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La maternità transnazionale: essere madre a distanza fra famiglia allargata e famiglia nucleare

Le migrazioni femminili latinoamericane

Grafico 5: Stima dei nati stranieri per comunità di riferimento e totale dei non comunitari Serie storica 2010 – 2016.

2.6 La maternità transnazionale: essere madre a distanza fra famiglia allargata e famiglia nucleare

Negli anni Novanta, come nota Giuffrè (2014, cit. in Pinelli 2019), la grande migrazione delle donne come collaboratrici domestiche in Europa meridionale mette in evidenza l’etnicizzazione del mercato del lavoro e il discorso razzista relativo al lavoro domestico. In questo quadro, la maternità migrante assume un posto centrale negli studi sulle migrazioni. Nella riflessione sui processi di negoziazione del ruolo di madre a distanza emergono due linee interpretative: la “doppia presenza” e la formazione di una nuova famiglia (Hondagneu-Sotelo, Avila, 1997; Baldassar, Baldock, Wilding, 2007); la disarticolazione familiare prodotta dalla partenza della madre che produce una rottura tra livello materiale e affettivo (Parrenas, 2001; Boccagni, 2009). Le fratture intergenerazionali e le rinegoziazioni nei rapporti di genere diventano le lenti attraverso le quali osservare il fenomeno delle migrazioni femminili. In letteratura si sottolineano i molteplici modi di fare la madre a distanza nel tentativo di compensare la lontananza fisica: la “mercificazione” dell’amore e delle relazioni (Parrenas, 2001); l’invio di oggetti, rimesse, regali che rappresentano un surrogato della presenza della madre (Ambrosini, Boccagni, 2008).

L’etnografia condotta da Giuffrè (2018) fra le donne migranti capoverdiane si propone di analizzare il significato attribuito alla mobilità transnazionale femminile. Dalle narrazioni delle donne emerge l’idea che migrare sia un modo per essere “più madri”, per diventare “madri realizzate”. Tra gli obiettivi perseguiti tramite la migrazione internazionale, Giuffrè sottolinea: il desiderio di rendere concreto il legame verso i figli, la volontà di assicurare un futuro migliore e costruire loro una casa nel luogo di origine. Nell’arcipelago di Capo Verde, essere madri a distanza non è oggetto di stigmatizzazione sociale per effetto di precise caratteristiche del contesto socio-culturale: la diffusione di un modello di famiglia allargata di tipo matrifocale, la centralità della figura femminile nella cura dei figli in assenza del padre, la fluidità di madri e figli tra le unità domestiche, la solidarietà tra donne in un sistema di poligamia informale. In particolare, la pratica delle adozioni informali favorisce la mobilità fra i gruppi domestici tramite l’affidamento dei figli a “genitori di crescita”

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(Giuffrè, 2018: 200)31. La migrazione prevalentemente di tipo stanziale contribuisce a modificare le aspettative di genere e di cura riconfigurando la relazione madre-figlio. A seguito della migrazione femminile, secondo Giuffrè emerge un rafforzamento del modello matrifocale: da un lato le madri- lavoratrici-migranti assumono un potere economico che consente di consolidare il ruolo acquisito di capo famiglia; dall’altro l’affidamento esclusivo dei figli left behind a figure femminili, in particolare alle nonne, consente lo sviluppo di un “triangolo transnazionale” fra madri biologiche- madri putative e figli (Giuffrè, 2018:

Essere madri a distanza si configura come un fenomeno che permette di estendere la struttura sociale e familiare. Infatti, la scelta di separarsi dai propri figli è un comportamento socialmente accettato perché considerato espressione della volontà di ottenere il benessere dei figli. Diversamente dai contesti occidentali, a Capo Verde il modello di cura diffuso si basa sulla condivisione dei compiti materni, non semplicemente sulla delega. Ciò contribuisce nell’ostacolare la diffusione di una riprovazione morale e sociale per i figli letf behind.

Nonostante diversi studi mettano in luce la complessità e l’eterogeneità delle situazioni affrontate dalle donne migranti, nella società di arrivo emergono rappresentazioni sociali che tendono a rendere omogeneo il gruppo delle donne migranti provenienti dall’America Latina (Pedone, 2002, 2014; Lagomarsino, 2007, 2014; Wagner, 2004; Abbatecola, 2010). Pratiche e discorsi dominanti sulla maternità transnazionale indicano la presenza di uno stigma sociale diffuso verso le donne migranti veicolato discorsi politici e mediatici: le donne che migrano sono madri “snaturate”, “cattive” perché colpevoli di aver abbandonato i propri figli. I processi di stigmatizzazione sociale delle donne migranti esprimono il tentativo di esercitare un controllo sulla condotta delle donne stesse impedendo l’adozione di pratiche che rischiano di scardinare la visione egemonica di famiglia che attribuisce all’uomo il ruolo di capo-famiglia e breadwinner (Abbatecola, 2010; Lagomarsino 2010).

A partire dagli anni ’90, in Ecuador si assiste all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro in relazione all’aumento dei livelli di istruzione e alla crisi economica e sociale che ha interessato il paese. Ciò ha comportato un cambiamento significativo nell’organizzazione familiare e nella suddivisione dei ruoli: la donna si occupa di provvede al sostentamento economico della famiglia al posto dell’uomo. Alla fine degli anni ’90, l’Ecuador attraversa la più grave crisi della sua storia in

31 Busoni (2000) riporta pratiche di affidamento simili fra i Baulé della Costa d’Avorio. La pratica dell’adozione, infatti,

si configura come un passaggio di bambini fra donne (parenti e non) che assume la forma di un affidamento temporaneo o definitivo. Allo stesso modo, avviene solo con il consenso del bambino che spesso sceglie di allontanarsi dalla famiglia per alleviare le condizioni di disagio dovute all’elevato numero di figli. In merito al rapporto fra madri adottive e biologiche, la pratica dell’affidamento rappresenta un’opportunità per sviluppare relazioni di complicità e di solidarietà fra donne.

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seguito all’introduzione di politiche neoliberiste che si traduce in un movimento migratorio senza precedenti verso gli Stati Uniti e l’Europa del Sud. Le protagoniste sono, in particolare, giovani donne dai 20 a 40 anni che decidono di partire verso l’Italia e la Spagna con la promessa di un lavoro sicuro nel settore domestico e di cura. Dal 1990 al 2000 in concomitanza con il periodo delle partenze verso l’Europa e all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro si osserva un cambiamento nelle relazioni di genere e familiari. A partire dal 2008, la crisi economica che colpisce l’Europa ha effetti anche sulla popolazione migrante latinoamericana: l’aumento della disoccupazione conduce molti a fare ritorno al paese mentre altri rimangono e vivono momenti di difficoltà. L’impatto della crisi, secondo molti, si manifesta nelle fratture familiari.

In questo contesto ha origine un dibattito sulle famiglie migranti basato sull’idea di una naturale violenza di genere in ambito familiare che mette in discussione la forma della maternità migrante (Pedone, 2002, 2014). A partire dal 2000, nella società di origine si diffonde un allarme sociale per le famiglie migranti in crisi per l’abbandono dei figli, e allo stesso tempo, nella società di destinazione, la migrazione femminile è connotata nei termini di una distruzione della famiglia. Nei discorsi emerge una percezione ambigua verso le madri migranti unita ad una riprovazione morale. La migrazione produce effetti negativi evidenti sulla vita dei figli che rimangono in patria: “orfani della migrazione”, abbandonati e quindi a rischio di sviluppare comportamenti devianti (Boccagni, 2009). Tali conseguenze sono viste esclusivamente come una responsabilità della madre che scegliendo di partire ha rifiutato di crescere i propri figli.

L’ipotesi formulata da Wagner (2004, 2008) afferma che il discorso dominante sulla donna migrante come cattiva è legato ad un’accentuazione della rinegoziazione dei ruoli e delle relazioni di genere originata nel contesto migratorio. Il discorso dominante contiene processi di costruzione sociale dell’identità e delle relazioni di genere che costituiscono una forma di continuità per il gruppo sociale tramite il rinforzo di stereotipi di genere che sanzionano il comportamento femminile non adeguato, all’interno di una ideologia patriarcale. Allo stesso modo, l’enfasi posta sulla famiglia nucleare come pratica “normale” e “naturale” ha la funzione di nascondere l’esistenza di forme diverse di famiglia e l’esistenza di una pluralità di forme di maternità. Dal momento che con la migrazione potrebbe affermarsi nuove forme di maternità e di famiglia, l’immaginario costruito si propone di sanzionare le condotte devianti. Il processo di ridefinizione della maternità avviene in relazione alle trasformazioni nei ruoli e nelle relazioni di genere, ed è profondamente collegato al concetto di nazione: la donna è considerata la guardiana, la matrice biologica e sociale della riproduzione della nazione.

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Nell’indagine etnografica di Abbatecola (2010), le donne di origine latinoamericana affrontano un progetto di radicamento nel nuovo contesto di vita che si traduce da una parte, nel ricongiungimento del marito o solo dei figli, dall’altra nella permanenza della donna in Italia con un nuovo marito e nella creazione di una nuova famiglia. Le donne latinoamericane incontrate da Abbatecola (2010) si caratterizzano per l’appartenenza ad una famiglia impegnata in un primo momento, in un progetto migratorio di tipo provvisorio che nel tempo si modifica assumendo la forma di una permanenza definitiva con la presenza dei figli. In questo modo, si configura una dinamica precisa che vede l’inserimento delle donne nella società in termini di lavoro e successivamente il ricongiungimento dei figli. Nel nuovo contesto di vita, le donne migranti hanno dovuto modificare le proprie abitudini passando da lavoratrici a tempo pieno a madri-lavoratrici. Il ruolo di lavoratrici a tempo pieno ha consentito l’acquisizione di un certo grado di autonomia economica e sociale mentre il ricongiungimento dei figli comporta un ulteriore impegno nell’intento di conciliare i compiti di produzione a un nuovo ruolo di madre e di trovare un equilibrio nelle relazioni fra i figli e il nuovo marito. Nelle narrazioni femminili è possibile osservare alcuni aspetti: l’esplicitazione del dolore per la separazione dai propri figli, l’idea di sacrificio, l’occultamento del senso di colpa provato per l’esperienza della maternità a distanza, la definizione di sé per differenza da altre madri considerate inadeguate (madri transnazionali, madri italiane datrici di lavoro). Le strategie discorsive messe in atto dalle donne rivelano la volontà di ottenere un riconoscimento sociale aderendo alle aspettative proiettate su di loro sulla base del modello della “buona madre” (Badinter, 1981). Le motivazioni urgenti, enfatizzate nelle narrazioni per giustificare la partenza come esito di una scelta razionale, evidenziano il senso di colpa interiorizzato. Dall’indagine emerge una dinamica di colpevolizzazione della donna migrante per aver adottato comportamenti riproduttivi “devianti”, dimostrandosi una madre inadeguata in base al modello dominante di maternità “naturale”. Tutto ciò produce senso di colpa in relazione alle aspettative sociali incorporate per aver abbandonato i figli.

Nell’indagine etnografica condotta da Mei (2010), le narrazioni delle donne prevale l’idea della migrazione come strategia per ottenere un beneficio comune rispetto alla volontà di realizzazione personale. Ciò è riconducibile a un senso del dovere interiorizzato dalle donne verso al famiglia che, allo stesso tempo, è fonte di frustrazione. Dalle narrazioni emerge la difficoltà di svincolare desideri personali dalla dimensione familiare: una madre che decide di migrare si sacrifica per tutta la famiglia. Per questo motivo, mentre nelle narrazioni maschili non emergono dettagli sui bisogni familiari, nelle storie delle donne vengono enfatizzate le necessità materiali della famiglia a conferma dello spirito di sacrificio materno. Nei discorsi delle donne, le migrazioni femminili rappresentano “un modo estremo per portare a termine il proprio compito” (Lagomarsino, 2006): la migrazione delle donne ha bisogno di legittimazioni simboliche utili ad attribuire un nuovo ruolo familiare al femminile. In

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questa prospettiva, le traiettorie di mobilità femminile sono condizionate dai modelli culturali che vengono applicate alle figure genitoriali per impedire situazioni di abbandono e individualismo della madre migrante. Lagomarsino (2005, 2007) propone di considerare l’eterogeneità dei percorsi di mobilità delle donne per evidenziare il peso esercitato dai processi di costruzione sociale delle soggettività migranti. L’immaginario collettivo che rappresenta le donne migranti come gruppo omogeneo permette di occultare i molteplici posizionamenti, le situazioni di assoggettamento e di privilegio. L’eterogeneità nelle forme di maternità e di famiglia riscontrate nella ricerca di Lagomarsino (2005, 2007) mette in luce la presenza di dinamiche di negoziazione continua della soggettività migrante.

2.7 La costruzione sociale della sessualità delle donne migranti latinoamericane

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