenti si veda il paragrafo 2.2.4..

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market192, che consentisse di attingere a fonti alternative di capitale per risanare le precarie finanze delle SOE, senza ulteriormente appellarsi al settore bancario193.

In secondo luogo procedere nella direzione illustrata dallo stesso Xiaoping, verso un’economia molto più market-oriented e molto meno central-planned.

Le SOE, che originariamente infatti erano state create non solo per perseguire lo scopo produttivo, ma soprattutto come entità funzionali, di legittimazione politica e sociale, si erano rivelate una notevole fonte di problemi per lo Stato.

Alle origini della riforma economica molte di queste annoveravano nel loro Stato Patrimoniale situazioni debitorie davvero pessime, nonché dei leverage ratios elevatissimi [Allen et al. (2005)].

Per far fronte a tale situazione lo Stato avrebbe potuto seguire due alternative: da un lato si sarebbe potuto procedere al loro salvataggio chiedendo nuovamente l’intervento delle banche: tuttavia questa alternativa avrebbe però comportato l’impiego di un’ingente quantità di capitale che probabilmente, investita in altri progetti ben più meritevoli e redditizi, avrebbe contribuito ad un aumento della crescita economica su scala nazionale194, a beneficio pertanto dell’intera popolazione.

Dall’altro, tagliando completamente gli aiuti esterni ed i sussidi statali si sarebbe proceduto ad eliminare il problema alla radice: le SOE sarebbero state abbandonate a loro stesse e conseguentemente dichiarate fallite.

Quest’ultima proposta però, se da una parte sanava la situazione perché la andava ad estirpare completamente, dall’altro lato si presentava come un pesantissimo colpo nel contesto cinese di breve termine, un colpo che il Partito non si poteva permettere di subire [Cooper (2003)].

Era infatti necessario mantenere in vita le SOE e migliorarne la performance, poiché le stesse costituivano un tassello importante nella crescita economica nazionale: in

192 Si veda Cooper (2003), pag 15. In particolare alla fine degli anni ‘90 il Partito realizzò che fosse più

importante creare un mercato dei capitali credibile, più che uno di mero successo.

193 Tra l’altro la maggior parte delle banche cinesi erano dirette emanazione dello Stato: rivolgersi a

queste ultime per risanare le disastrose finanze delle SOE si presentava quale una mossa del tutto controproducente: un sistema auto distruttivo. Si doveva pertanto individuare un canale indipendente di approvvigionamento dei capitali.

194 Il sistema bancario cinese versava allora in una situazione alquanto problematica. In particolare,

considerando che le banche prendevano le loro decisioni mosse da motivazioni politiche e non da considerazioni circa il reale merito creditizio della controparte o la situazione del mercato, esse avevano spesso concesso finanziamenti mai stati ripagati. Basandosi sugli standard contabili internazionali molte di queste sarebbero indubbiamente state dichiarate insolventi [Lardy (1998)].

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particolare esse impiegavano più del 60% della forza lavoro urbana (dato aggiornato al 2003): soluzioni quali la bancarotta o la chiusura erano assolutamente impensabili e avrebbero dato origine a sollevazioni popolari.

Inoltre il tutto doveva compiersi senza alcuna perdita di controllo da parte del CCP: diventava pertanto necessario individuare un meccanismo che coniugasse obiettivi divergenti e che portasse al risultato finale senza rinunciare alla posizione di dominio da sempre ricoperta dal Partito.

Sostanzialmente quella che il CCP si trovò ad affrontare fu una situazione a doppia faccia: da un lato la necessità di aumentare l’efficienza attraverso una separazione Stato- Impresa che si era dimostrata indispensabile, dall’altro la volontà imprescindibile di mantenere il controllo soprattutto con riferimento alle decisioni più rilevanti.

In tal senso, tra le varie alternative che vennero prese in considerazione195, vi fu la proposta di creare un mercato finanziario ove le SOE potessero quotarsi196 e reperire così i fondi necessari al risanamento197.

195 Come analizzato al paragrafo precedente nel 1979 prese avvio un progetto pilota che cercò di

migliorare l’efficienza delle SOE per passaggi graduali, consentendo alle stesse di agire in maggior autonomia. Durante il periodo delle riforme la Cina registrò effettivamente una crescita impressionante che però non deve essere interpretata come segnale del successo della riforma delle SOE: tale dato infatti è giustificato dal positivo andamento del settore Non State, dove le imprese collettive, individuali e le joint-venture straniere registrarono risultati eccezionali, mentre il settore statale si rilevò, nonostante gli sforzi, ancora deludente e problematico [Cooper (2003)]. Alla luce di questo fallimento del programma pilota, e di tutte le riforme più soft, il Partito capì che si doveva intervenire pesantemente sulle SOE, in particolare andando ad incidere sulla struttura proprietaria delle stesse.

196 A tal proposito un articolo del Financial Times, pubblicato in data 28 Marzo 2005, riferendosi alle

cause sottostanti la creazione dei mercati finanziari cinesi recitava:“ […] to reform the unprofitable, inefficient State-Owned Enterprises”. Va precisato che tale alternativa, anche se attuata, era allora considerata un tabù. Essa infatti era un elemento antisonante con la dottrina comunista, sia dal punto di vista ideologico, che di natura economica. Sostanzialmente il Governo diveniva uno dei tanti azionisti, perdendo di fatto il controllo totale: esso poteva, anche qualora fosse stato l’azionista di maggioranza, esprimere un’opinione, ma non anche prendere direttamente una decisione. Tuttavia va sottolineato che nella realtà dei fatti difficilmente una proposta governativa non trovava attuazione, anche considerando il forte imprinting socialista della nazione [Cooper (2003)].

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E’ proprio in quest’ottica che può essere letta la frase del medesimo articolo del Financial Times (28 Marzo 2005): “To facilitate such a process and lure retail investors to companies of dubious quality Beijing set rules that ensured initial public offerings were under-priced, thus guaranteeing investors handsome gains in the first few days of trading.” Sostanzialmente quello che la prestigiosa testata giornalistica voleva sostenere con queste parole è che, al fine di attirare investitori nel mercato di capitali cinesi, con l’intento che gli stessi fornissero i fondi necessari alle imprese in difficoltà per risanare le loro disastrose finanze, il Governo cinese era anche disposto a sottoprezzare volutamente le emissioni azionarie. L’articolo poi prosegue “ […] the listed companies raised money from moms and pops rather than from the banking system, which did the banks a huge favour by taking the burden of financing mediocre companies away from them.”. Emerge pertanto il ruolo giocato dai mercati finanziari che si sostituiscono alle banche nella delicata attività di salvataggio delle imprese in difficoltà. Inoltre non può non saltare agli occhi l’ingerenza dello Stato che, in questo suo ruolo onnipresente, viene descritto quale

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I membri del Partito erano ormai dell’opinione che, dati i fallimentari esiti delle riforme precedenti, troppo poco incisive, fosse il turno di un approccio più radicale, che riorganizzasse completamente la struttura proprietaria delle SOE.

Chiarificando i diritti di proprietà e riducendo la presenza del Governo nelle imprese, questo avrebbe permesso teoricamente al Partito di tagliare i sussidi e di consentire comunque alle stesse di operare in autonomia, data la creazione dei mercati finanziari voluti ad hoc per reperire capitale (c.d. Corporatization reform).

Da subito però si individuarono delle problematicità in questo processo estremamente delicato: la presenza di azionisti Non-State affianco al Governo poteva limitare l’operato ed il controllo di quest’ultimo, soprattutto con riferimento al raggiungimento di obiettivi non-economici quali la stabilità sociale.

Il CCP basava infatti la sua legittimità proprio i) sulla capacità di garantire un certo livello nei servizi senza assistere ad un loro downgrading, ii) abbassare il livello di disoccupazione e iii) promulgare riforme in modo equo, senza privilegiare alcuni soggetti a discapito di altri.

Ad oggi comunque, nonostante il succedersi di riforme, il binomio Governo-Impresa è tuttora molto presente in Cina, se confrontato con altre realtà nazionali: talvolta anche in modo ambiguo. Tale fatto non solo rende difficile la gestione delle realtà industriali, ma ancora di più, non permette di delineare un preciso schema di responsabilità.

Quest’ultimo aspetto si traduce in un gran vantaggio per i manager che, nonostante siano gli unici chiamati teoricamente a rispondere di performance aziendali deludenti o addirittura per le perdite registrate, non vengono però riconosciuti in qualità di responsabili: l’onere ricade completamente sul Governo, più nello specifico nella sue forme centralizzate e non locali [Cooper (2003)].

Va precisato comunque che nel contesto cinese si assistette a processi di listing delle SOE del tutto atipici se confrontati con le situazioni palesatesi nei contesti occidentali [Cooper (2003)].

una delle cause dietro l’IPO Underpricing cinese. Sempre il medesimo articolo della testata giornalistica britannica enfatizza l’assurda intromissione del Governo cinese nell’andamento dei listini nazionali riportando il seguente esempio: “ […] when the authorities decided to introduce a fairer system for IPO pricing, they placed a six-month ban on new listings. Yet it reinforced the impression that nothing in Chinese markets, not even an IPO, happens without Beijing's say-so.”

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Una di queste anomalie risiede per esempio nella composizione della schiera di investitori: considerando che la creazione dei mercati finanziari cinesi è fenomeno estremamente recente non deve stupire il fatto che essi sia prevalentemente poco informati e, numericamente parlando, perlopiù afferenti al ramo retail198: spesso all’oscuro delle informazioni più rilevanti, in un totale contesto di asimmetria informativa, essi negoziano i differenti strumenti perchè spinti dall’istinto e dalla smania di scommessa, più che decidere sulla base di appurate considerazioni.

Per la maggior parte si tratta di investitori desiderosi di investire i loro risparmi in alternative più valide dei ben poco remunerati depositi bancari domestici; dall’altro lato va sottolineato che esistono anche pochi investitori istituzionali in Cina che siano in grado di prendere oculate decisioni di investimento a lungo termine, considerando le informazioni di cui dispongono199.

Inoltre il Partito, sempre in un’ottica di mantenimento, anche indiretto, del controllo sulle piazze finanziarie e più generalmente sul mercato, si mobilitò per creare delle istituzioni ad hoc.

Purtroppo secondo alcuni [Cooper (2003)] anche la nascita di tali istituzioni finanziarie celava non pochi ostacoli al corretto funzionamento del mercato dei capitali: secondo questo autore si palesava la possibilità che le stesse potessero fallire miseramente nel loro obiettivo, dimostrandosi incapaci di gestire un programma di Corporatization implementato tanto rapidamente.

In particolare si andava sostenendo che le stesse infrastrutture finanziarie, quali le borse di Shanghai e Shenzhen di cui si parlerà in seguito, si sarebbero potute dimostrare inadatte a gestire un processo tanto delicato, soprattutto qualora si fosse verificato un sovraccarico del sistema: ciò avrebbe comportato non solo un esito fallimentare della riforma, ma anche un effetto destabilizzante sull’intero mondo finanziario, come in una classica reazione a catena [Cooper (2003)].

198 Va tuttavia precisato, come si faceva notare anche al I capitolo, che nel ventennio ormai trascorso

dall’origine dei mercati finanziari cinesi, gli investitori si sono fatti via via più esigenti ed accorti [Ernst&Young (2012)].

199 Tuttavia è bene precisare che ad oggi la situazione sta cambiando: rispetto alle origini delle Borse

Valori attualmente si assiste ad un sempre maggior numero di investitori istituzionali che si accingono ad entrare nel mercato dei capitali cinese. In tal senso si veda il IV capitolo nel quale, analizzando il fenomeno di IPO Underpricing in tempi decisamente più recenti (2009-2012) viene analizzato anche il ruolo chiave di investitori ed intermediari finanziari, di identità diversa rispetto agli anni precedenti.

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Tuttavia queste preoccupazioni sono risultate infondate e, nonostante permangano dei punti da rivedere, le stesse si sono dimostrate abbastanza “robuste” da reggere all’implementazione di questo piano di riforme.